Inizio il nuovo anno con un post dedicato a quelli che sono gli obiettivi della terapia. O per lo meno, quali siano questi obiettivi per come li intendo io. Come possono essere identificati questi obiettivi? Va detto che al primo posto credo ci sia il sintomo che il paziente ha portato. Nella terapia, la prima porta, il primo passo verso quello che è il mondo dei significati e dei simboli della persona è rappresentato dal sintomo. Accogliere questo, cercare di lavorarci, cercare anche di riconoscere il disagio che il paziente manifesta tramite quello, vuol dire entrare nel suo stesso mondo interiore. Questo, ovviamente non vuol dire che subito il sintomo sparirà, come per magia. Vuol dire che, appunto partendo da questo, cercheremo, pian piano, di allargare il focus dell’attenzione sul senso che il sintomo stesso ha nella vita del paziente. Sembra una cosa di poco conto ma, in realtà, è molto importante. Il sintomo è spesso considerato (e spesso lo è!) un fastidio da estirpare, qualcosa del quale fare volentieri a meno. Indubbiamente è così, ma può essere anche considerato il segnale tramite il quale il nostro corpo, o il nostro inconscio cerca di comunicare qualcosa. E’ in quest’ottica che credo vada contestualizzato, dal momento che la semplice estirpazione potrebbe farci perdere un importante punto comunicativo. Spesso, la patogenicità del sintomo è disarmata nel momento stesso in cui la persona lo può contestualizzare nella sua storia di vita. Quando se ne capisce il senso lo si può riconsiderare alla luce della nuova ridefinizione.
Un altro dei punti altrettanto focalizzanti l’intervento, anche se, forse, non perfettamente manifesti, per lo meno inizialmente, riguarda l’indipendenza della persona. Sto parlando, in altre parole, della possibilità che la persona possa apprendere a fare quello che facciamo assieme autonomamente. Possa, in questo senso, ‘curarsi’ da sola apprendendo a focalizzare l’attenzione su alcuni aspetti e depotenziarli o disinnescarli prima che possano diventare fastidiosi se non invalidanti. L’indipendenza, o la tensione verso questa meta, porta poi ad avere non soddisfatti degli aspetti, come per esempio i consigli di cui parlo nel postDottore, cosa devo fare? (20.10.11), che in genere le persone si aspettano di poter avere.
Un altro obiettivo molto rilevante, soprattutto nell’ottica sistemica, è quello di ridefinizione. Si tratta della possibilità di cambiare o modificare la prospettiva su alcune parti della nostra storia, cercando di allargare il focus. Mi spiego meglio. Poniamo il caso di una persona che mi racconta che la madre è una vera e propria piaga, che non gli permette di avere una vita indipendente e soddisfacente. Se stessimo su questo tipo di definizione, e io tenessi per buono quello che la persona mi ha detto, non credo arriveremo da nessuna parte. Anzi forse finirei per ‘credere’ che la madre del mio paziente sia davvero questo incubo. Possiamo lavorarci su, solamente allargando il focus, non limitandoci a descrivere che cosa la madre sia per il paziente, ma quale funzione abbia per il paziente questa percezione della madre. Questo può aprire scenari e prospettive del tutto nuove che possono talvolta integrare, talvolta sostituire, le immagini che noi avevamo di quella parte della nostra vita. Se alla descrizione di prima restituissi che la madre si comporta così perchè non vuole vivere una vita da sola noi avremmo cambiato, e di non poco, la prospettiva. Questa nuova lettura può depotenziare il dolore della vicenda stessa. Se io penso che mia madre sia un’egoista questo ha un valore. Se io penso che mia madre abbia paura, ne acquista uno totalmente nuovo.
Questo è il mio modo di lavorare. Sintomo. Indipendenza. Ridefinizione. Tre punti. Tre piccoli passi per cominciare.
A presto…
Rispondo al post con una frase che condivido profondamente:
“Il compito dell’analista è quello di soffiare sulle braci, per riaccendere le scintille”.(Mitchell 1988)