Perché si va in terapia?

Perché si va in terapiaQuanto più faccio questo mestiere, quante più persone vedo, mi rendo sempre più conto che molti, di solito coloro che non sono mai stati in terapia e che la reputano ancora una faccenda che riguardi solamente i ‘pazzi’, mi chiedono che tipo di lavoro faccia, cosa succeda dentro la misteriosa stanza di uno psicologo. La curiosità è tanta, ma tanta è anche, purtroppo, l’ignoranza per il tipo di lavoro che uno psicoterapeuta svolge. Mi si chiede spesso perché si va in terapia, perché una persona dovrebbe spendere tempo (e soldi!) per ‘fare due chiacchiere’ con uno sconosciuto. La verità è che spesso queste persone sono tanto incuriosite quanto intimidite dall’idea che ci si possa metter a nudo di fronte ad una persona. Questa considerazione mi ha riportato alla mente un brano che ho letto tempo fa e che si occupa appunto del perché della psicoterapia. Ve lo riporto:

Ognuno di noi si muove nell’ambito di un sistema di convinzioni, la maggioranza delle quali, pur non essendo apertamente dichiarate, determinano il nostro modo di vivere le nostre relazioni con gli altri. Vorrei dire qualcosa a questo proposito. Prima di tutto niente che valga la pena di imparare può essere insegnato. Tutto deve essere scoperto da ognuno di noi. Questo processo di apprendere ad apprendere, di scoprire la propria epistemologia, il proprio modo di affrontare nuove scoperte, nuovi pensieri, nuove idee, nuove opinioni, richiede una lunga lotta per riuscire a sviluppare sempre meglio ciò che siamo. Tillich ha scritto un libro intitolato Essere è divenire. Questo titolo è stato per me un koan. Per molti anni mi sono chiesto cosa volesse realmente significare, finché all’improvviso tutto è diventato chiaro: agire è un modo per impedirsi di essere, nel senso che se ci si dà abbastanza da fare, non si è obbligati a essere qualcuno. Si può cercare, con sempre maggiore impegno, di diventare qualcosa di diverso da quello che si è: sempre migliori, sempre più potenti, sempre più simile a qualcun altro sempre meno simili a ciò che in passato abbiamo scoperto di essere.

Ma essere è divenire vuol dire che si deve imparare ad essere totalmente ciò che si è. Questo è, ovviamente, un processo pericoloso, perché la struttura sociale tollera solo certi modi di essere persona. Se ci si scopre sadici, bisogna stare attenti ad esserlo al tempo giusto, nel modo giusto con le persone giuste, se non si vuole passare un brutto quarto d’ora. Una delle ragioni per andare in psicoterapia è che, mettendosi in posizione subordinata rispetto ad un estraneo, si può scoprire quel tipo particolare di libertà che rende possibile essere maggiormente se stessi. Uno psicoterapeuta è qualcuno che si può odiare senza provare sensi di colpa. È una di quelle persone con le quali si può essere completamente se stessi, ciò nonostante, venire accettati; o, guardando la cosa da un altro punto di vista, probabilmente un terapeuta può sopportare che un paziente, per circa un’ora alla settimana, sia totalmente se stesso. Osare rivelarsi a qualcuno rende più facile approfondire la conoscenza di se stessi.

Il primo passo consiste nell’imparare ad ascoltarsi: avere il coraggio di aspettare quando non succede nulla, aspettare che qualcosa accada dentro di noi, non fuori di noi, non grazie a qualcun altro diverso da noi. La creatività richiede tempo e solitudine. [1]

Uno dei punti principali di questo brano è che alcune cose devono essere vissute piuttosto che insegnate. Imparare ad essere se stessi secondo me è una di queste: nessun altro, neanche con una serie enorme di titoli e di attestati, può insegnare all’altro come essere se stesso. Solo il viverlo, lo sperimentarlo, può portare ognuno di noi a rintracciare ciò che è l’essenza del suo essere. Questo ribadisce una mia convinzione profonda: in questo campo non ci sono delle autorità in materia, nessuno che ti possa insegnare ad essere. La nostra funzione è, come diceva Socrate, una funzione maieutica: possiamo aiutare a far nascere qualcosa, ma la vita era presente prima del nostro intervento. Tornando al punto, il nostro senso possiamo costruirlo solo attraverso l’esperienza: ma se l’esperienza è censurata socialmente come può avvenirne la costruzione? Questo, secondo Whitaker è il grande significato dell’esperienza della psicoterapia: in essa la persona può sperimentare parti di se che, per motivi sociali o personali, ritiene debbano essere censurate nella sua vita quotidiana. Solo questa sperimentazione può portare ad una consapevolezza prima e ad una valutazione e accettazione (o rifiuto, naturalmente) poi. Quello che con un termine solo chiamiamo crescita. Questo porta alla crescita di se stessi proprio nel momento in cui aumenta la propria consapevolezza. E da questo dobbiamo passare: solo l’esperienza di ciò che siamo intimamente può portarci ad una evoluzione. Il rischio, altrimenti, è quello di continuare a pensare di coltivare e di mostrare solo ciò che riteniamo accettabile o condivisibile. Whitaker dice che il primo passo di questo processo è imparare ad ascoltarsi. Se però ci siamo abituati ad essere sordi nei confronti degli aspetti che di noi non ci piacciono, il pericolo è che queste parti rimangano sempre in ombra e non emergano. Questo è ciò che avviene all’interno della psicoterapia: in uno spazio protetto la persona può permettersi di sperimentare parti considerate inaccettabili. La condivisione senza giudizio porta spesso a rivalutare queste parti di se stessi e a pensare di rimetterle in gioco nella vita di tutti i giorni. E non è cosa da poco autorizzarsi a condividere parti di noi che fingiamo non esistano. Credo sia questo il sostegno che siamo chiamati a dare all’interno della professione.

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

[1] Whitaker, C. (1989), Considerazioni notturne di un terapeuta della famiglia, Astrolabio, Roma, pag. 69 

Tutti i diritti riservati
MyFreeCopyright.com Registered & Protected

Il terapeuta riparatore

Il terapeuta riparatoreIl post di oggi è dedicato all’analisi di una figura purtroppo diffusa in terapia: quello del terapeuta riparatore. Il terapeuta riparatore è il terapeuta che, dimenticandosi la necessaria distanza dalla vita dell’individuo con cui si trova a lavorare, si schiera per una soluzione e, forte della sua posizione all’interno della terapia stessa, spinge affinché il paziente attui la soluzione da lui suggerita. Questo tipo di situazione è molto più frequente di quanto non sembri, soprattutto per situazioni che richiederebbe una maggiore apertura mentale e una maggiore capacità collaborativa del terapeuta come per esempio, quelle terapie per le quali la persona, sentendo molto forte e toccante vivere la sua omosessualità, chiede al terapeuta di guarirlo. L’aspetto più pericoloso avviene quando il terapeuta prende per buona e cerca di soddisfare questa richiesta. Questo tipo di situazioni sono, secondo me esecrabili per due ordini di motivi: innanzitutto la terapia non si svolge correttamente, dato il peso che le convinzioni, sociali, morali o religiose del terapeuta stesso, in una parola le sue convinzioni personali, vengono adoperate ed utilizzate per stabilire arbitrariamente ciò che è giusto oppure no per la vita di un altro individuo; in secondo luogo ratifica e prosegue, in una vera e propria spirale auto perpetuante, lo stereotipo per cui stili di vita bollati a lungo come non ‘normali’ siano vere e proprie malattie, quando l’omosessualità da ormai 39 anni, è stata derubricata definitivamente anche dai manuali diagnostici che noi professionisti utilizziamo nella nostra pratica clinica.

Eppure, nonostante queste premesse, è possibile trovare professionisti che pensano sia possibile curare quella che non è una malattia, assecondando più i desideri reconditi del terapeuta piuttosto che riuscendo ad accogliere quelle che sono le istanza più intime di accettazione e di rispetto che il paziente va cercando, e anzi, disconoscendole e disconfermandole ancora una volta. Vi riporto, a questo proposito, un brano tratto da un testo che affronta molto bene il punto di vista del quale stiamo parlando:

Dopo la derubricazione dell’omosessualità  come diagnosi clinica, il DSM-IV del 1974 (il manuale diagnostico usato per fare le diagnosi) prevedeva la nuova categoria dell'”omosessualità egodistonica”: il disagio e la sofferenza rispetto al proprio orientamento sessuale venivano considerati un disturbo psichiatrico. Questa categoria clinica venne in seguito rimossa nel 1987, quando si comprese che l’egodistonia può far parte del percorso evolutivo di un individuo omosessuale in un contesto eterosessista. Proprio sul concetto di egodistonia si soffermano i terapeuti riparativi. Questi permangono impermeabili alle numerose ricerche e dichiarazioni delle associazioni dei professionisti della salute mentale. Le cosiddette ‘terapie di conversione’ sono residui del paradigma patologico (…), secondo cui gli ‘omosessuali non gay’, coloro i quali non riescono a conciliare l’orientamento sessuale con il sistema di valori, possono cambiare il loro orientamento sessuale. E’ il vecchio concetto di egodistonia rispolverato, insostenibile alla luce delle oramai assodate acquisizioni scientifiche e deontologicamente impraticabile a fronte dei pesanti effetti sulla salute mentale dei soggetti che vi si rivolgono. In questo tipo di trattamento direttivo-suggestivo il terapeuta rinuncia alla sua posizione di neutralità, di chi interroga e si interroga insieme al paziente, diventando mero esecutore della richiesta e propugnatore di norme morali e religiose.” [1]

Credo che il massimo che possiamo dare alle persone con le quali abbiamo la fortuna di lavorare, sia accoglierle e rispettarle. Comprenderle più che cambiarle. Ascoltarle più che curarle. Non è semplicemente una proposta di buon senso, visto che anche deontologicamente non potremmo imporci, ne imporre la nostra volontà o le nostre convinzioni sui nostri pazienti. Può essere vero che ci siano temi coi quali può non piacere lavorare ma, in questo caso, sta alla professionalità del terapeuta riconoscerlo ed esplicitare al paziente stesso la sua inidoneità per lavorare su quella tematica. Chiunque voglia curare ciò che non è in grado di rispettare non è semplicemente in grado di fare questo mestiere, perché è la prima persona a non avere conoscenza di se stessa.

E se una persona non è in grado di essere chiara con se stessa come può aiutarne un’altra?

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio

[1] Chiari, C., Borghi, L. (2009), Psicologia dell’omosessualità, Carocci, Roma, pp. 173-174

Tutti i diritti riservati
MyFreeCopyright.com Registered & Protected