Il post di oggi riguarda un interessante articolo del Corriere della Sera che tratta il tema del rapporto tra medico e paziente. Secondo uno studio condotto su 21 mila pazienti diabetici, il rapporto che si instaura tra medico e paziente è fondamentale e necessario alla riuscita della terapia. Questo non deve sorprendere, alla luce del peso che i fattori relazionali giocano nel fidarsi o meno del percorso terapeutico che si intraprende. Provate a pensare alla vostra esperienza personale: seguireste più volentieri e più assiduamente una cura prescritta da un medico di cui vi fidate e con il quale avete instaurato un buon rapporto, oppure seguireste comunque la cura anche senza questa premessa? Naturalmente credo che la risposta sia scontata e testimonia appunto dell’importanza che la relazione, un fattore considerato immateriale e non importante nella terapia, perché difficilmente valutabile, viene spesso messa in secondo piano, dopo la cura. In realtà la relazione è da considerare parte importante e fondamentale della cura stessa. In questo gioca un ruolo la capacità del medico di riuscire a stabilire una relazione empatica. Non è scontato e non è un fattore di poco conto.
Empatia è la capacità di relazionarsi con i vissuti e i sentimenti dell’altro, comprendendoli ed accettandoli cercando di rimanere fuori dal giudizio e dalla critica. E’ un aspetto importante nella relazione, ma diventa fondamentale se le due persone coinvolte sono all’interno di una relazione terapeutica. Lo studio, per il quale, qualora lo vogliate vedere, c’è un link diretto alla fine del post, ha rivelato che quelli che avevano un medico empatico hanno seguito meglio le terapie e sono stati ricoverati ben tre volte meno in ospedale per complicanze legate alla loro malattia. Il motivo è che questi malati, secondo lo studio, hanno aderito meglio alle prescrizioni perché sono state spiegate loro con chiarezza e pazienza, e da qualcuno che aveva ottenuto la loro fiducia.
L’empatia del medico è stata valutata tramite questionari che sono stati somministrati ai pazienti. E’ interessante notare come questo aspetto venga annoverato tra i criteri di successo dagli stessi operatori sanitari per cui è forse più evidente come l’importanza della relazione sia parte integrante della cura. Ovviamente la relazione, in una professione come quella sanitaria, comporta un carico emotivo decisamente pesante e complicato da gestire soprattutto per quegli operatori che non hanno competenze o non hanno investito su questo tipo di conoscenza a livello personale (penso soprattutto a reparti con malati gravi o con malattie terminali) può portare a far si che i medici disinvestano sulla relazione per non essere investiti o coinvolti in un aspetto emotivo che può essere impattante da gestire.
La consapevolezza sull’importanza della relazione sta, però, incrinando questo disinvestimento a favore del fatto che la preparazione, esperienza ed aggiornamento devono rimanere (…) le prime qualità da ricercare in professionisti nelle mani dei quali si mette la propria salute, tuttavia, in un periodo in cui la medicina viene sempre più percepita, dagli stessi medici, come fin troppo informata da algidi algoritmi, tecnologia e obblighi amministrativi, l’importanza di stabilire una sintonia emotiva con i pazienti forse dovrebbe essere riscoperta e valorizzata, anche per rivendicare alla professione medica la sua titolarità di «arte».
Insomma, uno studio ed una riflessione interessante sul peso della relazione nel mondo della medicina.
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L’articolo è di Luigi Ripamonti.
Che ne pensate?
A presto…
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forse non sono stata esplicita, ma non sono convinta che ci debba essere per forza un empatia, col proprio medico. Chi avesse di questi problemi, lo cambia. Non è come dallo psicoterapeuta, che il rapporto diventa più diretto, più intimo che col medico di base. Perciò ho menzionato lo specialista. Se si decide di interpellare un medico, lo si ascolta nonostante tutto. Perchè avevamo deciso così fin dal momento che abbiamo accettato di andare da lui, nonostante i suoi modi. NO, non è necessario avere un empatia. Almeno per me. Graziella, Genova
intanto, gentile dott Boninu, c’è da puntualizzare: se non si va dal medico di base si va da uno specialista, per cui non si ha alcun rapporto, tranne quello monetario. Mentre il fattore empatia è più da riscontrare col medico di base, detto anche medico di fiducia. Ad ogni modo anche qui, vale il concetto di relatività. Infatti un luminare può soddisfare un paziente come non soddisfarne un altro. E allora uno andrà decantando la bravura e la competenza del suddetto. Mentre l’altro ne parlerà in modo canzonatorio. Analogamente, un ciarlatano potrà avere le parole che il paziente voleva sentirgli dire … e questo diventa un luminare. Magari dopo avergli somministrato un cucchiaio di caramello. Che magari un giorno venderà come bevanda, come fecero con l’attuale coca-cola. Un fattore che reputo fuorviante per il medico sono le pubblicità ai farmaci. La pubblicità, a mio parere, sminuisce la professionalità del medico. Ad ogni modo la fiducia si stabilisce col tempo. Noi non siamo la generazione dei discorsi-comizio, dei paroloni. Noi valutiamo le persone dai fatti, a costo di trattare con soggetti bruschi. Che poi magari trattano a seconda dei casi: con chi abbisogna di rassicurazioni sono accomodanti; con gli stupidi sono bruschi, con i bulli sono … e così via. Un caro saluto da Genova