Quasi amici

Quasi amiciVi parlo di un film che ho visto da poco al cinema. Si intitola Quasi amici ed è dei registi  Olivier Nakache e Éric Toledano (2011). Il film narra la vicenda di un ricco tetraplegico Philippe e del suo originale aiutante Driss. Fin dalle prime battute colpisce come il tema della disabilità sia affrontato con una vena ironica che la normalizza e la rende apparentemente più gestibile. Già dal primo incontro tra i due protagonisti capiamo come la possibilità di rapportarsi vada oltre gli stereotipi che entrambi potrebbero avere l’uno sull’altro. Da una parte il ricco Philippe, bloccato dentro ad un corpo che non gli consente di essere autonomo, che potrebbe avere tutto ma che non può fare assolutamente nulla senza che qualcuno lo aiuti, dall’altra Driss apparentemente libero di muoversi per il mondo come meglio crede, ma anche lui prigioniero, ad un altro livello, di stereotipi e pregiudizi di cui lui stesso è vittima nei suoi confronti. L’incontro viene fin da subito caratterizzato da una forte vena ironica, che permette all’inizio di sottolineare la distanza tra i due e la totale e completa diversità dei loro mondi di appartenenza. E la comicità di alcune scene è data da questa lontananza culturale e sociale: tanto Philippe è sofisticato ed abituato al bello, tanto Driss è pratico e concreto. La bellezza del film sta, secondo me, in una storia apparentemente semplice nel quale due mondi, lontanissimi, iniziano ad incontrarsi nel momento in cui tutti sembrano trattarsi non più come ‘ruoli’ ma come persone. Allora Driss non è il nullafacente che vuole solo l’assegno di disoccupazione, ma una persona vitale e attiva che riesce a relazionarsi con tutti e a parlare apertamente delle cose senza tanti giri di parole. E la sua non è mancanza di rispetto, è accettazione, forse totale di Philippe. Philippe, d’altro canto, non è solo il tetraplegico: è un uomo che aveva delle passioni (tra tutte il parapendio e le auto sportive), è un padre, è un vedovo, può innamorarsi. E così via questa ‘complessizzazione’ sembra coinvolgere tutti i protagonisti del film che, apparentemente monodimensionali e rispondenti ad un’unica caratteristica iniziano a diventare, se ci prendiamo la briga di volerli conoscere, complessi e strutturati come neanche ci immaginavamo potessero essere. Un film apparentemente sull’handicap si trasforma velocemente nell’affresco di un mondo nel quale, non fermandosi a guardare le persone solo per come appaiono, si può recuperare tutta un’umanità, una solidarietà ed una vicinanza con l’altro. Un mondo nel quale le distanza sono soprattutto mentali e possono essere abbattute nel momento in cui invece di avere a che fare con l’idea dell’altro ci si relaziona con chi si ha di fronte. E solo nel momento in cui avviene questo che ci si può conoscere ed è un processo che coinvolge tutti i protagonisti del film: non solo Philippe e Driss, ma anche Yvonne, l’assistente personale di Philippe, il giardiniere che si lascia andare nel ballo organizzato nel giorno del compleanno di Philippe e così via. Tutti i personaggi escono dal ruolo che li caratterizzava nella nostra percezione e acquistano complessità, profondità, umanità. Non solo solo ‘l’handicappato’ o ‘il nero’ e quando ci accorgiamo di quello che sta succedendo siamo anche noi coinvolti nel processo di conoscenza dell’altro e non nella conoscenza dello stereotipo. L’aspetto che rimane può essere, allora, quello di considerare il fatto di provare a guardare alle persone per come le abbiamo davanti cercando di mettere a tacere tutte le semplificazioni che possono essere legate al ruolo o alla funzione di quella persona stessa. Forse è un percorso più difficile, ma potenzialmente molto più ripagante.

Insomma un film con un messaggio molto bello che vi consiglio di vedere. Fatemi sapere che ne pensate!

A presto…

Fabrizio

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Concerto o smartphone?

Concerto o smartphoneL’articolo che volevo segnalarvi oggi riporta i primi risultati di quello che è uno studio in corso condotto dallo psicologo Ryan Howell dell’università di San Francisco. Lo studio cercava di tracciare una relazione tra il modo in cui si spendono i propri soldi e quanto e come le persone si sentano poi soddisfatte per questo tipo di spesa. E i risultati sembrano confermare il fatto che sia preferibile per la maggior parte dei partecipanti concedersi un ‘lusso esperienziale’ come può essere l’andare ad un concerto, o il fare un viaggio, piuttosto che comprarsi un oggetto nuovo, che sia uno smartphone o un capo d’abbigliamento. Questo, secondo l’articolo sarebbe dovuto al fatto che le «esperienze» (…) sono più gratificanti: forse perché se ne gode più a lungo e poi restano i ricordi, mentre invece quando si acquistano oggetti siamo contenti sul momento, ma poi la sensazione piacevole si affievolisce irrimediabilmente. In altri termini il piacere che associamo all’acquisto di un oggetto, per quanto desiderato esso sia, è più effimero rispetto all’acquisto di un esperienza nuova (un viaggio, un concerto, un film, un libro…) che invece rimarrebbero più saldamente legate alla nostra percezione e ci farebbero sentire meglio più a lungo.

Credo che questa aspetto possa essere associato al maggior legame che sentiamo per quel tipo di esperienza. Se è vero che l’acquisto di un nuovo telefono possa essere gratificante, quel telefono stesso non entrerà mai a far parte di noi, rimarrà sempre un oggetto esterno per quanto possa essere bello e utile. Un’esperienza, che tra l’altro noi abbiamo in qualche modo cercato e voluto, e quindo scelto, entra invece a far parte stabilmente di noi, e in questo differisce dall’oggetto, nel momento in cui entra a far parte della nostra vita. L’autore ha cercato anche di tracciare una correlazione tra coloro che sarebbero propensi ad acquistare esperienze e coloro i quali invece sembrano preferire l’acquisto di oggetti.

I risultati sono stati abbastanza incontrovertibili: Chi spende la maggior parte del reddito a sua disposizione in esperienze è più aperto ed estroverso – spiega lo psicologo –. Non è in effetti sorprendente, visto che viaggi, concerti, spettacoli teatrali sono di per sé eventi più “sociali” e contengono anche un elemento di “rischio” che i caratteri più chiusi non vogliono accollarsi. Il fatto che gli acquisti esperienziali siano più eventi sociali, seleziona in qualche misura il partecipante. Quindi sarebbe la presenza o meno di alcuni tratti di personalità che favorisce un certo tipo di acquisto piuttosto che un altro. Le persone che spendono più sul versante esperienziale, sarebbero in qualche modo caratterizzate da tratti di personalità più estroversi rispetto al secondo gruppo. Questo non è difficile da immaginare. Nel momento in cui una persona è più portata ad acquisire questo tipo di esperienze, esperienze che abbiano detto sono più di condivisione, più sociali, probabilmente già è più aperto rispetto al mondo esterno ed è già più disposto ad ‘accollarsi’ un’esperienza che dall’esterno si trasformerà in un’esperienza interna, che lo riempie di gratificazione. Le persone che non hanno questo tipo di tratto di personalità saranno, viceversa, più portate a preferire un’attività che non veda così coinvolto l’altro, e che non sia altrettanto intimamente coinvolgente. Ovviamente, queste sono categorizzazioni di massima che, se utili al fine dello studio, possono risultare riduttive se considerate esaustive. Lo studio è di per sé interessante perché credo che, in periodi di ‘crisi’ come il nostro forse potremmo, a prescindere dai tratti di personalità che possono essere presenti, riconsiderare la scala di valori tramite i quali facciamo un acquisto. E forse, pur non avendo l’ultimo modello di iPhone, potremmo notare come ci fa sentire appagati quel film che siamo andati a vedere.

L’articolo è del Corriere della Sera (12.03.12) ed è di Elena Meli.

Intanto il link: http://www.corriere.it/salute/12_marzo_16/shopping-esperienze-meli_7406a88c-5310-11e1-8f96-43ef75befe7d.shtml

Se voleste partecipare alla ricerca il sito su cui andare è www.beyondthepurchase.org (oltre l’acquisto). Il sito, purtroppo, è solo in inglese.

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio

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Dove c’è McDonald, c’è casa…

Dove c'è McDonald, c'è casa...Alzi la mano chi non è incuriosito di trovare il logo di McDonald’s in un blog di psicologia. Che c’azzecca direbbe qualcuno? Effettivamente può sembrare fuori luogo ma solo ad un primo impatto. Mi sono sempre chiesto quale può essere la ragione del successo di catene di questo tipo. Ad una analisi superficiale, si può dire che le catene di fast food prosperino nel momento in cui offrono del cibo a buon mercato. Questa certamente può essere una delle ragioni. Ma non può essere l’unica dal momento che ormai non è difficile mangiare a buon mercato. In qualunque parte del mondo ci si trovi.

Lo psicologo statunitense Abraham Maslow pubblicò, nel 1954, il testo Motivazione e personalità, nel quale espose la cosiddetta teoria piramidale dei bisogni. Se cliccate sul titolo del libro, in arancione, potrete vedere la piramide nella pagina di Wikipedia. Maslow individuò cinque grandi aree di bisogni (fisiologici, di sicurezza, di appartenenza, di stima, di realizzazione) in una scala che va dai bisogni fondamentali, quelli fisiologici, a quelli superiori, i bisogni di realizzazione. Pensiamo a quanti di questi bisogni vengono soddisfatti quando ci rechiamo in posti come McDonald: innanzitutto bisogni fisiologici, come l’alimentazione (anche se alcuni potrebbero rispondere col fatto che quello non è cibo!), ancora bisogni di sicurezza (la sicurezza fisica di occupazione, il bisogno di sapere, cioè, che abbiamo un posto in quel luogo, che nessuno ci manderà via da li), il bisogno di appartenenza che si scinde in due gruppi, sia l’appartenenza al gruppo che usufruisce con noi del pasto (amici, colleghi di lavoro, viaggiatori ecc) sia l’appartenenza al mondo stesso della catena, proposto come positivo, accogliente, comodo, gradevole. Ancora il bisogno di stima soddisfatto nel momento in cui entrando a far parte di un modello sociale proposto con queste caratteristiche positive, possono essere soddisfatti bisogni come quello di autostima e i bisogni di realizzazione (ci possiamo permettere le cose ‘giuste’ che la nostra società ci propone). Quattro dei ‘gradini’ della piramide risultano essere soddisfatti.

Un’altra delle ragioni del successo di questo tipo di catene e quello di rappresentare una sorta di sicurezza in qualunque parte del mondo ci si trovi. Forniscono un modello standard di cibo e di servizio all’interno del quale la persona si muove sicura dopo le prime volte. Se ci pensate, potete anche non pronunciare il nome del cibo che volete dato che i vari menù sono identificati anche con un numero. Questo è molto rassicurante. Siamo nel momento storico in cui le persone viaggiano di più. Il viaggio non è più riservato a pochi, è un fenomeno di massa che vede milioni di persone spostarsi da un continente all’altro. Veniamo perciò a contatto con posti nuovi, gente nuova, usanze nuove. E’ come se, all’interno di una realtà che diventa sempre più complessa, sempre più composita e più articolata, ci fosse un posto nel quale improvvisamente sappiamo come muoverci, come interagire con gli altri, come avere del cibo. E questo non solo sotto casa ma in qualunque parte del mondo. Se ci pensate è molto rassicurante. E credo sia per soddisfare necessità di questo tipo, necessità delle quali non siamo neanche consapevoli, che i menù di queste catene, salvo piccole variazioni, restano pressoché invariati. Proprio per farci sentire, in qualche modo, a casa.

Per questo credo sarebbe troppo facile liquidare questi fenomeni con un semplice ‘si spende poco’. Il successo di questo tipo di catene, è dovuto a fattori che vanno al di la delle singole società, dato che sono catene multinazionali, o di meri fattori economici, perché sembrano funzionare allo stesso modo sia in tempi di contrazione economica che in tempi di espansione economica. Ho sempre pensato che ci dovesse essere qualcosa di più profondo che spinge milioni di persone a preferire questo tipo di cibo piuttosto che altro.

Avreste mai detto che un pranzo da McDonald potesse avere questi risvolti?

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio

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Somewhere

SomewhereSempre a proposito della possibile vita di una star dietro lo scintillio che noi tutti vediamo, vi volevo segnalare un bel film sul tema. Il titolo è Somewhere (2010), della regista Sofia Coppola. Il film è stato insignito del Leone d’Oro alla Mostra del Cinema di Venezia. Il film racconta la storia di Johnny Marco, una stella del cinema, che vive in un hotel di Los angeles e del quale seguiamo, durante il film, parte della vita ed il viaggio in Italia per ritirare un premio. Credo sia un film emblematico sulla solitudine che circonda molte di queste persone che sembrano essere state baciate dalla fortuna di fare un lavoro che le rende popolari. Al netto del fatto di vivere in un meraviglioso albergo, guidare una meravigliosa macchina, essere riconosciuto dalle persone quando si sposta, quello che sembra caratterizzare la vita del protagonista è la costante solitudine o comunque la difficoltà di costruire un rapporto che si possa definire tale. In molte scene è sempre solo anche quando si circonda, o è circondato da moltissime persone. Oppure colpisce come in molte sequenze a farla da padrone sembra essere il silenzio, anche quando il protagonista si trova insieme ad altri. La rappresntazione è molto bella e credo miri al cercare di far scorgere come spesso, dietro vite ammirate da tutti ci sia una vita solitaria, fatta anche dal silenzio e dalla mancanza di contatti. Potreste forse obiettare che nella vita di tutti noi ci sono momenti di questo tipo. Naturalmente è così, ma tendiamo, complice la iperappresentazione che la vita di personaggi famosi hanno nella nostra quotidianità, a dimenticare questa ovvietà pensando che questo tipo di persone vivano una vita completamente altra rispetto alla nostra. Ed è su questo meccanismo che può basarsi la proiezione del quale parlavamo nel post …with somebody who loves me… (21.02.12). Ovviamente non credo che la vita di queste persone sia solo questo. Credo, però, che sia anche questo. E faremmo meglio a tenerlo in mente. Nel momento in cui possiamo vedere ed essere consapevoli che esista anche questo aspetto in vite con le quali faremo volentieri scambio, forse il lucicchio stesso potrà essere sostituito da uno sguardo più consapevole, più completo e più complesso sulle loro ma soprattutto sulle nostre vite.

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio

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…with somebody who loves me*…

...with somebody who loves me...Ho aspettato prima di decidere di pubblicare questo post. Siamo nuovamente ad un caso di cronaca che, coinvolgendo una persona molto famosa, assurge in qualche modo a simbolo, ad archetipo, di aspetti che sembrano riguardare tutti noi. Mi riferisco alla morte di Whitney Houston, avvenuta a Los Angeles il 12 di Febbraio. Come avviene spesso in questi casi, non sono ancora chiare le ragioni della morte della cantante, nota in tutto il mondo. Al momento non si sa se qualcuna delle sue dipendenze, o qualcuna delle sue debolezze, sia stata causa della sua morte. Rimane, come al solito, forte l’eco di una vicenda umana nella quale ‘l’avere tutto’ si scontra con una fine solitaria e per molti versi ingloriosa. Ed è proprio su questo che colpisce la vicenda. Una persona che aveva tutto sembra non reggere alla sua stessa vita, ai suoi stessi doni, a quelle benedizioni, come per esempio la splendida voce della quale la Houston era dotata.

Ecco, credo sia proprio questo il punto. Il fatto di vedere gli assoluti punti di forza dell’altro ci fa, spesso, dimenticare le loro debolezze. Come se queste persone, forti della loro fama o del loro successo, potessero non soffrire o potessero estraniarsi dalle paure che sembrano invece avvolgere noi. E la loro fragilità, quando deflagra, ci colpisce maggiormente. Per tutti può arrivare un momento nel quale le debolezze vengono in qualche modo a galla e ne riusciamo a scorgere i contorni. Nel mondo distorto nel quale viviamo, questo viene percepito come un limite, come un ostacolo. Quando, come nel caso della Houston percepiamo una persona così forte, così intoccabile, la idealizziamo e proiettiamo su di essa tutti quelli che sono i nostri desideri di essere forti, intoccabili, sempre a posto. Idealizziamo talmente tanto queste persone, che entrano sempre più a far parte della nostra quotidianità grazie a mezzi di comunicazione, che non vogliamo neanche vedere le loro debolezze, convinti che siano delle sciocchezze rispetto al loro essere ‘larger than life’. Quando poi queste debolezze emergono vistosamente, subentra lo scoramento per persone che, pur così ‘fortunate’, subiscono questa sorte. Credo che la via di uscita da questo meccanismo di frustrazione auto-alimentante, sia quello di riconoscere le possibili paure, i possibili punti di debolezza in noi. Solo con questa consapevolezza potremo vedere e comprendere quelli degli altri e riconoscerli, magari senza giudizio e senza condanna. E senza idealizzazioni.

Se non ci abituiamo od alleniamo a riconoscere queste parti in noi, avremo difficoltà nel riconoscerli nell’altro, e continueremmo ad attribuire gli avvenimenti a motivi superiori o esterni (droga, alcol, sfortuna…), come se queste non fossero le conseguenze delle nostre debolezze, ma le cause. Nel momento in cui avremo la costanza di farlo, potremmo riconoscere l’universalità di certi movimenti, di certi accadimenti. Che vanno al di là di essere stati benedetti da una voce magnifica.

Solo così credo si possa affrontare il dolore per l’umanizzazione dell’altro. Magari senza farci abbagliare dallo scintillio che sembra avvolgere la vita di alcune persone. Persone che, al netto della loro fortuna, rimangono fondamentalmente esseri umani.

*…con qualcuno che mi ami…(Wanna dance with somebody, Whitney Houston, 1987)

A presto…

Fabrizio

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Il suicidio è un fatto privato?

Il suicidio è un fatto privatoQuesta riflessione sul suicidio parte da una frase letta in un libro che mi ha portato a rivedere le mie (credo condivise!) convinzioni circa il suicidio. Il suicidio è l’atto estremo di una persona che rinuncia a vivere la sua vita. O se vogliamo che decide di vivere la vita ( e terminarla) esattamente come ritiene più consono per lui.

All’interno della nostra società, l’atto del suicidio è stato da sempre ostracizzato, tanto che il suo rifiuto è stato anche codificato all’interno di norme religiose applicate per secoli. I suicidi, per esempio, nelle società occidentali, non potevano essere sepolti al’interno dei cimiteri cristiani. Colui il quale osava portare via a Dio il potere di terminare la propria vita, prerogativa, appunto, divina, non poteva godere dell’eterno riposo laddove ne godevano gli altri. A parte che ci sarebbe da discutere sul perchè, allora, Dio ci abbia lasciato in mano un simile potere (ma sarebbe un discorso che ci porterebbe troppo lontano dall’argomento!), anche solo questo esempio è indicativo di come venisse e venga percepito il suicidio nella società. La carica simbolica altamente eversiva che il suicidio comporta, porta ad una sua netta condanna quali che fossero le cause che spingevano la persona a compierlo.

E fin qui, credo, nulla quaestio. Il dubbio sorge su quelle convinzioni cui vi accennavo prima. Ho sempre pensato che il suicidio fosse un fatto privato, un fatto legato alla vita dell’individuo che lo compie. A rigor di termini, il suicidio non è un fatto privato, come non lo è qualsiasi morte che lasci addolorate le persone che, con il defunto, avevano dei rapporti. In questo, appunto, non è un fatto privato, come non lo è, forse, nessuna morte. Ma se questo valore sociale appartenesse anche alla scelta del suicidio stesso? Mi spiego megio. Sono sempre più convinto che l’uomo sia frutto delle relazioni che lo circondano. Continuo a ripetervi che tra le mie convinzioni più profonde si trova il fatto che qualsiasi cosa facciamo è di per se stessa relazionale, dal momento che la pensiamo/facciamo/condividiamo con altri. Solo che, non so per quale automatismo, in queste considerazioni continuo a non comprendere alcune cose. Anche il suicidio era considerato una sorta di eccezione. A farmi riflettere su questa mia convinzione è stata la lettura di uno scambio di battute tra Carl Whitaker e William Bumberry. Ve lo riporto:

Domanda: Bé, mi pare un’idea un pò strana. Intendi dire che se la madre ha tendenze suicide è perché qualcuno la vuole morta?

Carl: Certo, proprio così! Il suicidio è come ogni altra cosa: tutte queste faccende sono interpersonali. Io credo veramente nei sistemi! Non posso credere che gli individui agiscano come unità, penso invece che operino soltanto come parti di unità più grandi. (Carl Whitaker, Danzando con la famiglia, Astrolabio, Pag 166)

Ecco il grande capovolgimento di prospettiva. Se tutto è relazionale per quale motivo il suicidio dovrebbe essere un atto personale? Ovviamente sto parlando di relazioni, non di colpe. Questo vuol dire che non credo che una persona spinga un’altra al suicidio, quanto che il suicidio sia una risposta ben precisa che dovremmo valutare allargando il focus dal singolo alle relazioni significative che su quella scelta possono avere influito. Insomma, c’è la possibilità di valutare e, forse, comprendere un gesto così netto solo immaginando di coinvolgere un livello più ampio di relazioni. Credo di intuire che potrebbe essere un argomento dibattuto, ma credo che poterne parlare, poterci riflettere sia meglio di dare come acquisite alcune nostre prospettive alle quali sembriamo tanto affezionati. Trappola nel quale io stesso ero caduto.

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio

 

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Manderlay

ManderlayIl film che voglio raccontarvi in questo post è Manderlay (2005) del regista Lars Von Trier. Il film è ambientato negli Stati Uniti, cronologicamente negli anni Trenta, gli anni della Grande Depressione. La protagonista è Grace che, con il padre, arriva nella cittadina di Manderlay dove si accorge ben presto, che la schiavitù non è stata abolita e vige ancora. Grace decide di restare nonostante le pressioni delle persone con le quali è giunta per cercare di portare una idea più giusta di quella che dovrebbe essere la società. Il film si gioca essenzialmente su questo contrasto. Può una cosa ‘giusta’ per noi essere imposta comunque su una serie di regole che, per quanto accettate, appaiono ingiuste agli occhi di un estraneo? Sebbene l’innovazione possa essere positiva, non è forse un imposizione se dobbiamo costringere gli altri a seguirla? Sono interrogativi che mi affascinano nel momento in cui mi rendo conto che talvolta ‘fare del bene’ sia in realtà non solo una categoria di pensiero che imprigiona, ma anche una imposizione nei confronti dell’altro. Questo è un aspetto che spesso appare in terapia. Posso io, tentando di fare del bene, impormi su quello che è il volere, la vita dell’altro? Io, naturalmente, credo di no. Il film è abbastanza complesso e molto spiazzante. Per chi di voi non avesse mai visto un film di Von Trier, l’esperienza può essere abbastanza deludente. Non c’è set, tutti gli ambienti sono disegnati con poche linee in terra e caratterizzati da qualche oggetto. Il set ha una funzione puramente rappresentativa e simbolica. Non è vero e non vuole esserlo. Come se la veridicità di quello che viene rappresentato non avesse bisogno di ulteriori agghindamenti. Uno dei quesiti che dominano il film è, secondo me, quello sulla propria identità. Chi si può essere se non si è noi? Quanto ci vuole a ristrutturare la nostra immagine? Grace, ad un certo punto, riesce a liberarare gli schiavi e a farli essere dei cittadini liberi. Privati dell’immagine che hanno sempre avuto di se stessi, gli schiavi si trovano nel dilemma di dover decidere chi essere ora. Come se, ad un certo punto della nostra vita ci dicessero di cambiare nome. Ma io sono Fabrizio, come posso essere altro? I quesiti coinvolgono la riorganizzazione di tutta la loro esistenza. La regola era di mangiare alle sette. A che ora si cena adesso? La differenza riguarda anche la possibilità di potersi pensare come indipendenti rispetto ad una regola da rispettare. La libertà non è solo una conquista. E’ anche una grande assunzione di responsabilità. Responsabilità delle proprie scelte. Delle proprie vicende. Della propria vita. Non tutti vogliono prendersi questa responsabilità. Alcuni preferiscono che siano altri ad occuparsene. E allora, quanto il desiderio di liberarli è di Grace e quanto un reale desiderio degli schiavi? Come possiamo definirlo? Una liberazione? O un imposizione? E ancora l’imposizione come esistenza di regole. Chi semina il cotone se non c’è nessuno che lo impone? Questo anche se il frutto del lavoro è, questa volta, dedicato a loro. Come se non fosse possibile in alcun modo una nuova ristrutturazione di prospettiva. Se nessuno lo ordina non è possibile eseguire. Quando si può ordinare per se stessi? Questa impossibilità di cambio di prospettiva è perfettamente simboleggiata anche in un’altra scena del film: si parla di un albero che si trova nel giardino della signora che si occupava dell’ordine all’interno della piantagione. Nessuno pensa di tagliarlo perché l’albero è della signora e, anche se ormai è morta, nessuno può pensare di toccarlo. Come se fosse una cosa immutabile. L’albero è il simbolo dell’impossibilità di cambiamento. Nel momento in cui noi siamo prigionieri di queste regole, talvolta regole non scritte ma ben più forti di leggi codificate, non abbiamo la possibilità di essere liberi. E allora la schiavitù non è solo concreta, reale, storica, ma anche personale, interna, psicologica, tanto che si potrebbe parlare di una consolatoria tirannia della schiavitù. Schiavitù mentale. Si innesta allora il tema di quanto la schiavitù abbia vita facile nel momento in cui si innesta sulla schiavitù psichica. Non intendo certo, con questo, giustificare lo schiavismo perpetrato su milioni di persone quanto voler riflettere su quanto questo possa prolungarsi nel momento in cui si innesta su istanze personali.

Il vero capovolgimento di prospettiva si ha, però, quando apprendiamo che la ‘legge di Mam’, la donna che si occupava della piantagione, era stata scritta da uno degli schiavi insieme a Mam per tenere le cose così com’erano dopo la guerra di secessione. Il mondo non era pronto ad affrontare gli schiavi liberati. Lo schiavo che l’ha scritto dice che tutti alla fine lo sapevano e l’ha fatto per il bene di tutti. Dov’è allora il confine tra coloro che la schiavitù esercitano e coloro che la schiavitù interiorizzano? Forse la distinzione può non essere così netta come sembrava in un primo momento. Forse siamo tutti alternativamente schiavi e schiavisti. Vittime e carnefici. Grace, alla fin fine, cerca di imporre la democrazia. Viene allora spontaneo chiedersi: chi può scegliere per il bene dell’altro? Chi, anche mosso dalle migliori intenzioni, può presupporre cosa sia corretto per l’altro? Questa rivelazione fa assumere a tutto una nuova prospettiva e quello che sembrava imposto sembra ora benevolo, fatto più per proteggere che per intrappolare. Insomma un film complesso, con molti livelli di lettura (tra i quali neanche cito gli evidenti riferimenti all’esportazione della democrazia, ossimoro per indicare l’occupazione americana dell’Iraq), che vertono sulla costruzione di una propria identità e sul difficile rapporto con il cambiamento. Un film complesso ma assolutamente consigliato.

A presto…

 

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Gli Inacirema…

Gli Inacirema...In questo post vi riporto un brano che lessi durante l’Università. Ricordo ancora come mi colpì, e come mi fece pensare all’importanza di come si raccontano le cose. Tratta della storia di un popolo, gli Inacirema appunto. All’intero sistema sembra essere sottintesa la credenza di fondo che il corpo umano è brutto e tende naturalmente alla debolezza e alla malattia. Imprigionato nel corpo, l’uomo ha soltanto la speranza di prevenire tali tendenze ricorrendo alla potente influenza dei riti e delle cerimonie. Ogni famiglia dispone di uno o più sacrari destinati a questo scopo… Il punto focale del sacrario è una cassa o tabernacolo inserito nel muro. Nel tabernacolo sono conservati molti filtri e pozioni magiche, senza i quali gli indigeni credono di non poter vincere. Questi preparati sono forniti da una serie di soggetti specializzati. I più potenti tra loro sono gli stregoni, le cui prestazioni devono essere ripagate con doni di valore. Gli stregoni, però, non preparano in prima persona le pozioni curative destinate ai clienti, ma decidono gli ingredienti da usare e li mettono per iscritto in una lingua antica e segreta. Così la prescrizione risulta comprensibile soltanto agli stregoni e agli erboristi che, in cambio di altri doni, preparano la pozione richiesta…
Gli Inacirema provano un orrore e un’attrazione quasi patologici per la bocca, le cui condizioni avrebbero un’influenza soprannaturale su tutti i rapporti sociali. Gli indigeni credono che, se non fosse per i rituali riservati alla bocca, i denti cadrebbero, le gengive sanguinerebbero, le mandibole finirebbero per rattrappirsi ed essi verrebbero abbandonati dai propri amici e respinti dai propri amanti. Essi credono anche che esista uno stretto rapporto tra caratteristiche orali ed etiche. Esiste ad esempio un’abluzione rituale della bocca prevista per i bambini che ha lo scopo di rafforzare la loro fibra morale.
Tra i rituali fisici quotidiani che tutti eseguono ce n’è uno riservato alla bocca. Sebbene questo popolo sia così puntiglioso nella cura della bocca, il rito comporta una pratica che appare rivoltante allo straniero non iniziato. Mi è stato riferito che il rituale in questione consiste nell’introdurre in bocca un piccolo ciuffo di setole di maiale con l’aggiunta di certe polveri magiche, e poi nell’agitarlo seguendo una serie altamente formalizzata di gesti. Chi sono gli Inacirema e in quale parte del mondo vivono? Sarete in grado di rispondere da soli a questa domanda e di identificare la natura dei rituali fisici descritti semplicemente leggendo al contrario la parola Inacirema. Quasi ogni attività che ci è familiare sembrerà strana se descritta fuori dal proprio contesto, invece di essere vista come parte del modo di vita complessivo di un popolo. I rituali di pulizia occidentali non sono né più né meno bizzarri dei costumi di alcune popolazioni del Pacifico i cui membri si strappano i denti frontali per rendersi più belli, o di certe tribù sudamericane che si inseriscono dei dischi all’interno delle labbra per rigonfiarle, credendo che ciò contribuisca a migliorare l’aspetto esteriore. [1]

A parte sottolineare la parzialità delle stranezze dei costumi di un popolo rispetto all’altro, quale esempio migliore di come il racconto influisca sulla nostra percezione? Come dico spesso, il racconto è la realtà e al racconto stesso dovremmo necessariamente prestare maggiore attenzione. Ancora una volta la nostra rappresentazione del reale, in questo caso una tribù ben conosciuta, è data dal modo in cui essa viene raccontata. Così come, nelle nostre vicende personali, dovremmo prestare particolare attenzione al modo in cui possiamo e vogliamo raccontarla e raccontarcela. Solo mettendo l’accento su questo importanza potremmo essere più attenti al modo in cui vogliamo condividere la nostra storia con gli altri e, soprattutto, con noi, avendo anche la possibilità di introdurre elementi nuovi in essa. E renderci conto, magari, che gli inaciremi non sono poi così lontani da noi!
Che ne pensate?
A presto…

 

[1] Giddens, A. (1995), Sociologia, Il Mulino, Bologna, pag. 44
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Mi chiamo Sam

Mi chiamo SamIl post di oggi riguarda un film che tocca il tema del ritardo mentale. Avrete capito, naturalmente, che mi riferisco al film Mi chiamo Sam (2001) del regista Jessie Nelson. Il film racconta la storia di Sam Dawson, un uomo sulla quarantina ma che ha le abilità mentali di un bambino di sette anni, come ci viene spesso ricordato nel film. Sam si trova costretto a crescere la figlia da solo dato che la madre della bimba fa perdere le sue tracce alla prima occasione che ha a disposizione. Sam viene aiutato in questo compito da una serie di figure come i suoi amici e una sua vicina di casa. La situazione precipita nel momento in cui si trova alle prese con il sistema giudiziario/legale che ne vuole una valutazione sulla affidabilità come genitore. Il tema del film è, fondamentalmente questo: può una persona con ritardo essere genitore? E, più in generale, c’è un’altra questione che attraversa il film: chi può stabilire se una persona sia adeguata a svolgere questa funzione? Lungi da me il voler fare un discorso generico sul fatto che l’amore vinca su ogni cosa. Il film vira troppo spesso su questo aspetto e, se posso, credo che questa sia una delle pecche del film. Talvolta questo eccessivo buonismo, spinge lo spettatore a caldeggiare un certo tipo di soluzione che, però, pecca talvolta di eccessiva ingenuità. Se dovesse, nella realtà, succedere qualcosa alla bambina ci stracceremmo le vesti gridando allo scandalo per dei servizi sociali mancanti. Vorrei spezzare una lancia in favore di coloro che lavorano nei servizi sociali, servizi per i quali l’attenzione per la situazione è tutto, di modo che si possa evitare un errore di sottostima piuttosto che di severità. Ecco, forse anche questo aspetto nel film è abbastanza trascurato dal momento che vi è un eccessiva polarizzazione tra i ‘buoni’ e i ‘cattivi’. Temo che questo tipo di semplificazione possa funzionare in un film ma difficilmente nella realtà. Vi starete chiedendo: ma se sto evidenziando tutti questi punti a sfavore perché vi segnalo questo film? Lasciando da parte le critiche di cui sopra, il film è interessante secondo me perché pone la questione su chi deve o dovrebbe essere genitore. Abbiamo due modelli nel film: Sam, del tutto implausibile secondo gli standard sociali, che invece svolge il suo ruolo con una dedizione, un’attenzione e una cura totali, e l’avvocato che Sam riesce ad ingaggiare, del tutto plausibile secondo gli standard sociali, eppure del tutto assente con il figlio, con il quale non riesce a parlare neanche per telefono, che non riesce ad ascoltare ne a vedere.

Chi è il vero genitore? E cosa fa di una persona un genitore? Non il reddito o una Porsche, verrebbe da dire. Ma il ritardo mentale? Può il ritardo di Sam essere causa dell’allontanamento di una figlia che sembra così attaccata al padre? Tra l’altro la dinamica tra il padre e la figlia è di una bellezza toccante. Sembra costruita su tutte le teorie relazionali che conosco. Tanto la bambina riesce, crescendo, ad acquisire nuove abilità, tanto non le vuole usare per non far sentire indietro il padre che, invece, queste abilità non ha. Con continui cambi di prospettiva nei quali prima è il padre che la protegge, poi la bimba; prima la bimba che apprende, poi anche il padre; prima è il padre che fa di tutto per incontrarla poi è la bimba che fugge continuamente di casa.

E la soluzione ad una situazione così ingarbugliata, sembra essere quella di includere anzicchè quella di escludere. Così non solo non viene escluso il padre ma, anzi, il padre chiede l’aiuto ad una figura femminile per aiutarlo nel, comunque difficile, compito. E alla fine, molti dei protagonisti, messe sul tavolo le loro debolezze, sembrano molto più vicini e simili rispetto all’inizio del film.

Rimane il quesito iniziale: cosa fa di una persona un genitore? Non so se esista una risposta a questa domanda. Credo che una chiave di lettura possibile, contenuta nel film, fosse quella di non pensare che la differenza passi tra genitori buoni e cattivi. Forse, la differenza è tra coloro che sanno di essere imperfetti. E coloro che, invece, sono convinti di essere migliori.

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio

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I ragazzi stanno bene

I ragazzi stanno beneIl film che volevo raccontarvi oggi si intitola I ragazzi stanno bene. Il film è uscito in Italia nel 2010, è della regista Lisa Cholodenko e ha come interpreti principali Annette Bening, Julianne Moore e Marc Ruffalo. La storia racconta di una famiglia normale: diatribe tra i coniugi, screzi con figli adolescenti, problemi di lavoro ecc. La differenza è che in questa famiglia abbiamo due mamme. Il film ruota intorno alla ricerca, al ritrovare e all’integrare il padre biologico all’interno di questa famiglia. I due figli rispettivamente di 18 e 15 anni, sono i promotori di questa ricerca che porterà a dei cambiamenti per tutti i membri della famiglia. Come al solito non vi svelo di più sulla trama.

Detto questo credo che il film ruoti intorno alla definizione e alla ricerca di un nuovo equilibrio per una realtà decisamente in cambiamento come la famiglia. Tutti i membri sono portati ad interrogarsi su cosa voglia dire ‘essere’, declinato in vari modi: cosa vuol dire essere madri, essere padri, essere figli? Come ci si comporta con un figlio che vuole cercare il proprio padre biologico? Come ci relaziona con dei ragazzi mai visti prima e dei quali si è padre? Come ci si relaziona con un uomo che è nostro padre? Questo insieme di cambiamenti porta nuove domande, nuove prospettive, nuove risposte su ruoli che sembravano ormai consolidati ed acquisiti.

Ci si interroga sul proprio valore (se un figlio va in cerca del padre biologico vuol dire che si è falliti in qualcosa facendo la madre? Che non si basta più al proprio figlio?), sulle proprie funzioni (come si fa il genitore? troppo presenti o troppo assenti sono potenzialmente sullo stesso piano?), sui propi equilibri (Nic, che ha un pò il ruolo del capofamiglia sembra particolarmente destabilizzata dal fatto che le stiano in qualche modo ‘rubando’ la famiglia), sui propri ruoli (se una delle due madri ha sempre avuto/voluto la famiglia sulle spalle può un giorno dire, senza destabilizzare gli altri, che non vuole avere più questa funzione?), sui propri confini (cosa è famiglia? Dove sono i confini tra l’interno e l’esterno? Perché quello che sembrava acquisito sull’identità familiare viene messo così in discussione?).

Insomma, un film incompleto, che non da ricette, che non ha una fine. Pone delle domande, degli interrogativi. Ed è lo spaccato di quella che potremmo considerare una famiglia ‘normale’ della società di oggi. Una famiglia incasinata. Una famiglia in costruzione. Una famiglia come tante altre. Una famiglia in cui il fatto che ci siano due mamme è un dettaglio del quale potersi scordare dopo pochi minuti di film.

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio

 

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Non abbassiamo la guardia!

Non abbassiamo la guardiaIn occasione della giornata mondiale della lotta contro l’Aids, volevo segnalarvi un articolo interessante (Repubblica 16.06.2011) che tratta il tema di una recrudescenza del numero di casi di malattie sessualmente trasmissibili nei paesi occidentali. Non si riferisce solo al temibile virus dell’HIV quanto in generale alle malattie a trasmissione sessuale, la diffusione di alcune delle quali pareva ormai alle spalle. Sembrava che una attenta politica sociale, circa i rischi che si corrono con rapporti non protetti, avesse rallentato questo tipo di malattie. Evidentemente, forti dei risultati ottenuti, la guardia è stata abbassata e questo può avere portato all’aumento del fenomeno.

Per il momento il link:

http://www.repubblica.it/salute/prevenzione/2011/06/16/news/boom_di_malattie_sessuali_in_europa_allarme_anche_in_italia_pi_a_rischio_le_ragazze-17680602/

A presto…

Fabrizio

 

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Falso miele…

Falso miele...Avrete, forse, sentito la storia della grazia concessa dal Presidente Giorgio Napolitano il 15 Ottobre scorso a Calogero Crapanzano, il padre che quattro anni fa, uccise il figlio Angelo, 27 anni, dopo l’ennesima crisi violenta del ragazzo. Angelo era autistico e, a quanto ne sappiamo, era stato colpito da meningite quando era piccolissimo. Il tutto ha avuto come teatro il quartiere di Falsomiele a Palermo. Falsomiele. Un nome che mi ha colpito. I latini dicevano nomen omen. Nel nome, un destino. Non c’è nessun miele in questa storia, nessuna dolcezza. La grazia concessa permette ad un padre di essere a posto nei confronti della legge. Ma, temo, dovrà per sempre fare i conti con la mancanza di suo figlio. E’ un nome che descrive appieno l’ambivalenza di questa storia. Il padre di Angelo accudiva il figlio da solo dal momento che anche la moglie dell’uomo soffriva di forti esaurimenti nervosi. La situazione era insomma abbastanza pesante e Calogero, all’ennesimo scoppio d’ira del figlio, ha reagito in modo definitivo. Il giudice che si trovò a giudicarlo per primo, Lorenzo Matassa, difese l’imputato asserendo che l’uomo, e la sua famiglia, fossero stati lasciati soli sia di fronte alla malattia del figlio, sia di fronte alla difesa della salute, bene la cui difesa è prevista dalla nostra Costituzione. Per queste motivazioni, Matassa fu duramente criticato è accusato di “troppa partecipazione, di troppo afflato, di eccessiva comprensione umana…“( fonte Corriere della Sera) A parte che ci sarebbere da discutere su cosa sia la eccessiva comprensione umana, la vicenda mi ha fatto riflettere, dal momento che si colloca nel confine tra cosa è lecito fare e cosa no. Può un uomo per quanto esasperato da una situazione terribilmente complicata, porre fine alla vita di un’altra persona? E’ tollerabile che le attenuanti possano trovarsi nella salute mentale? Perché sembra che questa famiglia fosse lasciata sola nell’affrontare questa situazione? Nessuno si era mai accorto di come ci fosse la possibilità di arrivare ad un punto di non ritorno?

No, non ho delle risposte. Conosco troppo poco di questa storia per potermi permettere di darvene. Spero che, conoscendomi, sappiate che preferisco un sicuro dubbio ad una confusa certezza.

Penso sempre, però, come, in vicende come questa, l’unica mia vera certezza sia muoversi con rispetto. Rispetto delle persone coinvolte. Della storia. Di una morte. Di una storia carica di sofferenza. Una storia, forse, condizionata dalla solitudine di due persone che si sono trovate impreparate ad affrontare quello che il figlio rappresentava per loro. Una storia che, con le sue ombre, le sue ambiguità, le sue incertezze, forse ha qualcosa da insegnare anche a tutti noi.

A presto…

Fabrizio

 

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