Spesso, con le persone con le quali lavoro, è capitato che, dopo avermi descritto delle situazioni particolarmente ingarbugliate, mi facessero delle domande tipo: “ma lei cosa farebbe?” o “mi dia un consiglio!”. Queste richieste, per quanto ne capisca l’urgenza per la persona che me lo chiede, di solito difficilmente vengono accolte nella mia pratica lavorativa. Credo si tratti di una sorta di scappatoia che la persona sceglie e me ne sottraggo appena posso. Mi spiego meglio. Quando una persona fa una affermazione del genere cosa mi sta chiedendo? Sostanzialmente mi sta chiedendo di cercare di capire la situazione, di mettermi nei suoi panni e di aiutarlo a decidere. Al posto suo. Ovviamente non stiamo parlando del fatto che voglia o non voglia dare un consiglio: non mi costerebbe nulla darne uno! Ma allora perché non faccio le cose più facili e do questo benedetto consiglio? Perchè credo non sarebbe una cosa positiva. Iniziando un lavoro assieme, io non ho asserito da nessuna parte che mi sostituirò alla persona. Anzi. Quello che reputo uno degli obiettivi principali è rendere la persona più consapevole dei suoi passi e delle sue scelte. Lavoreremo assieme per fare di tutto affinchè, focalizzandosi su se stesso, la persona riesca a prendere sempre più e, spero, sempre meglio per lei, delle decisioni che la riguardano. Se io colludessi in questo e mi spingessi ad acconsentire a questo tipo di richiesta, probabilmente la persona si sentirebbe sollevata, alleviata dal peso di dover prendere una decisione, di doversi schierare, ma ad un altro livello, non starei forse confermando l’idea che non è in grado di decidere autonomamente o di prendere liberamente una decisione? Oltretutto, c’è un altro aspetto che non mi piace molto nell’accogliere questo genere di domanda. Riguarda il fatto che, se la accogliessi, implicitamente concorderei con il fatto che ci sia un esperto che sa come devono andare le cose e un altra persona che non sa come deve andare la sua stessa vita. Come posso rinforzare il suo senso di indipendenza, l’essere autonomo dell’altro se anche io posso squalificare questo suo senso di indipendenza dicendogli cosa possa/debba fare della sua vita?
Spero converrete con me che non si tratterebbe di una mossa molto azzeccata. Non serve dunque che io decida per l’altro. Non serve che mi sostituisca ad un altro nel prendere decisioni che riguardano la sua vita. Credo serva, invece, vagliare insieme le diverse possibilità. Rifletterci. Dar loro un senso rispetto alla nostra storia. Ma l’onore e l’onere della decisione devono necessariamente ricadere sulla persona che ho davanti. Non su me. Se mai voleste lavorare con me tenete a mente questo: siete liberi di chiedermi consigli. Ma sono altrettanto libero di cercare di mettere la vostra vita, e le inevitabili decisioni che questa comporta, nelle vostre mani!
E, anche in questo caso, un brano estratto da un’opera di Whitaker descrive in altri termini ciò che volevo comunicarvi: Ho spesso pensato che il vizio peggiore per i terapeuti è dare consigli. E’ un modo per carezzare il nostro io agendo come se effettivamente sapessimo qual’è la via migliore e rinforzando così la posizione di inferiorità del cliente. Può anche essere una proposta seducente, ma ha poco a che vedere con l’obbiettivo della crescita; di fatto, la ostacola con molta efficacia! (…) Ma si tratta di qualcosa di più che essere semplicemente ridicolo o cinico o indifferente. Il processo stesso del mio rifiuto di assumere il comando è in sè un atto di attenzione… Però di genere diverso. Con questa manovra, le dico che non cercherò neanche di dirle che cosa fare, perchè credo che essa possieda tutte quelle risorse necessarie per portare a termine il viaggio. [1]
Che ne pensate?
A presto…
[1] Whitaker, C. (1988), Danzando con la famiglia, Astrolabio, Roma, pag. 118
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Per me si tratta di grande onestà e etica professionale, anche se penso che troppi pazienti siano vittime della dipendenza che alcuni Dottori (inconsapevolmente?) creano fornendo soluzioni pronte.
Anche la mia Dottoressa Carla Sale Musio, ha sempre avuto cura di non dare facilmente consigli, facendo invece in modo che il mio pilota automatico mi guidasse…
anche a mia dottoressa mi rispondeva così! credo sia giustissimo, ora che il mio lavoro è accompagnare le persone nell’elevare la propria consapevolezza… lo capisco bene.
Quante volte davanti ad un bivio vorrei che qualcuno entrasse nella mia testa per dirmi cosa voglio veramente….
… ma le chiavi di quella porta le ho solo io!
credo che la strada stia nella calma e serenità interiori… quando hai il tuo centro di pace… il resto si relativizza, tutto sembra più chiaro…
Ed è proprio la speranza di poter delegare all’altro qualcosa che rende il terreno insidioso. Nel momento in cui lo facessi, confermerei a quella persona l’idea che non ce la possa fare da sola. E invece credo che, sebbene in difficoltà, le persone possano trovare le risorse necessarie in sé. Anche se per trovarle serve, a volte, un ‘aiuto esterno’.
non fa una grinza.. immagino comunque che il paziente cerchi sempre di trovare la risposta migliore nel più breve tempo possibile.. già il fatto di “andare dallo psicologo” lo pone in una posizione di inferiorità rispetto a quest’ultimo, al quale magari per disperazione chiede una soluzione immediata, che però magari non esiste. Se poi oltre al senso di inferiorità aggiungiamo il senso di insicurezza che ne consegue è quasi ovvio che il paziente non creda in se stesso e nelle sue capacità (se così non fosse risolverebbe tutto da sè risparmiandosi anche parecchi soldi). Dunque secondo me nella maggior parte dei casi la molla che spinge una persona a rivolgersi ad uno psicologo è proprio la speranza di poter delegare a lui le decisioni più giuste da prendere e andare sul sicuro. Bastasse quello…