Bambini e internet: che fare? (2)

baby-ipad6) Fate rispettare (e rispettate) queste regole: una volta stabilite le regole e comunicatele a tutti i membri della famiglia, preoccupandosi che siano state capite e condivise, non vi rimane altro (si fa per dire!) che farle rispettare. A questo punto, infatti, di solito nascono i problemi perché far rispettare le regole è spesso impegnativo e difficoltoso. Soprattutto perché, come accennato, anche gli adulti dovranno rispettare le stesse regole pena la perdita dell’autorevolezza. Riprendendo l’esempio di prima, se la regola impone il divieto di utilizzo di tablet mentre si mangia necessariamente anche gli adulti dovranno astenersi dal farne uso. Il rischio è che il bambino percepisca la debolezza della regola e si chieda perché debba rispettarla se anche i grandi non la rispettano. Di solito gli adulti si appellano al loro ‘essere grandi’, status che ai loro occhi li esonera dal rispetto della regola stessa. Credo sia una mossa altamente pericolosa, perché inficia il fatto che la regola valga per tutti, facendo implicitamente credere al bambino che la regola stessa non abbia poi così tanto valore. Altro messaggio implicito è che l’insieme delle regole che strutturano la sua casa non siano poi così ferree e che si possa sempre trovare una scappatoia. State quindi attenti alle regole che imponete, perché sarete i primi a doverle rispettare;  

7) Cercate di stabilire delle regole condivise con i genitori dei bambini che frequentano di più: se il bambino va spesso a casa del suo amico del cuore, cercate di stabilire una relazione anche con i genitori del suo amico. Sarebbe bene cercare di condividere con loro della regole che possano andar bene ad entrambe le famiglie. Questo permetterà di non creare particolare discrepanze tra il vostro contesto familiare e quello della famiglia dell’amico che frequenta. Se voi foste particolarmente rigidi mentre la famiglia del suo amichetto del cuore fosse particolarmente permissiva, si creerebbe una discrepanza che porterebbe il bambino a farsi delle domande sull’assetto che voi avete scelto per la vostra famiglia, e magari a metterlo in discussione. Se anche l’ambiente sociale risultasse coerente, invece, avrete la possibilità di costruire un modello educativo più autorevole. Questo aspetto è molto complesso e necessariamente mediato tra le esigenze di famiglie diverse e con una diversa storia;

8) Chiedete ad altri genitori come si comportino: il punto precedente, forse uno dei più difficili, poneva l’accento sulla possibilità di creare una sorta di rete genitoriale con le persone che vi sono più vicine, come per esempio altri genitori di bambini che frequentano la scuola di vostro figlio. Questo confronto può essere utile per cercare di capire e di riflettere su come gli altri genitori si comportino con i propri figli, facendovi comprendere cosa sarebbe applicabile in casa vostra e cosa non lo sarebbe, cosa funzionerebbe e cosa invece sarebbe controproducente. Se potete, coltivate questo confronto;

9) Utilizzate programmi che consentano di filtrare i risultati: una strategia pratica che potrebbe essere di grande aiuto è quella di utilizzare dei programmi che consentano di filtrare i risultati. Tra le funzioni dei principali motori di ricerca e sui principali browser di navigazione, alcune consentono di filtrare i risultati in base all’età del frequentatore. Nel caso il bambino dovesse rimanere per qualche tempo solo di fronte al computer, sarebbe più difficile che incappasse in risultati indesiderati;

10) Spegnete computer, tablet e smartphone e passate del tempo con vostro figlio facendo tutt’altro: se anche i vostri figli sono nativi digitali, sarebbe bene che godessero del rapporto con voi facendo altro. Cercate di coinvolgerli il più possibile in attività pratiche, ricreative e creative: giocare a pallone, andare in bicicletta, costruire qualcosa, sono attività altrettanto importanti che consentiranno loro di costruire un rapporto con voi in attività non legate esclusivamente alla fruizione di internet.

Quello che avete appena letto non vuole essere un decalogo da rispettare, quanto una proposta di riflessione sul rapporto tra noi, i bambini e la nuova realtà virtuale che avanza. Come sempre chi volesse/potesse condividere la sua esperienza può farlo contattandomi per mail (fabrizioboninu@gmail.com) oppure per telefono (3920008369). 

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

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Bambini e internet: che fare? (1)

baby-ipadLe implicazioni di internet, dell’uso dei social network e le possibili conseguenze rimangono spesso sottovalutate a livello genitoriale. In studio capita che genitori mi raccontino, apparentemente poco interessati al tema, che i figli passano molto tempo su internet e rimangano spesso soli di fronte al computer, senza l’assistenza e l’accompagnamento di un adulto. Questi genitori, molto accorti, premurosi e solletici per la salute dei loro figli, non si sognerebbero mai di lasciare, per esempio, il bimbo da solo con in mano un coltello o un paio di forbici. Mi chiedo, allora, se non ci sia una minimizzazione e una poca consapevolezza del significato di internet e degli aspetti che tramite internet vengono veicolati. Credo che molti genitori vedano il web e tutta la realtà virtuale come una specie di gigantesco gioco, qualcosa che ha solo vaghe influenze sul mondo reale. Questa sottovalutazione passa spesso anche ai bambini e ai ragazzi i quali poi si ritrovano a trascurare in maniera pericolosa le conseguenze di quello che fanno/postano/condividono online (vedi, per esempio, i molti casi di cyberbullismo sempre più frequenti). 

Partendo da queste premesse, ho pensato di stilare una sorta di decalogo di come accostarsi al meglio alla realtà virtuale, rendendo questa esperienza non solo produttiva, ma anche gratificante sia per i piccoli che per gli adulti che si occupano di loro:

1) Non lasciate soli i bambini di fronte al pc: la prima regola in assoluto sarebbe quella di non lasciare soli i bambini di fronte al computer: la loro curiosità e la loro buona fede potrebbe renderli facili prede di siti poco raccomandabili che, proponendo cartoni animati o immagini molto colorate, faccia assistere loro ad episodi di natura sessuale esplicita oppure di violenza esplicita. Un adulto che li accompagni e che condivida con loro quello al quale assistono renderà l’esperienza produttiva per diversi aspetti: ci sarà la possibilità di filtrare ciò che vedono, non si sentiranno soli e si sentiranno supportati nei loro interessi;

2) Parlate di ciò che i bambini vedono: la seconda regola riguarda i possibili ‘incidenti di visione’: può capitare che navigando su Internet si assista ad episodi o a scene inadatte. Se dovessero vedere qualcosa di inopportuno non cercate di evitare di parlarne per quanto la cosa possa imbarazzare anche voi. Non cambiate discorso, non distraete il bambino ma lasciate che tutte le curiosità abbiano la possibilità di venire fuori e di essere espresse. Il punto è che i bambini si accorgono che quello che hanno visto non era adatto loro e che, probabilmente, è una cosa che vi mette in difficoltà. State attenti a non censurare questo bisogno del bambino, lasciate che i dubbi e le perplessità possano essere comunicate. L’aspetto importante è che sentano che gli adulti intorno a loro siano in grado di accogliere le loro paure, i loro dubbi, le loro domande e contenerle senza lasciarsene spaventare. Questo permetterà loro non solo di significare quello che hanno visto ma farà si che sia legittimata l’espressione di ogni emozione, ogni sensazione che possono provare sapendo che c’è un adulto vicino a loro in grado di comprenderla e accoglierla;

3) Stabilite una serie di regole col partner per cercare di essere coerenti nell’imposizione e nel rispetto delle regole: altro passo importante è la condivisione delle norme tra voi e il vostro partner facendo in modo che le regole siano condivise all’interno della coppia genitoriale e siano perciò fatte rispettare coerentemente dall’uno e dall’altro genitore. Assisto spesso alla ‘polarizzazione’ dei ruoli genitoriali, con un genitore ‘buono’ e uno ‘cattivo’, uno permissivo e l’altro intransigente. Questa ripartizione permette ai figli di incunearsi tra i genitori e ottenere ciò che desiderano. La condivisione delle regole da stabilire renderà entrambi i genitori partecipi nel farle rispettare e renderà più difficile l’interposizione dei figli negli spazi lasciati dai genitori; 

4) Domandatevi e discutete in coppia quale sarà l’età per concedere: provate a chiedervi quali siano le età nelle quali concedereste l’uso di determinati strumenti: a che età pensate possa essere consono dare un telefono cellulare al proprio figlio? A che età pensate possa essere necessario farlo iscrivere su un social network? Una volta iscritto, quale limitazioni avrebbe? Dovrebbe essere accompagnato mentre sta sul social network? Nel caso utilizzasse un telefono cellulare con connessione ad Internet, quale tipo di limitazioni avrebbe? Queste domande vi aiuteranno a chiarire i punti per voi importanti e vi aiuteranno ad individuare quali regole pensate sarebbe necessario stabilire;

5) Stabilite, nella fruizione di internet, delle regole sull’uso del pc (o tablet o smartphone): se un bambino sa che insistendo avrà il permesso di utilizzo del pc o di tablet, saprà di avere un grande potere in mano e che, utilizzando la reazione giusta, potrebbe ottenere ciò che desidera. Se in famiglia esiste invece un codice di regole, ben strutturato, ben motivato e coerente con le esigenze familiari sarà ben difficile per il bambino cercare di infrangerlo. Se, per esempio, la regola è che durante i pasti non si usano telefoni o tablet perché si sta insieme, si mangia e si parla, la chiarezza e la coerenza della regola permetterà al bambino di rispettarla. Naturalmente una regola è coerente se la stessa regola vale anche per gli adulti (vedi punto 6!);

– CONTINUA –

 

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Tre diversi modi di essere in terapia (3)

Dopo aver visto le prime due posizioni, vediamo la terza ed ultima possibilità esposta da Whitaker:

Un terzo modello può essere definito come ridare potere al paziente o alla famiglia. Questo approccio è utile quando l’adulto si sente debole, desideroso di appartenere, è prostrato dal fallimento, vorrebbe far parte di una squadra, riassumere la responsabilità di se stesso, ma non sa come fare. Il terapeuta diventa quindi un padre, che esorta, chiede, crede che il paziente sia in grado, se si sforza, di adattarsi allo stress. In questo caso il compito del terapeuta consiste nel richiedere al paziente di acquistare forza, senza offrirgli però un sostegno diretto, come fa un allenatore di una squadra di calcio quando incoraggia i giocatori ad aumentare la loro capacità aerobica, a mettercela tutta, a essere spontanei e a prendere iniziative. Il terapeuta deve avere potere e controllo solo su alcuni aspetti limitati della vita del paziente – essenzialmente sulla durata e sul tipo di esercizio da fare, sul luogo e l’ora dell’allenamento. Se questo metodo è successo il paziente continua a ‘tenere in gioco la palla’, sarà gratificato da sui progressi. Vi è comunque un periodo iniziale, nel quale ‘l’allenatore’ deve forzare il ‘giocatore’ a riprendersi il potere: il terapeuta deve spingere il paziente a definire il suo gioco, la propria partecipazione, a scegliere con lui la più congeniale, che può dargli soddisfazione con il minor dispendio di energie. A quel punto l’allenatore, il terapeuta, diventa un tifoso, che si rallegra per i progressi e i sogni del paziente.

Questa è quella che Whitaker stesso definisce come posizione paterna, una posizione che riguarda la possibilità di intervento supportiva del terapeuta nei confronti del paziente. In questo caso più che la dipendenza, il problema può essere quello legato allo sprono da parte del terapeuta che, almeno inizialmente, deve, proprio come nella metafora dell’allenatore, motivare il proprio giocatore e obbligarlo a costruire e tracciare il proprio percorso. Per quanto si ripeta spesso che la terapia dovrebbe essere un accompagnare il paziente all’interno del suo stesso percorso, si palesa una posizione che in terapia è spesso necessario tenere, almeno nelle prime fasi iniziali del processo stesso.

L’autore utilizza il termine di ‘forzatura’, che appunto, perlomeno inizialmente, è necessario utilizzare affinché il paziente possa riappropriarsi della sua posizione. Dovendo superare un insieme di automatismi che ormai conosce bene, il paziente deve essere spinto verso una nuova prospettiva. Il lavoro è molto delicato perché il terapeuta deve sapere dove fermarsi dal momento che, se imponesse la sua visione al paziente, starebbe, come nella prima posizione, assumendo per vero lo stereotipo che, all’interno della relazione terapeutica, sia lui quello che sa come fare. Incorrerebbe, in questo caso, nella stessa posizione di onnipotenza che spesso porta la terapia a falsi avanzamenti e continue ricadute del paziente stesso.

Come dice lo stesso Whitaker: Il meta-problema, in tutte queste forme di psicoterapia, è come far si che il terapeuta impari a perfezionare il proprio ruolo terapeutico, senza diventare schiavo né della dipendenza del paziente, né delle proprie fantasie di potere. Il pericolo che corre il terapeuta è simile a quello che corre una madre: è quasi impossibile modificare il proprio ruolo e porsi su un piano di parità con qualcuno che, un tempo, era nostro figlio! 

Perfezionare il ruolo di psicoterapeuta richiede una difficile fusione tra la capacità di essere persona e la capacità di entrare in un ruolo e credo sia una di quelle cose che, con una espressione inglese, viene definita lifelong learning , qualcosa per imparare la quale occorra tutta una vita. Credo che l’importante sia avere la consapevolezza della delicatezza ed importanza del proprio ruolo nei confronti della vita dell’altro. Solo così è possibile evitare di cadere nella trappola dei propri stereotipi.

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

[1] Whitaker, C. (1989), Considerazioni notturne di un terapeuta della famiglia, Astrolabio, Roma, pag. 174

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Tre diversi modi di essere in terapia (2)

Abbiamo già visto una delle diverse posizioni che possono essere assunte all’interno del rapporto psicoterapeutico. Dopo aver visto un primo orientamento, quello che vedeva un terapeuta esperto e un paziente ‘dipendente’ vediamo un secondo orientamento. Il brano che vi riporto è tratto, come nel primo post, dal testo Considerazioni notturne di un terapeuta della famiglia, di Carl Whitaker e ve lo riporto integralmente:

Un secondo orientamento psicoterapeutico è basato sull’offerta di un modello di ristrutturazione. Di solito questo si fonda sull’intuizione, la comprensione, l’analisi e sul tentativo di dimostrare che il terapeuta conosce il segreto di una vita migliore. Considerando il fatto che la sofferenza e l’impotenza rendono il paziente insicuro, l’apprendimento di queste nuove tecniche può essere molto utile. Il rischio è, ancora una volta, che il fascino della dipendenza e della mancanza di iniziativa prenda il sopravvento, trasformando il paziente in un adolescente che si dibatte oscillando fra il suo bisogno di dipendere e il suo desiderio di essere indipendente, fra la paura di perdere il proprio senso di identità e quella di soffocare la propria creatività. [1]

Questa posizione sembra molto più equilibrata rispetto alla posizione vista con il primo esempio. In questo caso il terapeuta non si fa conquistare dal fascino della posizione che il paziente cerca di attribuirgli (tu sai come fare!) ma si preoccupa semplicemente di fornire un ‘modello di ristrutturazione’, un modello alternativo a quello che è il modello del paziente.

Se, volendo esemplificare, il paziente si raccontasse come vittima della malevolenza della moglie, e che attorno a questo tutta la sua vita ha assunto dei contorni tragici, scopo della terapia potrebbe essere quello di introdurre un nuovo punto di vista che possa permettere al paziente di ristrutturare la propria immagine e non vedersi solo, come nel’esempio, vittima della moglie. Si tratterebbe in questo secondo caso, di capire cosa, per esempio, ha fatto si che questo marito accettasse la malevolenza della moglie e quale significato avrebbe questo per lui. Questa nuova lettura può aprire prospettive interessanti perché permette di scardinare storie ormai sedimentate nelle quali spesso ci riconosciamo senza avere più la possibilità di metterle in discussione.

Anche in questo caso è necessario prestare particolare attenzione alla posizione del terapeuta dal momento che questo lavoro oscilla tra il bisogno di smarcare il paziente e renderlo indipendente e il bisogno del paziente di coltivare la dipendenza nel rapporto. Questa posizione può essere elaborata accogliendo le richieste del paziente, ma utilizzando qualunque richiesta stessa per lavorarci assieme in terapia, dotarla di significato e renderla esplicita nella relazione terapeutica stessa. Nel momento in cui questo viene esplicitato nel rapporto infatti, è possibile lavorarci col paziente ed è possibile che il paziente stesso, grazie alla consapevolezza acquisita, possa utilizzarlo come strumento di una nuova cognizione di se. 

– Continua –

[1] Whitaker, C. (1989), Considerazioni notturne di un terapeuta della famiglia, Astrolabio, Roma, pag. 173

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Tre diversi modi di essere in terapia (1)

tre diversi modi di essere in terapiaIl post di oggi ha a come obiettivo quello di cercare di delineare quelle che sono le diverse ‘tendenze’ all’interno di un percorso di terapia. Molti spesso credono che ci sia un solo modo di fare terapia, come se uno psicoterapeuta, una volta che ha imparata una tecnica, la potesse pedissequamente applicare ad ogni persona con la quale ha la fortuna di trovarsi a lavorare. In realtà la ‘materia’ della psicoterapia, la persona o il gruppo con cui si lavora, è materia liquida, complessa, ed è per questo che non si può fare a priori una definizione o una delineazione di quello che succederà in terapia, data la costruzione stessa del rapporto terapeutico che non può essere inquadrato in regole o in classi. E’ possibile, ed è questo che proviamo a fare oggi, cercare di delineare uno ‘stile’ di terapia, un modus operandi che il terapeuta applica all’interno del suo lavoro. Questo post è basato sulle posizioni e sulle considerazioni dello psicoterapeuta americano Carl Whitaker che nel suo bellissimo libro Considerazioni notturne di un terapeuta della famiglia, cerca di delineare alcune riflessioni su cosa voglia dire essere uno psicoterapeuta e su come questo mestiere debba interagire con l’altro. Vi riporto i tre modi con cui Whitaker cerca di delineare degli ‘stili di terapia:

Il primo è l’eliminazione del sintomo. Il paziente la famiglia arrivano in uno stato di carenza emotiva, simili a bambini indifesi, insicuri ed incapaceidi agire, per mancanza di nutrimento, di forza, di opportunità di crescita. La risposta più ovvia a questi sintomi è l’offerta di nutrimento  e di cure di una madre affidataria. Il rapporto che si crea è molto simile a quello di un maestro che incoraggia il bambino a leggere, studiare, a imparare, a creare, stimolandolo sempre di più ad apprendere. Uno dei problemi principali che derivano da questo atteggiamento è la sindrome ‘mamma sa tutto’.

Il terapeuta escogita sempre nuovi trucchi per cambiare le cose, ma finisce per far perdere completamente al paziente la libertà di prendere iniziative. Questo significa che il paziente e la famiglia diventano sempre più dipendenti e dubitano sempre di più di se stessi, mettendo il genitore affidatario nella temporanea ma gratificante situazione di essere un Dio onnipotente. A quel punto il genitore affidatario deve trovare il sistema per risolvere una situazione simile, per molti aspetti, a quella che di un bambino nel distaccarsi dalla famiglia, in un’età in cui ha ancora bisogno di dare e di ricevere affetto. [1]

Il primo modo è il modo in apparenza più semplice. Si tratta di delineare all’interno della relazione chi sa (il terapeuta) e chi non sa (il paziente). Chi sa deve prodigarsi affinché chi non sa abbia una soluzione al problema per il quale è venuto e ha iniziato una terapia. Questo porta a due conseguenze entrambe pericolose se non maneggiate con consapevolezza dal terapeuta: chi non sa ottiene una soluzione a sua misura, ma indirettamente riceve la conferma che se non ci fosse stato l’intervento del terapeuta non avrebbe saputo come fare e quindi rinforza in se stesso l’idea di non ‘saper fare’ autonomamente.

Il terapeuta può, invece, crogiolarsi nel ruolo di colui che ‘sa come/cosa fare’, crederci in blocco e passare dalla posizione aperta di terapeuta (ti aiuto ad aiutarti) alla posizione chiusa di guru (fai come ti dico). In questa posizione la libertà del paziente è messa a dura prova, perché penserà di avere sempre bisogno del supporto del terapeuta per poter procedere, mentre l’onnipotenza del terapeuta ne uscirà rafforzata perché si alimenterà di un nuovo caso nel quale i suoi consigli hanno apparentemente risolto la situazione. Credo che questo, se il terapeuta non è consapevole di ciò che sta avvenendo, non sia un buon modo di fare terapia per varie ragioni: non si rende indipendente il paziente all’interno delle sue scelte e si coltiva la disparità di ruolo all’interno della relazione terapeutica (io terapeuta so vs. tu, paziente non sai).

– Continua –

[1]Whitaker, C. (1989), Considerazioni notturne di un terapeuta della famiglia, Astrolabio, Roma, pag. 173

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Il compito degli educatori

Cuore-Mary

E’ più facile insegnare che educare,
perché per insegnare basta sapere,
mentre per educare è necessario essere
– Alberto Hurtado –

 

Quando accadono fatti di cronaca nera che coinvolgono bambini o adolescenti, vengono citate, tra le cause di quello che succede, la mancanza di figure educative che possano in qualche modo porre freno alla deriva apparentemente senza fine di questi fatti terribili. Chi è un educatore oggi? Il termine è veramente molto vago e potrebbe delineare tutti coloro che si occupano a vario livello di persone che abbiano bisogno di una guida. Sicuramente è un educatore il genitore, è un educatore l’insegnante, è un educatore l’allenatore sportivo.

Secondo il dizionario Treccani, l’educatore è colui il quale ‘educa, e soprattutto chi per vocazione o per professione compie l’ufficio di educare i giovani’. Punto principale di questa definizione è il termine educare: l’etimologia del termine deriva dal latino e-ducere, letteralmente condurre fuori, ma anche trarre da e sottolinea il lavoro maieutico di portare fuori l’adulto dal ragazzo, di riuscire ad insegnargli a come diventare grande. Se non ci sono dubbi sul fatto che gli adulti abbiano questo immenso potere, ce ne sono invece tanti sul come si fa l’educatore. 

Gli insegnanti o i formatori continuano a fare interventi caratterizzati dalla tendenza a spiegare, a moraleggiare, puntando esclusivamente sugli argomenti logici o sugli sforzi informativi. Siamo portati con i soggetti in età evolutiva ad esortare e a fare la predica. Ci convinciamo che il fulcro della nostra missione sia consigliare, offrire suggerimenti o soluzioni. Come educatori tendiamo sempre prima di tutto ad insegnare, argomentare, persuadere; per allontanare la complessità e la sofferenza possiamo rassicurare, simpatizzare, consolare, sostenere; quando il disagio in noi aumenta allora attendiamo a sottrarci, cambiare argomento, scherzare, distrarre; infine quando gli allievi non corrispondono più alle nostre aspettative allora etichettiamo, ridicolizziamo, umiliamo, giudichiamo, critichiamo, biasimiamo, diamo ordini, minacciamo… Magari in nome di una cultura democratica.

Siamo insomma disposti a fare di tutto per fuggire dal compito arduo dell’ascolto delle emozioni e delle storie dei nostri interlocutori. I bambini, i ragazzi che hanno difficoltà ad accettare l’altro, così come quelli che vivono l’esperienza di essere considerati diversi, sono soggetti che hanno massimamente bisogno di un ascolto attivo. Dietro la rabbia, l’arroganza, il disprezzo, l’onnipotenza che sottendono i comportamenti razzisti violenti, ci sono a ben vedere sentimenti che tendono ad essere mascherati, negati e trasformati nel loro contrario: la solitudine che spinge alla coesione compensativa del gruppo violento, l’impotenza che si tramuta in arroganza onnipotente, la paura che diventa il coraggio nei confronti dei più deboli magari perché provenienti da altrove. E ascoltare, per un educatore, non significa certo accettare schemi violenti a manipolatori, bensì favorire una circolarità dell’ascolto, promuovere nel gruppo classe la possibilità di lasciare esprimere e legittimare sentimenti, punti di vista, storie di vita che hanno una loro radicale originalità. [1]

Il punto che reputo importante del passo che vi ho riportato è la difficoltà che spesso gli adulti hanno nel rapportarsi con la realtà emotiva dell’altro. Presi come siamo dal voler imporre, con difficoltà riusciamo (se ci riusciamo!) a fermarci ad ascoltare la realtà dei ragazzi, condividerne la visione del mondo, comprendere le scelte, supportarne le paure. Il confronto coi ragazzi, e parlo per esperienza diretta, richiede, prima di entrare in contatto con l’altro, l’entrare in contatto profondo con se stessi, con le proprie paure, con la propria visione del mondo. Ed è un terreno  nel quale non ci piace avventurarci, specie se diamo per scontato che diventando adulti abbiamo anche acquisito il potere di non dover più confrontarci con parti di noi che non ci piacciono e che non hanno necessità di essere rinvangate.

Il confronto coi ragazzi invece ci porta spesso su quel terreno e faremmo di tutto per evitarlo. Più evitiamo questo confronto, più ci irrigidiamo nei confronti del bambino/ragazzo, più questo sente la nostra distanza rendendo questo un circolo vizioso che si alimenta di continuo, diventando problematico spesso durante l’adolescenza, età nella quale tutte le dinamiche appaiono particolarmente amplificate. Come si spezza il cerchio? Con l’ascolto, un ascolto attivo, un ascolto partecipe, un ascolto interessato, che faccia sentire l’altro coinvolto in quello che ci riguarda. Un ascolto che parta dal nostro stesso ascolto, dalla conoscenza, dalla comprensione e dall’accettazione di quello che noi sentiamo e proviamo. Solo in questo modo potremmo metterci a disposizione per l’altro. Non è sicuramente una cosa facile: dopotutto anche a noi è stato insegnato di crescere mettendo da parte quanto più possibile la nostra realtà emotiva.

Solo recuperando quello che ci appartiene possiamo utilizzarlo come ponte per comunicare con chi, in fondo, vuole essere aiutato a tirare fuori  e a capire come maneggiare quello che sta faticosamente iniziando a sentire. 

 

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

 

[1] Foti, C. (2012), La mente abbraccia il cuore, Edizioni GruppoAbele, Torino, pag. 185

 

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Ipersemplificare la realtà

semplificareIl sottotitolo di questo post potrebbe essere ‘viaggio al centro di una realtà più facile’. Una delle tendenze che ho notato maggiormente, nel mondo virtuale ma non solo, è come tutto venga semplificato in maniera incredibile. Di qualunque cosa si tratti, di qualunque cosa si parli, di qualunque cosa si discuta, le posizioni degli interlocutori si polarizzano sulla semplificazione estrema, su un buono e su un cattivo, su un giusto e sbagliato, anche quando si tratta di realtà ben più complesse. Come mai avviene tutto questo? Che bisogno abbiamo di questo movimento? Una delle prime spiegazioni che mi viene in mente riguarda il fatto che forse proprio ora abbiamo idea della complessità della realtà che ci circonda. Mi spiego meglio: siamo nel momento storico in cui abbiamo la maggiore disponibilità di informazioni che l’uomo abbia mai avuto. Non so se tutto sia disponibile online, ma è vero che un enorme numero di informazioni è disponibile per chiunque.

Il vero problema in questa mole di informazioni diventa, semmai, quello di vagliare la validità o meno di queste informazioni. Se è vero che i nuovi media, come i social network, hanno fornito una massa di informazioni in più, che l’uomo non ha mai avuto a disposizione, è anche vero che è diventato ancora più complicato cercare di interpretare questa quantità enorme di informazioni, cercare di capirne il senso e conseguentemente capire il nostro senso rispetto a quello che veniamo a sapere. Fare questo non è assolutamente facile, ne semplice, anzi.

La difficoltà percepita nel maneggiare ed interpretare queste informazioni rinforza la tendenza a sfrondare il più possibile la realtà da quegli elementi che non comprendiamo per non aumentare ancora di più la possibile confusione interpretativa. Questo lavoro di sfoltimento comporta necessariamente la problematicità di stabilire che cosa sia o che cosa non sia realistico, che cosa sia o che cosa non sia veritiero. Inevitabilmente questo comporta la necessità di semplificare quello che abbiamo capito essere troppo complesso. Ad esempio considerare l’Euro in tutta la sua complessità è molto più ostico rispetto al dire che l’Euro è colpevole di tutti i mali nei quali ci troviamo. Che, se ci si sofferma a pensare, sarebbe come affermare che il maggior numero di feriti per armi da taglio dipenda dal fatto che ci sono troppi coltelli in giro.

Questo disorientamento informativo porta ad una ipersemplificazione della realtà perché le persone non sentono più di avere gli strumenti, nel mare magnum delle informazioni disponibili, per accettare il livello di complessità che la realtà ha ormai mostrato. Inoltre è molto più protettivo per noi pensare di conoscere (e padroneggiare) la realtà nella quale ci troviamo. Questo, credo, è ciò che avviene: più informazioni abbiamo, più abbiamo bisogno di semplificare quello che ci vien detto dovendo sacrificare, sull’altare della comprensione, la complessità della realtà all’interno della quale ci muoviamo. Più ci addentriamo nella conoscenza, più ci addentriamo nel sapere che cosa succede, più ci addentriamo e capiamo qual è appunto la complessità di tutto ciò che ci circonda, più abbiamo bisogno di negare questa complessità.

La prospettiva da preferire, per quanto ovviamente più difficile, sarebbe appunto quella  della complessità: è fuorviante pensare che esista un’unica causa per spiegare quello che ci circonda, è complicato capire dove possa collocarsi il ‘colpevole’ o la ‘vittima’, dove si collochi il buono e dove il cattivo in molti ambiti della nostra vita quotidiana. E’, invece, apparentemente più semplice, ma credo meno esaustivo, concentrarci su chi sia il buono da tifare o il cattivo da stigmatizzare, dove sia il giusto e dove sia lo sbagliato, cosa sia da mettere sugli altari e cosa gettare nella polvere.

L’ottica della complessità è per me assolutamente necessaria per cercare di capire quella che è la sovrapposizione di diversi livelli della realtà che ci circonda. La soluzione non è quella di semplificare le informazioni che riceviamo perché questo movimento solo apparentemente ci aiuta nella comprensione di cosa sta succedendo intorno a noi. Semplificare può essere rassicurante, ma non ci consente di leggere la natura di ciò che ci circonda. Il fatto che la complessità comporti uno sforzo maggiore per comprendere sarà alla lunga ben più appagante che tifare quello che abbiamo eletto il buono (o il cattivo naturalmente!).

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

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La costruzione di un buon dialogo interiore (2)

dialogo interiore2Una delle tematiche nelle quali in adolescenza è indubbiamente necessario sviluppare un buon dialogo interno è sicuramente il tema della sessualità:

Ugualmente, il supporto che ragazzi devono ricevere li metterà nelle condizioni di saper fronteggiare e avere controllo sulle influenze provenienti dal mondo esterno, in particolare in tema di sessualità. È fondamentale che ogni genitore e insegnante li aiuti a sapersi districare nella giungla di condizionamenti negativi che cercano di incidere sullo sviluppo psicofisico, sull’adozione di attitudini e valori che si traducono poi in scelte comportamentali e stili di vita. Solo avendo a disposizione adulti competenti e aperti, disponibili a parlare e ad essere di orientamento in un percorso tortuoso quale è spesso l’educazione sessuale, preadolescenti e adolescenti potranno interiorizzare messaggi significativi che diventeranno di riferimento in momenti cruciali della propria vita. In questo senso è fondamentale che i genitori, in primo luogo, se possibile supportati dalla scuola, riescano a definire i tempi e modi di un’educazione affettiva e sessuale che sappia comunicare il valore relazionale ed emotivo che la sessualità riveste nella vita di ciascuno di noi, allontanando all’equazione che sempre più spesso il mercato gli stessi media propongono i ragazzi per cui la sessualità viene esclusivamente identificata con uno strumento che procura eccitazione e piacere. [1]

L’autore sottolinea come sia necessario sviluppare un dialogo interiore per evitare che il peso delle voci che provengono dall’esterno non abbiano un contraltare e possano così avere campo libero. Se così fosse, come spesso succede in adolescenza, si rischierebbero comportamenti dettati più dalle spinte esterne che dalle motivazioni interne. Questa capacità porterà ad agire in base al proprio sentire. La focalizzazione riguarda il tema della sessualità che in adolescenza gioca un ruolo molto forte anche a causa dei cambiamenti fisici che caratterizzano questo periodo della vita. Se un adolescente non è riuscito a costruire un buon dialogo su queste tematiche con una persona per lui significativa, correrà il rischio di non riuscire ad instaurare un suo dialogo circa quelle che poi saranno le sue stesse scelte sessuali. Se non è riuscito ad instaurare un dialogo con l’altro, probabilmente incontrerà difficoltà anche nel dialogo con se stesso (o stessa naturalmente!), non avrà una posizione sua rispetto a quello che succede intorno a lui. Potrà essere disorientato e temere quello che può succedere dal momento che non ha idea di cosa provocherà in lui.

Gli esiti possono essere estremi come spesso accade in adolescenza: il ragazzo potrà buttarsi a capofitto nell’agito, nascondendo la paura per ciò che sta succedendo, dimostrando ancora una volta che non è necessario nessun dialogo interiore, nessuna consapevolezza nel fare le cose. Oppure, di contro, essere timoroso ed evitante riguardo alla sfera sessuale. Nel primo caso avremo un adulto che continua a non essere in grado di instaurare un dialogo con se stesso, nel secondo una persona spaventata da ciò che non conosce. Naturalmente sono posizioni estreme che, nella loro purezza, non esistono. Sono, però, indicative di due diversi atteggiamenti nei confronti di diverse realtà che, secondo me, sono imparentate dalle stesse cause: l’incapacità nella costruzione di un proprio dialogo interiore.

È dunque necessario che questo processo venga non solo messo in moto ma anche coltivato nel tempo di modo da riuscire ad attecchire nella mente e nel cuore dei giovani ragazzi. Solo così sarà possibile autonomizzarli, rendendoli in grado di capire il valore delle scelte che effettuano ogni giorno. E solo così saranno scevri dalla possibilità che si trasformino in burattini nelle mani di voci esterne, voci che spesso, solo per il fatto di urlare di più, vengono considerate più credibili.

Ed il punto di partenza di questa piccola rivoluzione è alla portata di tutti: basta semplicemente imparare a prestare loro attenzione.

Che ne pensate? Che tipo di dialogo interiore siete riusciti a costruire con voi stessi?

A presto…

Fabrizio Boninu

[1] Pellai, A. (2012), Questa casa non è un albergo!, Feltrinelli, Milano, pp. 186-188

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La costruzione di un buon dialogo interiore (1)

dialogo interiore2Il post di oggi  ha come tema la costruzione e lo sviluppo del proprio personale dialogo interiore. Cosa si intenda con questa espressione è presto detto: il dialogo interiore è la capacità che abbiamo di parlare con noi stessi. Sembra una cosa di poco conto, penserete. Chi non è in grado di parlare con se stesso? In realtà non è così scontata perché se è vero che è un’attitudine che abbiamo da sempre, è anche vero che ciò che fa la differenza è quanto riusciamo a prestare attenzione a cosa ci diciamo e al modo in cui ce lo diciamo. La premessa fondamentale per avere un buon dialogo interiore riguarda il fatto che si abbia una buona capacità introspettiva, la capacità in altre parole di guardare in se stessi. Se manca questa è molto difficile che si possa avere la consapevolezza di ciò che ci si vuol dire. Quante volte ci capita di parlare tra noi e di non avere la più pallida idea di ciò che ci si sta dicendo? Questo dialogo avviene in continuazione rispetto a quello che succede nella nostra vita e, dato che costituisce una realtà assodata della nostra stessa esperienza, spesso non ci facciamo caso, non ne siamo per nulla consapevoli e ce ne rendiamo conto solo nel momento in cui questo dialogo provoca una forte emozione (rabbia, smarrimento, paura ecc). La vera differenza, allora, a mio avviso è data soprattutto dalla capacità di ascoltarsi. Ascoltarsi, infatti, prevede che mettiamo attenzione a ciò che ci diciamo.

Abbiamo detto che possediamo questa capacità di parlarci, sia a voce alta che a mente, da sempre. Credo invece che la capacità di prestare attenzione a ciò che stiamo dicendo sia una capacità acquisita e che dipenda molto dalle relazioni che riusciamo a costruire con le persone ed, in ultima analisi, con noi stessi. La capacità di ascolto è costruita sulla relazione con gli altri nel momento in cui viene interiorizzata. Mi spiego meglio: credo dipenda da come ci ascoltano gli altri, dal continuo rimando rispetto a ciò che diciamo, da ciò che ci restituiscono col dialogo le altre persone, a come questo ci fa riflettere su noi stessi. Tramite questo riusciamo a portare sempre più consapevolezza in ciò che avviene in noi, nei nostri pensieri e nei nostri dialoghi. Più sperimentiamo questo dialogo, più iniziamo a sperimentare la necessità dell’ascolto, dapprima degli altri rispetto a quello che diciamo per poi interiorizzarlo e farlo nostro. Questo confronto è necessario durante tutta la vita, ma una delle fasi della vita nelle quali gli individui iniziano a sperimentare in maniera molto forte la necessità di ascolto è sicuramente l’adolescenza. E’ il periodo della vita nel quale il dialogo deve necessariamente passare dall’esterno all’interno, passare, cioè, dalla prospettiva che siano gli altri a dirci cosa sia o non sia giusto fare (tipico del punto di vista dei bambini), all’idea che possiamo iniziare a diventare autonomi nell’esplorare le infinite possibilità che riguardano la nostra vita. Questo porta spesso gli adolescenti ad un disperato bisogno di condividere ciò che sta succedendo e di riceverne delle restituzioni. Porta anche spesso ad un isolamento nel momento in cui non ci si sente ascoltati e nessuno sembra capire quanto sia importante quello che si ha da condividere.

Il brano che vi riporto riassume ciò che intendo dire e quanto il dialogo interiore debba, per crescere e diventare sempre più consapevole, essere supportato dal dialogo reale:

Diviene cruciale, come adulti, impegnarsi perché i nostri figli sperimentino quindi un clima di ascolto e dialogo ideale, sia in famiglia che a scuola. Questa è la premessa fondamentale per generare competenze non soggetto in età evolutiva. Crescere deve significare prima di tutto imparare a dialogare e ascoltarsi in modo efficace e competente, fattore di protezione che eviterà al minore di fuggire in territori a rischio, alla ricerca di facili compensazioni presentate come attraenti dal mondo esterno. È inoltre di fondamentale importanza che sviluppino un sano dialogo interiore, basato su un atteggiamento di positiva introspezione. È questa una risorsa di indubbio valore che li aiuta a elaborare elementi e informazioni dalle proprie esperienze passate e presenti, a valutare i pro e i contro e prevedere le possibili conseguenze derivate dalle loro scelte e dalle loro azioni. Tale capacità di sapere conversare con se stessi condiziona il modo con cui essi interagiscono e rispondono agli stimoli provenienti dal mondo esterno. In particolare, acquisiranno l’abilità di fare scelte in base al proprio sentire, e non perché sollecitati o spinti da altri. Se i minori non sentono di poter contare sulle proprie voci interne, danno sempre molto peso alle voci provenienti dall’esterno.[1]

– Continua –

[1] Pellai, A. (2012), Questa casa non è un albergo!, Feltrinelli, Milano, pp. 186-188

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Perchè è meglio non fare terapia ad un amico

psicologo3Una delle domande più frequenti che mi vengono fatte è sicuramente quella del perché non posso prendere in terapia amici o persone che già conosco. ‘Ma scusa, ci conosciamo già, avrei meno difficoltà a raccontarti alcune cose della mia vita, perché non posso venire da te?’ In effetti, visto dall’esterno, il fatto che uno psicologo non possa fare terapia ad un suo conoscente sembra un controsenso. Nell’accezione comune, il fatto che ci si conosca aiuta ad aprirsi e rende più facile andare da un professionista.

Perché allora è categoricamente meglio non farlo? Quello che dall’esterno appare come un punto di forza, visto dall’interno della relazione terapeutica appare invece come un’enorme debolezza. Parte dell’effetto della terapia è dato dal fatto che il terapeuta sia estraneo alla vita della persona che prende in carico. Questa estraneità fa sì che il paziente possa fidarsi, dato che il terapeuta non è orientato verso nessuno delle persone coinvolte nel racconto della vita del paziente, è estraneo alle sue dinamiche familiari ed è, in una parola, equidistante da tutti. Poniamo, invece, il caso contrario: il terapeuta e il paziente sono amici/conoscenti. In questo caso è probabile che il primo conosca persone che fanno parte della vita del suo paziente e il paziente, a sua volta, di persone che fanno parte della vita del terapeuta o, ancora più probabile nel caso le due persone fossero amiche strette, condividano le persone che conoscono. Questo è problematico perché potrebbe rendere meno liberi entrambi di parlare di queste persone: il paziente potrebbe non voler parlare di cose che coinvolgano anche il terapeuta mentre il terapeuta potrebbe essere meno libero nel poter fare restituzioni che coinvolgano persone conosciute da entrambi. Insomma non ci sarebbe una libertà di movimento che è invece indispensabile nella relazione terapeutica.

Altra difficoltà è che il terapeuta e l’ipotetico paziente/amico conoscendosi prima della terapia siano in un rapporto paritario nella relazione. Una dei capisaldi della terapia, che la distingue da un rapporto tra amici, è che una persona si espone molto nella relazione l’altra meno. Se ci fosse un rapporto amicale tra terapeuta e paziente, questa premessa non esisterebbe perché anche il paziente saprebbe tutto della vita del suo terapeuta. Entrambi sarebbero esposti allo stesso modo e questo inficerebbe non solo la costruzione di una relazione terapeutica (dal momento che già esiste una relazione amicale) ma di fatto impedisce l’uso che il terapeuta può fare delle proprie esperienze di vita in terapia. Come può il terapeuta utilizzare qualche dettaglio della sua esperienza dal momento che l’amico probabilmente conoscerebbe già l’episodio raccontato? 

Va inoltre ricordato che essendo conoscenti potrebbero esserci delle risonanze nelle dinamiche personali che potrebbero entrare in gioco nel rapporto terapeutico stesso. Mi spiego meglio: se una persona conosce l’altra è già presente nella loro relazione una serie di elementi (pregiudizi, idee, impressioni) su quella persona. Anche in questo caso queste premesse possono invalidare la costruzione del rapporto tra terapeuta e paziente. In una relazione terapeutica ‘ideale’, invece, la costruzione del rapporto avviene nella terapia stessa, e non dovrebbero esserci elementi conoscitivi pregressi che possano entrare in gioco. 

Per questi motivi è sempre bene evitare di prendere un amico o un conoscente in terapia e, piuttosto, inviarlo ad un collega che goda della nostra fiducia. Non è un atto di incomprensione e il motivo non è non volersi prendere cura del proprio conoscente. La ragione è, piuttosto, aver chiara una visione dei confini della propria professione, non cercare di sovrapporla al ruolo amicale e capire quando possiamo non essere la persona più adatta per fare un lavoro con un nostro amico. Questo non impedirà al nostro amico di annoverare tra le sue conoscenze uno psicologo conscio dei suoi limiti potendo, in più, avere anche il suo ascolto (come amico!) qualora volesse condividere l’esperienza della terapia.  

Che ne pensate?

P.s.: Approfitto di questo post per salutarvi per qualche settimana. La serie di nuovi progetti sui quali sto lavorando, sommati a quelli portati avanti in questo proficuo 2014, entusiasmanti ed impegnativi allo stesso tempo, richiedono che mi ricarichi le batterie e sono consapevole del fatto che solo una persona che si prende cura di se stessa può efficacemente prendersi cura degli altri.

Vi lascio comunque in compagnia di oltre 200 articoli tra i quali potete trovare la lettura che vi interessa. Vi saluto, vi auguro un Buon Natale ed un felice anno nuovo. Ci rivediamo a Gennaio..

…a presto…

Fabrizio Boninu

 

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Legittimare le emozioni (2)

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La consapevolezza, funzione psichica capace di generare benessere e di sollecitare il cambiamento, può attivarsi se prevale un atteggiamento mentale di accettazione e, contestualmente, di rinuncia al controllo onnipotente della realtà. Fintanto che un soggetto si tormenta con proposizioni del tipo: ‘Avrei potuto, avrei dovuto…’, ‘Avrebbe potuto, avrebbe dovuto…’, finisce per disperdere energie preziose in vissuti logoranti di colpa, di depressione o piuttosto di rabbia, energie sicuramente sottratte a quell’impegno di consapevolezza, massimamente utile per affrontare i problemi e le difficoltà dell’esistenza. La consapevolezza delle emozioni può iniziare quando cessa il combattimento finalizzato al tentativo di eliminare vuoi le emozioni sgradite, vuoi la realtà che le ha generate ed inizia la processazione dei dati emotivi, così come possono essere rilevati nella loro specificità e nella loro autenticità. Non c’è consapevolezza se non c’è rinuncia al dominio, cioè se non lasciamo andare la pretesa di controllare tutto.

Il nostro atteggiamento è spesso, invece, improntato al controllo, alla valutazione, al giudizio che ci portano lontani dalla consapevolezza e ci avvicinano a reazioni come l’impotenza, la rabbia o la tristezza. La frustrazione è doppia perché da un lato non riusciamo nell’intento di controllare quello che proviamo, dall’altro, non essendoci potuti soffermare a capire cosa fosse quello che stavamo vivendo, aumenta il nostro senso di estraneità per noi stessi, di non conoscerci a fondo di non sapere neanche noi chi siamo. Come può questo sentire farci stare bene? Come può condurci ad una conoscenza migliore di noi stessi? Qual è il modo attraverso il quale superare questo cortocircuito tra ragione ed emozioni, questa sorta di impasse interno a noi stessi? Il primo passaggio riguarda l’accettazione di quello che proviamo, cercando di far stare fuori il giudizio, metro razionale che tentiamo di applicare alla realtà emotiva: 

Per elaborare le emozioni occorre accettarle innanzitutto così come si manifestano nella nostra mente prima di cercare di elaborarle. Nel momento in cui la consapevolezza accetta le emozioni, anche le più stressanti, le circoscrive ed in qualche misura la fa evolvere. Nominare la confusione per esempio può essere il primo organizzatore mentale e linguistico della confusione stessa, l’avvio di un percorso per fare emergere un qualche elemento di chiarezza dal caos. Nel momento in cui non pretendo di dominare o manipolare queste emozioni, bensì tento di riconoscerle e di pensarle, per ciò stesso si rinforza un area della mente che riduce il rischio del sequestro emozionale: prendo atto che in me c’è rabbia o c’è tristezza, ma non c’è solo rabbia o tristezza, perché si attiva una funzione di consapevolezza che si rende conto della rabbia e della tristezza; mi accorgo che in me c’è ansia, ma non dilaga, perché c’è un’isola della mia mente dove si attiva la capacità di dare un nome all’ansia. [1]

Uno dei punti nodali sta proprio nella capacità di riconoscere e dare un nome a quello che proviamo perché questa capacità ci rende l’idea che nel momento in cui ci sia un sentimento avvertito come negativo, esista anche una sorta di contraltare dentro di noi che ci consente di capire come non siamo del tutto preda o in balia solamente di quella emozione. Se ci limitiamo a giudicarci (non sono adatto, non sono in grado di, non è normale provare questo,…) focalizziamo la nostra attenzione e la nostra consapevolezza solamente su come ci stia facendo stare male quello che proviamo, su come questo sentirci ci faccia stare male, ma non su cosa stiamo effettivamente provando. Se riuscissimo, invece, nel momento in cui proviamo un’emozione a riconoscerla, sentiremo che dentro di noi esiste un’area che riesce a non farsi travolgere dall’emozione stessa, un’area che la identifica e costituisce il primo passo perché quell’emozione sia riconosciuta e possa entrare a far parte della nostra stessa realtà psichica.

Non è sicuramente un processo facile, vanno scardinati una serie di automatismi censori e neganti che da sempre tentano di mettere a tacere la nostra realtà emotiva. Non è facile, dicevo, ma è un primo passo per portare luce su parti di noi stessi trascurate, nascoste e condannate, il mancato riconoscimento delle quali è spesso responsabile del nostro stare male.

 
Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

[1] Foti, C. (2012), La mente abbraccia il cuore, Edizioni Gruppo Abele, Torino, pp. 52-54  

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Legittimare le emozioni (1)

Legittimare le emozioni (1)Questo post è una riflessione sul peso che le emozioni giocano nella nostra vita. Molto spesso questo peso è assolutamente sconosciuto o sottovalutato perché manca la consapevolezza dell’emozione stessa. Può sembrare un gioco di parole, ma viviamo profondamente all’oscuro di quello che sentiamo nel più profondo di noi e, anzi, quando avvertiamo che quello che stiamo provando non è ‘consono’, facciamo di tutto per metterlo a tacere e nasconderlo agli altri ma sopratutto a noi stessi, rendendo ancora più difficile identificare e capire quale sia l’emozione che proviamo in quel preciso istante. Questa sorta di automatismo censore è  molto rischioso, perché ci porta a non conoscere la nostra stessa realtà emotiva. Per contrastare questa tendenza dovremmo, invece, fare il processo inverso: portare consapevolezza nel nostro vissuto emotivo, di modo da agevolare la conoscenza del nostro mondo interno e legittimarne il peso nella nostra vita. Questo processo non è scontato, anzi bisogna prestare particolare attenzione a quello che succede. La prima domanda da porsi credo sia proprio la più diretta: come si legittimano le emozioni? Il primo passaggio è sicuramente quello di riconoscere l’emozione stessa:

L’autoconsapevolezza è la capacità di legittimare, di battezzare le emozioni dopo che sono venute al mondo (psichico), per tentare di capirne il senso e le cause al fine di poterle padroneggiare e gestire. Nella comunità tradizionale battezzare e dare un nome a un bambino significava accoglierlo nella comunità sociale, accettarlo come portatore di una dignità, di un qualche diritto: ‘anche lui è un cristiano!’. Analogamente dare un nome alle emozioni significa poterle accettare come portatrici di una dignità psicologica, di una capacità informativa e segnaletica. Dal momento che un’emozione intensa è nata, è comparsa nella mente, vale la pena che venga riconosciuta. Un tempo un figlio illegittimo, che nasceva di fuori del matrimonio e non riceveva il cognome paterno, non possedeva diritti. Analogamente un’emozione rilevante che è entrata nello psichismo e non risulta pensabile e nominabile, diventa priva di diritti e non ha possibilità di comunicare alla mente del soggetto le informazioni di cui è portatrice

Il passo riportato, come tutti i successivi, è tratto dal testo di Claudio Foti del quale trovate i riferimenti bibliografici in basso. Colpisce in questo passaggio il parallelismo tra il battesimo e la consapevolezza: così come il battesimo sancisce l’ufficialità dell’ingresso del bambino nella comunità cristiana, allo stesso modo il riconoscimento e la consapevolezza rende possibile che le nostre emozioni entrino all’interno della nostra autocoscienza. L’autoconsapevolezza passa necessariamente per riconoscere e dare un nome, ‘battezzare’ appunto, le nostre sensazioni, le nostre emozioni, i nostri sentimenti, di modo che abbiano la possibilità di essere integrate in noi. 

L’autoconsapevolezza emotiva, che costituisce il primo principio dell’intelligenza emotiva, è la capacità di ascoltare e dirigere l’orchestra: è la capacità di riconoscere, pensare e nominare i vissuti emotivi che si ritrovano nella mente del soggetto, che spesso entrano velocemente ed imprevedibilmente nel suo campo mentale, che talvolta vi ristagnano oppure fluiscono oppure ancora si scontrano o si accavallano e che in ogni caso non sono autogenerati dalla volontà del soggetto. Mentre la logica del controllo onnipotente persegue l’eliminazione, il soffocamento o il camuffamento delle emozioni giudicate non consone e non opportune, il controllo delle emozioni a cui  possiamo realisticamente pervenire non è immediato, è per così dire un controllo in seconda battuta: non possiamo pretendere un controllo in prima battuta, cioè che le emozioni sgradite vengano immediatamente cancellate o non entrino affatto nella nostra mente. È più realistico e sano imparare a confrontarsi con le emozioni che sono già entrate nel nostro campo mentale e ad impegnarsi a riconoscerle, a dialogare con esse, a gestirle, per evitare che esse siano capaci di sequestrarci. [1]

Spesso non riusciamo invece a riconoscere o a dare un nome a queste emozioni proprio perché ne siamo spaventati o perché non le consideriamo consone al nostro stato. Questo ci porta a negarle, a volerle controllare, a volerle reprimere proprio perché non ci piace come ci fanno stare, come ci fanno sentire, e faremmo di tutto pur di levarle dalla nostra esperienza, faremmo di tutto pur di non sentire quello che stiamo sentendo e provare ciò che stiamo provando.

Il problema fondamentale è che qualunque tipo di controllo è un controllo ex post, a posteriori, quando ormai abbiamo già fatto esperienza di ciò che abbiamo vissuto. Per sua stessa natura, il mondo delle emozioni non è dominabile dalla ragione, questo può avvenire (apparentemente) solo dopo che abbiamo provato l’emozione. Subito dopo la ragione può intervenire per cercare di riportare ‘l’irrazionalità emotiva’ all’interno delle briglie razionali, e possibilmente censurarlo o negarlo, ma il vissuto sarà stato già incamerato senza che neanche sia stato possibile capire cosa sia successo, o cosa abbia causato la nascita di quell’emozione. Questo non permette il riconoscimento, il battesimo di cui parlavamo prima, e fa si che lo stato provato rimanga incompiuto e sconosciuto nell’animo della persona che l’ha provato. 

– Continua – 
[1] Foti, C. (2012), La mente abbraccia il cuore, Edizioni Gruppo Abele, Torino, pp. 52-54 
 
 
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