InVita laVita

InVita laVitaSono lieto di comunicarvi che ho iniziato la collaborazione con la onlus InVita laVita, associazione di Cagliari che si occupa del supporto di persone colpite da tumore. Il progetto, ha come scopo quello di dare sostegno e armi, in un momento di debolezza e disorientamento, alle persone che sono state colpite dal cancro, tra le malattie la più terrorizzante. Scopo dell’associazione è quello, dunque di fornire un supporto alle persone che vengono colpite da questo tipo di malattia o naturalmente, ai familiari. Il metodo che viene utilizzato è fondamentalmente quello dell’auto aiuto, basato sul meccanismo che persone che stanno vivendo, o hanno vissuto situazioni di vita simili, adeguatamente formate, facciano da sostegno e da supporto per persone che stanno entrando in questo tipo di situazioni. L’associazione è costituita ed è coadiuvata da una molteplicità di figure professionali che si occupano, ognuno con la propria professionalità, nel supportare le persone colpite dalla malattia.

Trovo che questa iniziativa sia non solo un ottimo modo per sostenere le persone in un momento di difficoltà, ma un ottimo modo per far si che la propria professionalità vada incontro alle esigenze della collettività. Ho, per questi motivi aderito alla proposta fatta da una delle socie fondatrici, la dottoressa Manca, e ho messo a loro disposizione la mia competenza, la mia attenzione e il mio tempo.

Chi fosse interessato alla tematica e si sentisse portato a partecipare, può, per maggiori informazioni o chiarimenti, contattare direttamente l’associazione al numero: 333 4303672 oppure attraverso mail invitalavita@gmail.com. Spero che ognuno di noi possa, per quanto gli è possibile, partecipare a questo splendido progetto.

A presto…

Fabrizio

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Perchè siamo così aggressivi su internet?

Perchè siamo così aggressivi su internetIl post di oggi scaturisce da una riflessione che ho avuto e riguarda sopratutto i mezzi di comunicazione come i social network o i messaggi. Non so se sia solo una mia impressione ma le posizioni, qualunque esse siano e qualunque argomento riguardino, sembrano sempre propendere per delle estremizzazioni che, talvolta, appaiono veramente eccessive. Persone che augurano apertamente la morte di qualche personaggio pubblico, la maggior parte delle volte politici accusati di qualunque possibile crimine, interventi che inneggiano direttamente alla violenza contro qualcuno (come per esempio pedofili).

Addirittura si arriva all’assurdo per cui persone che non consumano carne, per una scelta di rispetto e di antiviolenza credo, sperano che coloro che ne consumano facciano la stessa fine degli animali di cui si nutrono. Come sempre, credo che questa degenerazione debba avere una spiegazione e mi chiedevo come fosse possibile che posizioni sempre più estreme sembrino quelle che riscuotono il maggior successo. Ho due chiavi di lettura: da una parte le eccessive polarizzazioni delle posizioni in qualunque dibattito pubblico, dall’altra una comunicazione deficitaria che, non permettendo una reale comprensione del messaggio porta ad una eccessiva semplificazione dello stesso. Cerco di spiegarmi meglio. Non so se avete fatto caso ma oramai le persone non hanno più opinioni: hanno certezze. Non hanno più idee: hanno fedi. Non sono più in grado di pensare autonomamente: sono tifosi faziosi di qualche posizione che non concede repliche. Questa estremizzazione porta a scontri sempre più forti tra i ‘tifosi’ di una parte e quelli della parte avversa che, non aiutando a capire le ragioni dell’una o dell’altro, portano ad accentuare ulteriormente le posizioni e, di conseguenza, le tifoserie avversarie. Uno dei fattori che credo abbia contribuito a questa polarizzazione è l’anonimato, inteso come non conoscenza, che sta alla base del meccanismo col quale comunichiamo sui cosiddetti social network come Facebook o Twitter. Per anonimato intendo specificamente la mancanza di conoscenza diretta, la mancanza di una relazione reale che supporti quella virtuale. Alla base del successo di queste piattaforme, o delle chat, sta,secondo me, la possibilità che offrano una sorta di filtro nella relazione, un filtro che si frappone fra noi e il mondo e che, pur permettendoci di essere visti, ci protegge dall’esporci in un modo che potrebbe risultare ‘scomodo’. Questa protezione può permettere che la rabbia che sentiamo per un argomento possa uscire con molta più facilità, non filtrata dal fatto di starci mettendo la faccia. In un rapporto diretto, ‘reale’, saremo tenuti a tenere in qualche modo a bada questo sentimento. Notate come una discussione su Facebook spesso degeneri con una facilità estrema. Probabilmente, se la stessa discussione fosse avvenuta tra persone che si vedevano e che, dunque comunicavano anche in altra maniera oltre a quella scritta, sarebbe forse stata meno cruenta o non sarebbe degenerata in questo modo. Le persone avrebbero magari saputo mediare tra le diverse posizioni. Se questa comunicazione fosse avvenuta faccia a faccia, sarebbero entrati, nella comunicazione stessa anche altri livelli comunicativi che avrebbero influenzato la comunicazione stessa. Mi riferisco a tutti quei livelli di comunicazione non verbale (sguardo, postura, tono della voce, ecc) che entrano in gioco nel processo comunicativo, che lo caratterizzano e lo significano (sapete cogliere al volo se una persona sta scherzando con voi o facendo sul serio e in base a quello che cogliete potete rispondergli!) e che sono assenti nella comunicazione virtuale. Questi due aspetti potrebbero contribuire a spiegare il perché questa capacità di mediazione sembra essersi persa su internet.

Un altro fattore che potrebbe giocare un ruolo importante è il numero delle persone coinvolte. Su internet chiunque può intervenire in ogni discussione dell’altro e questo ci fa sentire esposti ad un livello più ampio. La mancata mediazione e l’esposizione potrebbero aumentare il livello di aggressività con cui si risponde. Questo meccanismo può essere considerato come circolare ed autorinforzantesi perché più vediamo questo tipo discussioni, più aumenta in noi la percezione che ci siano persone con un grado di aggressività alto, più ci farà avere meno freni inibitori quando ci ritroveremo a dover sostenere la nostra tesi in un’altra discussione. Ovviamente la mia è un ipotesi e, come tale, andrebbe considerata. Se ci pensate il fraintendimento comunicativo avviene spesso anche via sms proprio perché viene a mancare tutto il lato comunicativo non verbale che sottende e conferma la comunicazione scritta. Se con un sms possiamo comunicare con una persona, con Facebook o con Twitter possiamo comunicare contemporaneamente con molte persone e questo può aumentare esponenzialmente il grado di possibile fraintendimento della comunicazione stessa. Forse dovremo considerare questo prima di lanciarci nel difendere la nostra tesi a spada tratta e prima di pensare, insultandolo, che l’altro ci volesse offendere. E dovremmo considerare anche come i nostri irrigidimenti non ci portino a comunicare ma anzi a sottrarci alla possibile messa in discussione della nostra prospettiva

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio

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Sempre a proposito di ADHD…

Sempre a proposito di ADHD...Vi segnalo un articolo in cui si parla di uno strumento, Eis, che sarebbe utile nella rilevazione della diagnosi di ADHD, il disturbo da deficit dell’attenzione e da iperattività. Mi sono già occupato di questo tema nel post ADHD. Cliccandoci sopra, potrete leggere il post in questione. Nell’articolo si sottolinea come questo tipo di diagnosi siano ancora gravate, soprattutto nel bambino, da frequenti errori. Ciò può portare a errati trattamenti con effetti collaterali a carico del cervello che potrebbero avere pesanti ricadute in là negli anni.  Questo tipo di esame, che si baserebbe sul principio della bioimpedenza, cioè della conducibilità di piccoli flussi di  corrente attraverso i tessuti corporei, (stesso principio usato per esami molto comuni come, per esempio l’elettrocardiogramma), come riporta l’articolo, costa poco ed è facilmente utilizzabile di routine, offrendo la possibilità di monitorare in maniera obiettiva l’andamento del quadro clinico, anche in risposta ai trattamenti. Inoltre consente di confermare la diagnosi clinica di ADHD con una specificità del 98% e una sensibilità dell’80%.

Nello studio, pubblicato su Psychology Research & Behaviour Managementgli autori tengono a precisare che questo esame non può da solo diventare l’unico marker diagnostico di ADHD, ma se questi risultati saranno confermati, diventerà certamente quell’ausilio pratico che finora era sempre mancato nella diagnosi clinica. D’altro canto, anche se questa metodica è stata impiegata per la prima volta in questa malattia, ha alle spalle anni di utilizzo nella diagnosi di altre patologie, da quelle cardiache a quelle neurologiche e metaboliche. L’avvento di una nuova metodica che permetta una migliore diagnosi è sempre da salutare con favore. Spero che il miglioramento diagnostico porti ad evitare tutta quelle serie di diagnosi errate che spesso, sono dettate più da altre ragioni che da motivi reali. Detto questo, mi inquieta sempre leggere di effetti collaterali a carico del cervello che hanno ricadute in là negli anni. Trovo la leggerezza con cui si riferiscono certe cose abbastanza sconcertante, tenendo anche conto che stiamo parlando di bambini. Ma come, quello che mi dovrebbe far star meglio potrebbe avere pesanti ricadute? Indubbiamente, non si pretende la perfezione in un campo, quello medico, nel quale essa è molto lontana. Ma una maggiore attenzione credo sia assolutamente doverosa. Se potessimo prestare più cura alle influenze che questi farmaci possono avere, se, cioè, fossimo informati meglio, ne guadagnerebbe la salute e il cervello in là con gli anni. 

Magari non ne guadagnerebbero le case farmaceutiche, ma temo che questo sia un altro discorso. O no? 

Intanto il link: http://www.corriere.it/salute/11_ottobre_30/adhd-diagnosi-avatar-computerizzato-peccarisi_50459938-fef3-11e0-b55a-a662e85c9dff.shtml

L’articolo è del Corriere della Sera ed è a firma di Cesare Peccarisi.

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio

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Revolutionary Road

Revolutionary RoadIl film di cui voglio parlarvi oggi si intitola Revolutionary Road del regista Sam Mendes (2008). Il film è una bellissima e dolente descrizione della vita di due coniugi April (Kate Winslet) e Jack (Leonardo Di Caprio). Lei, come intravediamo all’inizio del film, è un attrice, mentre lui, impiegato in una grossa azienda e innamorato della moglie, sembra assecondare le passioni di April. La famiglia, i due hanno due bambine, si trasferisce in una casa che sembra la perfetta incarnazione del sogno medio borghese americano: bianca, col prato ben tenuto e il vialetto. Man mano che il sogno sembra concretizzarsi per la coppia, scopriamo che forse il sogno non è di entrambi ma che anzi April si trova sempre più costretta a stare all’interno di un modello che non la rappresenta per niente. Inizia una sorta di lotta per la definizione delle regole dove più Frank sembra rincorrere il sogno della sistemazione, più April si sente sopraffatta da questa normalità, dalla quale invece vorrebbe sfuggire. Se c’è stato un momento nel quale April ha pensato di poter condividere il sogno del marito, tocca poi a Frank l’intenzione di fare come propone la moglie. April ha, infatti, un sogno: convincere il marito a trasferirsi a Parigi dove lei potrebbe lavorare mentre lui potrebbe prendere un periodo di aspettativa. Il piano è’rivoluzionario’ per il periodo nel quale il film è ambientato (siamo intorno agli anni ’60): la mogie lavora, il marito no. Frank sembra condividere il piano della moglie nonostante i loro perfetti vicini di casa, complimentandosi con loro della loro decisione, ci facciano capire poi cosa pensassero realmente. In questo sprazzo di felicità, in un momento di passione, April rimane incinta del terzo figlio. Questo scombussola tutti i piani e allontana gradualmente ma inesorabilmente i due coniugi che tendono ad irrigidirsi sulle loro posizioni e a riuscire a comunicare tra loro sempre meno. Entrambi sembrano a disagio col sogno coltivato dall’altro ed entrambi si rifugiano in rapporti fugaci esterni alla coppia. La distanza è tanto più proporzionale alla consapevezza che i due progetti di vita si stanno discostando. Colpisce come, in una delle scene più drammatiche del film, sia il personaggio del ‘pazzo’ che, facendosi carico del peso di poter dire ciò che tutti pensano ad alta voce. Riesce, infatti, a superare le ipocrisie e i manierismi che la società coltiva per cercare di proteggerci ma che, in realtà, servono a mascherare le difficoltà di questa famiglia. John, il figlio disturbato del loro agente immobiliare, nella scena cui accennavo, fa loro un discorso che potrebbe essere un trattato di terapia familiare: dice a Frank che forse il motivo per cui ha messo incinta April era la paura del fatto di poter seguire il sogno di April stessa e che entrambi si meritano l’uno con l’altro tanto Frank con le sue paure, quanto April con la sua incapacità di seguire fino in fondo i suoi sogni. Nel momento in cui viene rotto il velo dell’ipocrisia, niente può più tornare a posto soprattutto se la soluzione sembra essere il ritorno ad un formalismo di facciata che non sembra ormai rappresentare più nessuno. Non vi voglio rovinare il finale. Ma una delle ultime scene è emblematica di come certe macchie, vitali, vadano a distruggere la perfezione formale di un salotto immacolato.

Insomma un film molto bello, al quale la bravura dei protagonisti aggiunge un valore in più. Un film che fa riflettere sul come la mancanza di dialogo e lo scostamento dai sogni, aspetti dei quali tutti sembrano essere consapevoli, non può essere superato con una magnifica facciata. Una magnifica facciata può essere mantenuta solo a costo della fine del dialogo come ci fa intuire il marito dell’agente immobiliare che abbassa il volume del suo apparecchio acustico per non sentire la moglie.

Può forse essere questa una fine migliore?

A presto…

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Lentamente muore…

Lentamente muore...Il post di oggi è una delle mie poesie preferite. Erroneamente attribuita a Pablo Neruda, è in realtà della scrittrice brasiliana Martha Medeiros. In portoghese si intitola A Morte Devagar (Una morte lenta). Un inno al cambiamento, alla trasformazione, al non adagiarsi su quello che si ha, al mutamento che passa attraverso le piccole cose, a tutte quelle curiosità che spingono a mettere in discussione ciò che diamo per acquisito, abitudini che spesso si trasformano in gabbia all’interno della quale ci muoviamo inconsapevoli, bloccati dalla morsa protettiva della routine che rischia di farci, appunto, morire lentamente e inconsapevolmente:

Lentamente muore chi diventa schiavo dell’abitudine,

ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi,

chi non cambia la marcia,

chi non rischia e cambia colore dei vestiti,

chi non parla a chi non conosce.

 Muore lentamente chi evita una passione,

chi preferisce il nero su bianco e i puntini sulle “i”

piuttosto che un insieme di emozioni,

proprio quelle che fanno brillare gli occhi,

quelle che fanno di uno sbadiglio un sorriso,

quelle che fanno battere il cuore

davanti all’errore e ai sentimenti.

Lentamente muore chi non capovolge il tavolo,

chi è infelice sul lavoro, chi non rischia la certezza

per l’incertezza, per inseguire un sogno,

chi non si permette almeno una volta nella vita

di fuggire i consigli sensati.

 Lentamente muore chi non viaggia, chi non legge,

chi non ascolta musica, chi non trova grazia in se stesso.

 Muore lentamente chi distrugge l’amor proprio,

chi non si lascia aiutare; chi passa i giorni a lamentarsi

della propria sfortuna o della pioggia incessante.

 Lentamente muore chi abbandona

un progetto prima di iniziarlo,

chi non fa domande sugli argomenti che non conosce,

chi non risponde quando gli chiedono

qualcosa che conosce.

Evitiamo la morte a piccole dosi,

ricordando sempre che essere vivo

richiede uno sforzo di gran lunga maggiore

del semplice fatto di respirare.

Soltanto l’ardente pazienza porterà al raggiungimento

di una splendida felicità. 

Spero sia stata una piccola scoperta!

A presto…

Fabrizio

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Travestiti che usciamo (2)

Travestiti che usciamo (2)Temo di non essere del tutto d’accordo su alcune parti di questa citazione. Tanto per cominciare vorrei porre l’accento sulla velata colpevolizzazione della figura materna nello sviluppare il terreno fertile in cui crescerebbe, poi, il transessualismo. La stessa critica che mi sentirei di rivolgere alla definizione di madre frigorifero dello psicoanalista Bruno Bettelheim (per intendere una donna affettivamente fredda) per spiegare le cause dell’autismo infantile. Queste definizioni sono perfette per essere ricordate ma, a mio parere, estremamente riduttive. Tanto riduttive che non se ne coglie la possibilità d’uso. Da un punto di vista sistemico, poi, sono ancora più incomprensibili dal momento che non si capisce come una sola persona, sebbene stiamo parlando della madre, possa essere così influente. Verrebbe da chiedersi dove sia il padre di questo bambino. E poi, dobbiamo sempre ipotizzare che madre e figlio vivano isolati, soli, in un bunker? Nessun gruppo sociale ha altre influenze su questo bimbo? Non ha altri modelli?

Sempre in tema, non sono d’accordo nel puntare l’indice su una supposta responsabilità nello sviluppo del transessualismo. Ditemi voi chi può simpatizzare per la figura materna sopra descritta: prima vezzeggia la parte femminile del figlio, la sua sensibilità (e anche qua ci sarebbe da aprire una parentesi: ma la sensibilità è solo prerogativa femminile?) poi, nel momento in cui ha sviluppato ‘il mostro’ lo tradisce perché socialmente inaccettabile. Credo che questo tipo di spiegazioni sia non solo forzata quanto poco rispondente al vero. Se conoscessi questa madre al massimo potrei chiederle che senso può avere per lei vezzeggiare le parti femminili in un figlio maschio. Ampliare il discorso, non chiuderlo in soluzioni così standardizzate. Insomma, non credo che questo tipo di generalizzazione possa essere d’aiuto nella comprensione di una questione così delicata.

E ancora, perché si da ad intendere che l’unico sbocco del transessualismo sia la prostituzione? Suppongo sia uno degli inevitabili sbocchi di queste scelte ma perché farne l’unico? Abbiamo anche delle descrizioni che sono involontariamente comiche:il travestito è un simbolo sessuale, attraente e sicuro. Sicuro? Non comprendo in cosa il travestito possa essere sicuro. Anzi. Credo sia proprio l’ambiguità, i possibili passaggi a cavallo tra i due sessi, l’essere fisicamente un uomo che usa armi di seduzione femminile, possono giocare un ruolo importante per il loro ‘successo’. E non mi piace molto neanche la frase povero di strumenti alternativi come tutti i diversi. Cosa significa povero di strumenti alternativi? Alternativi a cosa? Al transessualismo? Quest’ottica si pone nei confronti del transessualismo come un’ottica per cui sia una scelta ingiusta, da correggere. Certo, sarebbe meglio se la persona avesse strumenti alternativi tra i quali scegliere. Forse sarebbe più libero. Ma perché costruire artificiosamente la categoria dei diversi poveri di strumenti? Quasi fosse una certezza.

Credo sia convincente, invece l’analisi dei possibili ‘punti di sbocco’: una scelta definitiva di cambio di sesso, una diversità meno esibita, possibili condotte di tipo deviante.

Forse vi starete chiedendo perché vi abbia segnalato questo articolo se non lo condividevo molto. Ho considerato potesse essere spunto di riflessione su un tema di cui non si parla molto, se non in relazione a scandali che possano coinvolgere persone famose. Chi si sentisse di dire qualcosa in proposito può, ovviamente, farlo anche privatamente alla mia email. Spero anzi che ci siano testimonianze che possano smentire l’equazione travestito=prostituzione. Sarebbe un bel passo avanti per smontare un cliché forse troppo ricorrente. 

 

A presto…

Fabrizio

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Travestiti che usciamo (1)

Travestiti che usciamo (1)Il post di oggi ha come tema il travestitismo, persone che indossano indumenti propri del sesso opposto. Il termine non è da confondere con transessualismo, termine che indica persone la cui identità psicologica non corrisponde all’identità fisica e che, per questo, si atteggiano, vestono, comportano sempre come persone del sesso opposto. Spesso, queste persone hanno come obiettivo il cambiamento chirurgico del sesso. Fatta questa piccola premessa, leggevo in un libro un passo riguardante i travestiti che vi riporto integralmente. Credo che nel brano il termine travestitismo sia usato con accezione più ampia rispetto a come l’ho esemplificata io, e coinvolga anche il transessualismo.

Il brano: un esempio recente e particolarmente drammatico di interazione fra fattori di ordine personale, familiare e sociale nello sviluppo sociopatico è quello proposto dalla vita e dalla storia dei travestiti che si prostituiscono sui marciapiedi delle grandi città dell’Occidente. Una ricostruzione attenta della loro vita familiare permette di collegare, in alcuni casi, le incertezze del loro orientamento sessuale alla valorizzazione delle loro tendenze femminili da parte, in particolare, della madre (che li vestiva da donna quando erano piccoli, che sottolineava la loro sensibilità, dolcezza, attitudine alle faccende di casa e che insisteva comunque sul significato affettivo per lei di questi comportamenti). “Traditi” dalla madre nel momento in cui la loro problematica e il loro comportamento diventano socialmente ed emotivamente insostenibile, molti di questi giovani affrontano situazioni conflittuali gravi all’interno di una famiglia che non accetta la loro diversità e si sentono costretti ad andarsene di casa. L’attrazione e il rifiuto che essi determinano negli uomini con l’ambiguità della loro presenza sessuale diventano a questo punto la loro forza e la loro debolezza, condizionando in modo spesso definitivo le loro scelte successive. Per strada, di sera, il travestito è un simbolo sessuale, attraente e sicuro. Di giorno, nei luoghi della vita comune, è un diverso di cui ci si vergogna. Povero di strumenti alternativi come tutti i diversi la cui crisi si esprime in fasi decisive per la formazione e per l’acquisizione degli strumenti  culturali necessari  al lavoro, egli si sente respinto irresistibilmente (come accade appunto nello ‘sviluppo’) verso la prostituzione: un comportamento riprovato (la polizia) e sollecitato (i clienti, fra cui bisogna valutare ovviamente, a volte anche i  poliziotti) da un sistema sociale che utilizza fino in fondo la loro diversità.

Interessante, anche nel caso dei travestiti, l’osservazione relativa al decorso naturale della loro condizione di sofferenza. In mancanza di casi documentati di “guarigioni” ottenute con interventi basati sul tentativo di farli desistere dal loro comportamento, quelle che è possibile documentare sono infatti:

  • evoluzioni integrative attraverso il cambiamento definitivo, anagrafico e anatomico, del sesso; 
  • evoluzioni positive verso l’accettazione di una diversità meno esibita e progressivamente più integrata nelle comunità omosessuali;
  • evoluzioni di tipo psicopatico con lo stabilizzarsi di una prostituzione sempre più esibita, aggressiva e conflittuale e con il sopravvenire di disturbi comportamentali di secondo livello (alcool e droga). [1]
– Continua –
 
[1] Cancrini, L., et al., Il transessualismo e il cambiamento di sesso, in Cancrini, L., La Rosa, C. (1991), Il vaso di Pandora, Carocci, Roma, pp. 227-228
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La felicità? Arriva dopo i 40 anni!

La felicità Arriva dopo i 40 anniCercando di riequilibrare il post che affrontava il tema della depressione a 40 anni (La depressione? Arriva a 40 anni! pubblicato il 02.07.12), vi segnalo l’articolo del Corriere della Sera che invece sostiene la tesi contraria: la felicità sarebbe al picco nella fascia d’età tra i 40 e i 60 anni. Secondo l’autore David Bainbridge, autore del libro Middle Age (Mezza età) le persone che si trovano tra i 40 e i 60 anni sarebbero più stabili emotivamente, più felici e più intelligenti che in ogni altro periodo della vita. All’interno di questo range d’età le persone, prese nel mezzo delle loro molteplici incombenze di vita, sarebbero più resistenti e portate ad utilizzare al massimo le risorse che sentono di avere a disposizione. Insomma, altro che depressione. Si avrebbe in questo periodo, complice anche quella sensazione di essere ‘formati’, di essere adulti che si dovrebbe acquisire in quegli anni, una sorta di picco di autoconsapevolezza che sarebbe del tutto diversa da quella che si può ottenere prima dei 40 (in cui si è giovani e si risente dei saliscendi emotivi e di autostima propri della giovinezza) o dopo i 60 (anni nei quali si può invece riverberare sulla nostra vita lo spettro della fine, dell’inutilità che spesso accompagna, ingiustamente, la terza età).

Naturalmente la mia opinione è quella che andrebbero vagliate le singole storie personali piuttosto che ragionare in termini di età. Se è vero che questi studi possono favorire la descrizione di tendenze generali, è anche vero che non tutti raggiungono un grado di maturità tale a quell’età e che molti sono i maturi o gli immaturi prima della fatidica soglia dei 40. Vero altrettanto è che, probabilmente, una persona arrivata in quella fascia d’età tracci i primi bilanci sulla sua vita, ma questi, come abbiamo visto nell’altro post, potrebbero non corrispondere con quello che una persona si era immaginata nella sua vita e quindi ingenerare un senso di frustrazione o di delusione. Insomma un terreno ben più insidioso e mobile che non so quanti aiuti classificare per categorie così ampie ed eterogenee. 

Questo il link di riferimento se voleste leggere l’articolo:

http://www.corriere.it/cronache/12_marzo_19/agnese-felicita-quaranta-anni_7bc16b5e-7195-11e1-b597-5e4ce0cb380b.shtml 

L’articolo è della giornalista Maria Luisa Agnese.

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio

P.s. Non ho aggiunto un particolare. L’autore del libro è un veterinario che, credo in base alla sua esperienza acquisita sul campo, ha esteso le sue osservazioni al mondo degli umani. Mi ha molto incuriosito questo dettaglio. Forse il suo punto di vista privilegiato gli ha permesso di scorgere aspetti che noi, evoluti, non riusciamo a scorgere più in noi. Non so. Spero, comunque, che questo dettaglio non influenzi la vostra riflessione!

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La depressione? Arriva a 40 anni!

La depressione Arriva a 40 anniVi segnalo un articolo di Repubblica che riguarda un aspetto particolare della depressione. Uno studio pubblicato dall’IZA Institute di Bonn, svolto dai ricercatori delle Università di Warwick e di Stirling, stabilirebbe, infatti, che, in Europa, un quarantenne su 10  ha assunto almeno un antidepressivo nel corso del 2010. I paesi che avrebbero il più alto consumo di antidepressivi sarebbero Inghilterra, Portogallo, Francia e Lituania. In questa particolare classifica il nostro Paese si collocherebbe nella fascia più bassa con appena l’1% della popolazione di 40enni che fa uso di farmaci antidepressivi per più di quattro volte a settimana.

La ricerca metterebbe in luce come, nella fascia d’età presa in considerazione, sarebbero più colpite le donne rispetto agli uomini. Ad aggravare il consumo inciderebbero caratteristiche come il fatto di essere disoccupate, divorziate o separate.

Quello che colpisce di più è la motivazione che spiegherebbe il perché dell’insorgenza della depressione in questa particolare fascia d’età. Il motivo sarebbe legato al disvelamento dell’impossibilità di perseguire i propri sogni. Mi spiego meglio: da giovani si ha l’impressione che ogni tipo di obiettivo possa essere alla nostra portata, che per ogni cosa si desideri, ci sia la possibilità temporale di conquistarla. Mano a mano che la vita procede, i nostri sogni dovrebbero fare i conti con il dato di realtà che, spesso, si rivela inferiore alle aspettative. Questo può causare quel senso di scoramento o di fallimento che porta ad un consumo di sostanze antidepressive. Ovviamente ci sarebbe da discutere sul perché ormai sembriamo così inadatti a fare i conti con la realtà. Forse, drogati da anni di investimenti in sogni-alla-portata-di-tutti, appena la nostra vita si discosta dal magico mondo che qualcuno aveva immaginato per noi, ci sentiamo incompleti, non arrivati. Falliti.

Non sarebbe ora di rivedere le nostre priorità? E di deciderle da noi invece di farcele imporre da qualcuno?

Per il momento il link:

http://www.repubblica.it/salute/forma-e-bellezza/2011/06/23/news/depressi_a_40_anni-18108441/

L’articolo è di Irma D’Aria.

A presto…

Fabrizio

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Diario di una schiappa

Diario di una schiappaIl film che vi racconto oggi è una commedia che ci fa entrare direttamente nel ‘magico’mondo della preadolescenza e dei suoi molteplici riti di passaggio. Si intitola Diario di una schiappa(2010), è del regista Thor Freudenthal ed è basato sul libro di Jeff Kinney. Fondamentalmente il film racconta la vita di un ragazzo, Greg, che si trova a dover fronteggiare il passaggio dalle scuole elementari alle scuole medie. Il film tratta con una irresistibile ironia di fondo, tutti i più importanti temi di quell’età: le prime ‘conquiste amorose’, o meglio i primi scontri/incontri con l’altro, le prime consapevolezze sulle funzioni e sull’immagine sociale e, quindi, tutte le tematiche correlate come l’accettazione o l’esclusione, la desiderabilità sociale o il rifiuto, le cose ‘giuste’ e quelle ‘sbagliate’ da fare. Ancora i primi screzi nella famiglia, i primi casini con gli amici, e tutto quello che vorremmo fare per far si che tutte le cose a cui teniamo a quell’età andassero bene ma che, in realtà, si rivelano dei totali disastri. Molte tematiche sono affrontate particolarmente bene sopratutto il clima competitivo che si può instaurare all’interno dell’ambiente scolastico. Le dinamiche di gruppo, con i loro continui capovolgimenti di ruolo e con i continui aggiustamenti, i riti collettivi che tutti condividono e che nessuno sembra essere in grado di sovvertire, le dinamiche di inclusione ed esclusione dai gruppi secondo meccanismi apparentemente indecifrabili. Insomma realtà con le quali a tutti noi, penso, sia capitato in qualche modo di avere a che fare. Credo che, per le tematiche affrontate, possa essere un film molto utile da vedere con i propri figli adolescenti perché, tramite la condivisione, permette di fare delle riflessioni con loro di alcuni degli aspetti che caratterizzano la loro età.

La forza del film sta nella capacità di affrontare questi temi con un’ironia e una leggerezza che riesce a mascherare e, forse a farci dimenticare, quanto questi temi siano, o siano stati importanti, nella nostra formazione. Chi di noi può non identificarsi in qualcuna delle mille peripezie che si svolgono all’interno della scuola? O può non riconoscersi in uno degli aspetti dei protagonisti del film? Insomma, come al solito non vi svelo altro per non rovinarvi la trama ma spero di avervi incuriosito abbastanza per spingervi a vederlo.

Naturalmente, nel caso lo vedeste, fatemi sapere che cosa ne pensate.


A presto…
 
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