Questa riflessione scaturisce da una frequente osservazione: la differenza che esiste tra quello che mi raccontano i genitori e quello che mi raccontano i ragazzi una volta che vengono in studio. Provo a spiegarmi meglio. Quando inizio a lavorare con persone nuove, e la richiesta riguarda un minore, ho un ‘protocollo’ abbastanza collaudato: fisso prima un appuntamento coi genitori e i successivi col ragazzo. In questo primo incontro con i genitori, può capitare che mi raccontino dei problemi del figlio ed è su questa loro percezione che si augurano venga svolto il lavoro con il ragazzo (o ragazza, naturalmente): per esempio il ragazzo può avere, a loro dire, problemi di aggressività, oppure problemi a scuola, problemi di socializzazione, problemi di autostima e così via.
Quale che sia il problema, i genitori danno la descrizione della situazione dei figli dal loro punto di vista, sostanzialmente il punto di vista di persone adulte. Può anche capitare che i punti di vista non coincidano tra i due genitori, e si apre una fonte ulteriore di complessità che non affronterò in questo post. Tornando a noi, il secondo appuntamento è riservato ai ragazzi: i ragazzi mi raccontano quello che succede dal loro punto di vista e, nella maggior parte dei casi, se non forse in tutti, questo racconto è completamente diverso da quello che mi è stato fatto dai genitori e quelli che nel racconto dei genitori sembravano i problemi più grandi, spesso non lo sono per bocca dei diretti interessati.
Questo punto è di fondamentale importanza e credo testimoni diverse cose: genitori e i figli non condividono la causa, il perché che ha determinato quella data situazione. Non solo: capita che esista una discrepanza enorme tra il racconto del genitore e ciò che raccontano i ragazzi, ma capita altrettanto spesso che i ragazzi abbiano difficoltà e non riescano a definire quale sia la loro difficoltà. Magari si rendono conto che hanno delle difficoltà: possono, per esempio, pensare di avere una difficoltà con la propria autostima o con la propria aggressività, ma spesso non riescono ad individuare il punto che reputano più importante o mancano del tutto le parole per descrivere il malessere di quel momento. Capita anche che le parole che vengono utilizzate siano vaghe, oppure che contengano un forte giudizio nei loro stessi confronti: ‘sono scemo’, ‘sono sbagliato’ o ‘non valgo nulla’ sono solo alcune delle frasi che vengono utilizzate per descriversi. Parole, come abbiamo detto, severe e svalutanti, ma in fin dei conti non adatte per descrivere quelle che sono le loro emozioni e i loro sentimenti in quella fase della loro vita.
Questo aspetto mi colpisce perché testimonia come siano loro stessi a non riuscire a trovare le parole che descrivano quello che stanno attraversando. Ritengo che questa sia una delle parti più rilevanti della loro difficoltà, perché nel momento in cui mancano le parole che descrivono lo stato, non si ha neanche la capacità di immaginare una soluzione per quel tipo di problema. Quello che faccio è invitarli a parlare, invitarli innanzitutto a fare uscire le immagini che loro possiedono sulla loro attuale situazione e, partendo da queste, cercare di far loro assomigliare e precisare l’immagine, cercando di renderla il più precisa e dettagliata possibile, di modo che si attivino nuovi pensieri, precisazioni delle/sulle loro convinzioni, riflessioni che abbiano come obiettivo quello di spronarli a tirare fuori termini migliori per descrivere l’istante nel quale si trovano. Credo sia di fondamentale importanza per far stabilire loro cosa sia vero e cosa non lo sia, cosa ci sia nella loro evoluzione, quali immagini di se stessi vadano aggiornate e quali immagini possano essere archiviate perché ormai appartengono inesorabilmente al passato.
Credo sia una delle mie grandi prerogative: aiutarli a dare un nome, a dare un ‘volto’, se vogliamo, alle emozioni che stanno attraversando, cercando di farli riflettere sul fatto che quelle che usano per descriversi non sono solamente parole, prive di senso, ma che abbiano una fortissima valenza nel caratterizzare quello che è il loro sentire, nei confronti di loro stessi prima che con gli altri.
Perché sono sempre più convinto di quanto la discrepanza tra come si raccontano e come si percepiscono sia legata spesso al disorientamento e al turbamento che provano. E perché dare un nome e un ‘volto’ a quello che si prova e, in ultima istanza, alle proprie emozioni, può essere il primo passo che permetta la condivisione e la comunicazione di quello che si sta provando, condivisione che può, di fatto, avvicinare genitori e figli e rendere meno marcata la differenza tra come si raccontano loro e come li raccontano i genitori.
Come sempre chi volesse/potesse condividere la sua esperienza può farlo contattandomi per mail (fabrizioboninu@gmail.com) oppure per telefono (3920008369).
Che ne pensate?
A presto…
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gentile dott. Boninu, ho vissuto qualcosa da bambina, che mi sembra attinente: quello che ho appena letto temo sia il solito ‘conflitto generazionale’. I genitori vedono il problema dal loro punto di vista, i ragazzi non lo vedono come un problema, oppure non è un ‘loro’ problema, semmai, un’ esagerazione dei genitori (o della madre ansiosa). La loro autostima si forma con i messaggi che si percepiscono dai genitori. Nel suo caso mi permetterei di consigliare di dare più credito ai diretti interessati, che ai genitori. Arrivando al mio caso specifico,ho subito le ansie di mia madre, la quale, mi ha urlato in svariate occasioni che ero una ‘scema’, al punto che ho creduto di essere una sorta di ‘down’. Questo per farle capire come, talvolta, si subisce un messaggio, nel senso che, ne sono convinta, la mia mamma non volesse darmi della anormale; tuttavia mi ha inculcato questa differenza tra me e la mia maggiore, che, a differenza, era spesso valutata in modo positivo. Purtroppo questo conflitto con la mamma non si è mai risolto. Ancora fino a poche settimane fa ho avuto la sensazione di poca valutazione, malgrado ho 55 anni. Eppure mi sono sbattuta da dove abito fino da lei per farle compagnia, insieme alle mie sorelle …facendo un ora e mezza di treno, perchè era andata vicino alla mia sorella maggiore, in un pensionato per anziani, e quindi ricoverata in un ospedale di zona, alcune volte, prima che … morisse, dieci giorni fa. Non so se sono io a non avere risolto il mio conflitto; ma la mamma non mi ha mai trattato con i guanti, per così dire. E con mia figlia, che l’ha accudita come una badante, fino ad un anno e mezzo fa, ha adottato pressappoco lo stesso trattamento…. non mi dilungo oltremodo, se le fa piacere, se le può sembrare una storia interessante, mi faccia le domande che riterrà, le risponderò volentieri. Un carissimo saluto da Genova.