PEDOFILIA: intervista a Massimiliano Frassi

abuso

Il tema che affrontiamo in questo post è un tema duro, complesso e disturbante. Parliamo di pedofilia e lo facciamo con una persona che se ne occupa da parecchi anni e in diversi contesti. Una di quelle persone preziose che, anziché ritrarsi inorridito da questo baratro, ha deciso di guardarci dentro e a fondo, cercando di illuminarne gli anfratti, di chiedere e chiedersi il perché, di portare alla luce tutti gli elementi che avvicinano questo baratro a noi e alle nostre storie. Una persona che ha cercato di svegliare le coscienze intorpidite dalla paura e dall’orrore, coscienze che spesso si voltano, con le pericolose conseguenze che ne discendono, pur di non vedere una realtà spaventosa. Sto parlando di Massimiliano Frassi, autore di diversi bestseller sul tema della pedofilia, organizzatore con l’associazione Prometeo del coordinamento nazionale delle vittime di abuso. Ci racconterà meglio lui la sua storia e il suo percorso. Per quanto riguarda la mia storia, mi sto occupando sempre più spesso di questo tema, inserito all’interno della distorsione adultocentrica della nostra società e, in questo mio percorso di conoscenza e approfondimento, ho avuto la fortuna di incontrare Massimiliano ad un convegno organizzato dalla fondazione Domus de Luna (clicca sul nome per visualizzare la pagina della fondazione) a Cagliari.

Scomodo, emozionante, pungente, disturbante, sconvolgente, sono solo alcuni degli aggettivi che mi vengono in mente per descrivere il convegno. E, forse, adatti per descrivere Massimiliano stesso. 

Parlare di materie così complesse mette in difficoltà, costringe a confrontarci con una realtà impossibile solo da immaginare. Una realtà che, invece, esiste e che, su questa nostra difficoltà, prospera e cresce. Una realtà misconosciuta, dove giocano anche stereotipi e pregiudizi che, con l’aiuto di Massimiliano, cercheremo di vagliare. 

Ciao Massimiliano, benvenuto e grazie per aver accettato l’invito e parlare con me di un tema che ti/ci sta tanto a cuore. Dopo la mia breve presentazione, vogliamo darne una più approfondita per chi non conoscesse il tuo lavoro: chi sei e di cosa ti occupi?

Sono il responsabile di Prometeo Onlus, una associazione, da me fondata circa 20 anni fa e tra le più attive, in Italia, nel campo della lotta alla pedofilia. Da una parte siamo operativi e diamo assistenza e tutela alle vittime, molte delle quali adulte che solo oggi trovano la forza e la possibilità di parlare e chiedere aiuto e dall’altra parte facciamo formazione e sensibilizzazione affinché l’omertà che protegge chi abusa sia definitivamente annientata.

La prima curiosità è: come sei arrivato ad occuparti di un tema così forte come la pedofilia?

Non per aver subito abusi io stesso, semmai per poter dare agli altri la stessa infanzia che ho avuto io. Professionalmente parlando è stata parte di un percorso, partito con una scelta di vita che mi ha portato ad operare prima come operatore di strada, che si occupava di emarginazione grave e poi di minori, specializzandomi e fondando la Prometeo.

Che realtà è la pedofilia oggi?

La realtà di sempre. Che vede un abusante e buona parte della società, abilmente impegnati a zittire un bambino. Per potergli nuocere.

All’interno del tuo intervento, mi ha colpito come tu sia riuscito a mettere in discussione alcuni stereotipi ben radicati. Il primo è che, nell’immaginario collettivo, la pedofilia sia un fenomeno prettamente maschile. É proprio così?

Purtroppo da alcuni anni a questa parte assistiamo ad un fiorire di una pedofilia al femminile. Numericamente minoritaria, con percentuali molto basse, ma pesanti “qualitativamente”. Perché quando è la mamma ad abusare, ad es., è chiaro che le ferite saranno ancora più profonde.

Altro stereotipo: gli abusanti sono spesso stati abusati a loro volta. Possiamo confermarlo?

Sì, ma non lo dico io, anche se 20 anni di esperienza mi danno il potere di poterlo gridare forte. Lo dicono tutti i trattati scientifici che hanno davvero studiato questa assurda equazione. Creata dai pedofili per, in qualche modo, difendersi, tutelarsi e nuovamente infangare le vittime. Poi può capitare che su un numero elevatissimo di vittime ci sia chi diventa pedofilo, ma se c’è è davvero un numero bassissimo che non rende tale equazione reale. Chi lo sostiene dimostra di non aver mai lavorato nel campo dell’abuso ma ancora prima, dimostra di non aver rispetto delle vere vittime.

Sapessi quante donne seguo che hanno paura di rimanere incinta perché “magari poi diventano pedofile e fanno provare al proprio figlio quanto hanno provato loro” e questa mala educazione, gliel’ha inculcata chi doveva guarirle. Non renderle vittime a vita.

Ancora: il pedofilo è un mostro, una sorta di orco facilmente identificabile. Cosa c’è di vero?

Nulla. È ovviamente mostruoso l’atto che compie. Ma se cerchiamo l’orco, così come pensiamo lo sia, non lo vedremo mai nel bravo vicino di casa, nello zio affettuoso, nel maestro severo ma presente, nel parroco pacioccone.

Ho letto il tuo lavoro ‘Il libro nero della pedofilia‘ e le cifre sono spaventose. Credi sia un fenomeno in aumento o stia semplicemente affiorando sempre più in superficie?

Forse entrambe le cose.

Oggi se ne parla poco ma sicuramente molto più di quando iniziammo anche solo 20 anni fa. Poi c’è internet, con il suo lato oscuro e la possibilità di avere accesso a materiale che farebbe uscire di testa qualsiasi essere umano, ma che a loro dà piacere. Ed a lungo andare si stuferanno della “sola” foto e passeranno al contatto diretto. Poi ancora oggi c’è la possibilità di fare viaggi dall’altro capo del mondo, con spese irrisorie rispetto ad una volta e comunque alla portata di tutti, che favoriscono i turisti sessuali, cacciatori di bambine e bambini coetanei dei figli che lasciano a casa.

Sono tutte varianti che portano allo stesso punto: il progresso di questa civiltà ha paradossalmente portato ad una regressione di parte della stessa. In parole spicce, se da una parte siamo andati sulla Luna, dall’altra siamo tornati a Jurassic Park.

In questo giocano un ruolo enorme le nuove tecnologie: social network, smartphone rendono la pedofilia più ‘facile’ e ‘fruibile’? 

Sì, purtroppo sì. Molto banalmente: pensiamo a cosa voleva dire per un pedofilo dover far sviluppare un rullino con delle immagini di abusi da lui prodotte. E pensiamo oggi con il più piccolo smartphone cosa non si può fare.

Quali sono le aree geografiche più interessate al fenomeno?

È un fenomeno trasversale. Che tocca tutte le sfere della società. Non certo solo le aree più povere. Poi di sicuro se dobbiamo fare una analisi “geografica”, posso dire che ci sono aree dove il retaggio culturale ancora favorisce il silenzio. L’omertà. Ma questo vale nel paesino del bresciano, come in quello del cagliaritano.

La pedofilia è una realtà percepita come distante dalla nostra vita quotidiana. Queste sono cose che succedono agli altri, lontani da noi. Noi, e i nostri figli, siamo ‘al sicuro’. E funziona fino a quando un caso cruento di cronaca nera scuote le coscienze. Penso al caso di Yara Gambirasio. O del piccolo Tommaso Onofri. Come possiamo stare attenti a quello che succede intorno a noi?

Questo non è un paese per bambini. Lo grido, disperatamente, da tempo. Basandomi su fatti concreti. Avrei preferito che i fatti mi smentissero. Che i pazzi fossimo noi. Ma purtroppo così non è stato. E la piccola Yara o il nostro angioletto Tommaso, sono solo la punta dell’iceberg. Bimbi strappati dal loro mondo. E sottratti al nostro futuro. Sarebbero diventati dei grandi adulti, in grado di fare grandi cose. Ma qualcuno ha scelto che così non fosse e l’ha deciso con la violenza.

Pensare a loro come fossero figli nostri, forse la risposta sta proprio lì….loro ovviamente in rappresentanza di Salvo, Roberto, Susanna, Lucia, Silvia, Carolina, Alex, Giovanni, Massimo, Rosaria, Andrea, e via dicendo per un elenco di bambini numericamente elevatissimo. Bimbi non finiti per fortuna sul tavolo di un obitorio, ma morti dentro. Fino a quando non troveranno chi riaccenderà in loro la speranza e la voglia di vivere.

C’è, tra i diversi casi che ha seguito personalmente, un caso che ti ha coinvolto più degli altri?

No. Ognuno ha la sua importanza. Ognuno il suo dolore. Poi sì, di sicuro c’è quello che ti resta più dentro, per vari motivi, ma ripeto sono tutti uguali e tutti meritano lo stesso posto e lo stesso rispetto.

La pedofilia spaventa e atterrisce perché è un fenomeno di proporzioni enormi. Nel nostro quotidiano, cosa possiamo fare noi?

Informarci. Ed indignarci. Non chiediamo molto, non credi? Peraltro lo facciamo per mille cose futili. Farlo per qualcosa di serio, non sarebbe male. E sarebbe ora!

C’è qualcosa che non ti ho chiesto che mi vorresti dire? 

Sì, se c’è vita, un futuro dopo l’abuso. E la risposta è: “certo che c’è. Si può e si deve tornare a vivere. E quando accade, ed accade sempre, è meraviglioso!”.

Parola di Massimiliano Frassi.

Ringrazio di cuore Massimiliano per essersi prestato alle mie domande. Il tema è vasto e mi riprometto di tornarci. Chi fosse interessato può visitare il blog di Massimiliano: potete cliccare sul link L’INFERNO DEGLI ANGELI e verrete reindirizzati al sito. Consiglio vivamente anche la lettura dei suoi testi (trovate tutta la bibliografia sul sito L’inferno degli angeli), tra tutti il già citato Il libro nero della pedofilia con prefazione di Alessia Sinatra ed edito da La Zisa. 

Come sempre chi volesse/potesse condividere la sua esperienza può farlo contattandomi per mail (fabrizioboninu@gmail.com) oppure per telefono (3920008369). 

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

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Bullismo omofobico: risponde il dr. Jimmy Ciliberto

bullismoIl post di oggi ha come tema un fenomeno che ha radici profonde ma che, complici alcuni fatti di cronaca con risvolti particolarmente tragici, è diventato argomento dibattuto nelle cronache nazionali. Sto parlando del bullismo omofobico e questa attenzione testimonia una maggiore sensibilità dell’opinione pubblica su temi legati alla violenza omofoba, argomento, questo, che possiamo considerare strettamente legato al dibattito più ampio che interessa la possibile approvazione in parlamento di una legge che regoli le unioni civili. Ma torniamo a noi: cosa si intende con il termine bullismo omofobico? Sostanzialmente consiste in atteggiamenti o comportamenti violenti tramite i quali una persona viene presa di mira da un coetaneo (o da un gruppo organizzato di suoi coetanei) in una relazione all’interno della quale il rapporto di potere non è paritario. La persona prescelta viene oppressa con vari atteggiamenti (derisione, minacce, insulti, esclusione…) ed il pretesto per l’attacco è dato, appunto, dalle scelte sessuali o dall’orientamento sessuale (reale o presunto) della vittima.

Per parlare di questo importante tema ho pensato di rivolgermi ad una persona che, per professione, è un conoscitore della materia. Mi riferisco a Jimmy Ciliberto, psicologo, psicoterapeuta, autore, insieme ai colleghi Paolo Rigliano e Federico Ferrari del testo Curare i gay?, edito da Cortina. Jimmy da tempo dedica la sua attenzione a tematiche legate all’orientamento sessuale e all’identità di genere. Chi volesse ulteriore dettagli sul libro può cliccare qui mentre chi volesse saperne di più sul dr. Ciliberto può cliccare qui.

Ciao Jimmy, innanzitutto grazie per aver accettato l’invito e benvenuto! Direi di partire dalla definizione di bullismo omofobico: come potremo descriverlo?

Ciao Fabrizio e grazie a te per il tema che hai deciso di trattare.

Possiamo definire generalmente bullismo omofobico quell’insieme di comportamenti apertamente squalificanti e discriminatori assunti da una o più persone nei confronti di un ragazzo o di una ragazza omosessuale (o solo considerati tali), proprio a causa del loro presunto o reale orientamento non eterosessuale. Questa è però una definizione molto generale, per quanto utile a capire di cosa stiamo parlando. Penso che il fenomeno sia molto più complesso, e come tale vada trattato, altrimenti si rischia di considerarlo come una nuova etichetta diagnostica che riguarda solo la persona che mette in atto il comportamento vessatorio.

Io preferisco parlare di contesti eterosessisti che favoriscono, a diverso grado, un insieme di dinamiche che hanno l’effetto di far sentire la persona non eterosessuale (o presumibilmente tale) sola, impotente, isolata, colpevole, proprio per le caratteristiche che la rendono unica.

Penso inoltre che le dinamiche discriminatorie non siano elicitate tanto dall’orientamento non eterosessuale in sé, quanto da tutti gli aspetti che rimandano ad una idea di maschio e femmina che sfida la dicotomia esistente.

In base alla tua esperienza, è una realtà diffusa oppure un fenomeno di nicchia?

Purtroppo constato ancora che negli ultimi anni della scuola primaria e nella scuola secondaria di primo grado, quelli durante i quali nascono le situazioni di bullismo omofobico, la situazione è stagnante. Le parole che rimandano alla non eterosessualità di una persona vengono usate come presa in giro e insulto, pochissimi insegnanti si sentono competenti e a proprio agio nel parlare di queste tematiche, e l’idea che un proprio alunno o una propria alunna possano essere omosessuali continua a rimanere, nella maggior parte delle situazioni, una “non idea”.

Diversa è la situazione nella scuole secondarie di secondo grado, dove emergono differenze significative tra Istituti e Istituti. Affianco a contesti non dissimili a quelli di cui sopra, esistono realtà (principalmente nei grandi centri urbani) che accolgono la diversità, sia tra pari che con gli adulti.

Cosa provocano questi attacchi alla persona colpita?

Come ho detto prima, questi comportamenti hanno l’effetto di far sentire la persona non eterosessuale (o presumibilmente tale) sola, impotente, isolata, colpevole, proprio per le caratteristiche che la rendono unica. Se la persona vive poi in un contesto che sente come non sufficientemente supportivo, od addirittura collusivo con quello che a scuola lo discrimina, possono esserci conseguenze più complesse che possono andare dallo sviluppo di una sintomatologia ansioso-depressiva, all’assunzione di comportamenti a rischio, od anche (raramente per fortuna) all’ideazione suicidaria.

E quali sono le reazioni più comuni a questo tipo di discriminazioni?

Parlare di reazioni comuni è molto difficile, possiamo però affermare che sono ancora troppe le situazioni in cui c’è collusione, soprattutto tra i pari, o sottovalutazione della portata del problema da parte degli adulti.

La maggior parte di questi episodi avviene durante la preadolescenza e l’adolescenza, età nelle quali i ragazzi sono per molto tempo a scuola. Prendiamo in considerazione come si comportano gli altri attori di questa istituzione: gli insegnanti come affrontano questi episodi?

Purtroppo non ci sono risposte omogenee: a fronte di docenti che affrontano la situazione in maniera complessa, promuovendo discussioni con i ragazzi, parlando con le famiglie, attivando anche risorse extra qualora necessario (progetti educativi, supporti psicologici etc), troviamo anche insegnanti che si limitano ad intervenire in maniera punitiva, oppure altri ancora che non intervengono perché sentono di non avere gli strumenti o perché pensano che non rientri tra le loro mansioni.

Mentre le scuole come istituti che fanno?

Ritroviamo la stessa eterogeneità di cui sopra. Alcune scuole non prendono minimamente in considerazione la questione, altre organizzano momenti di riflessione a prescindere dalla presenza o meno di comportamenti discriminatori.

All’interno della famiglia, come pensi dovrebbero comportarsi i genitori dei ragazzi presi di mira? 

Rassicurare i figli che il loro amore prescinde dall’orientamento sessuale e dall’identità di genere, mettersi in posizione d’ascolto e chiedere ai figli stessi cosa possano fare per aiutarli. È fondamentale che i ragazzi e le ragazze sentano di valere, soprattutto per la propria famiglia d’origine.

Mentre le famiglie dei bulli a cosa dovrebbero prestare attenzione?

Non mi piace pensare alle famiglie dei bulli, ma alle famiglie in generale, che a loro volta sono parte di comunità locali via via più ampie. Dobbiamo fare lo sforzo di uscire di modalità di azione basata sulla risposta alle urgenze, in maniera parcellizzata, ed iniziare ad abbracciare una modalità di pensiero e azione più sistemica e dialogica.

Hai dei suggerimenti da dare agli attori coinvolti in queste vicende per affrontare episodi di questo tipo?

Come dicevo prima, ascoltare questi ragazzi, vederli, restituire in maniera forte il fatto che loro valgono per la loro straordinaria unicità.

Alle famiglie e alle scuole, invece, il mio invito è quello di rendere chiaro, nelle loro comunicazioni e nelle loro azioni, che una persona vale ed è unica a prescindere dal proprio orientamento sessuale .. un modo semplice, ma potente è quello di usare una comunicazione che non dia per scontato l’eterosessualità di una persona, mai …

Come possiamo collaborare per far si che episodi come questi diventino sempre più ostracizzati?

Penso che le azioni da compiere debbano essere più che altro nella direzione di renderli sempre meno sensati ed attraenti. Come dicevo sopra, penso sia fondamentale lavorare con gli insegnanti, di ogni ordine e grado, e con coloro che formano gli insegnanti, nei contesti universitari e post universitari, affinché interiorizzino sempre più profondamente un cambio di premesse, tale da consentire una comunicazione, nell’accezione più ampia del termine, che veicoli il messaggio che anche le persone non eterosessuali sono presenti nelle loro teste, indipendentemente dal fatto che ci sia una persona esplicitamente glb.

 

Ringrazio di cuore Jimmy Ciliberto per la disponibilità nell’essersi prestato alle mie domande. Il tema naturalmente è vasto e ci torneremo ancora con altri interventi. Credo sia un ulteriore, importante passo per introdurre questo argomento in un dibattito che coinvolga più spazi possibili.

Se ci fossero persone interessate a testimoniare o a condividere la loro esperienza, naturalmente in forma assolutamente anonima (a meno che non desiderino il contrario!), possono contattarmi telefonicamente (3920008369) o per mail (fabrizioboninu@gmail.com).

Come sempre fatemi sapere che ne pensate.

A presto…

Fabrizio Boninu

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FILM: Hungry hearts

hungry heartsEccomi a raccontarvi uno dei film forse più disturbanti visto da un po’ di tempo a questa parte. Il tema è abbastanza complesso e ricco di sfaccettature. Un film che mi ha colpito molto sia per il tema trattato, che per la bravura di regista e attori.

Il film in questione si intitola Hungry hearts, letteralmente Cuori affamati, scritto e diretto da Saverio Costanzo, e interpretato con straordinaria bravura da Alba Rohrwacher nel ruolo di Mina e Adam Driver nel ruolo di Jude.

Il film racconta la storia di Mina e Jude, due giovani il cui primo incontro avviene in maniera abbastanza imbarazzante ma che costituisce una sorta di presagio a quello che capiterà tra i due. Nella prima parte, viene raccontata la genesi del loro rapporto, dall’episodio nel bagno del ristorante giapponese fino alla costruzione del loro rapporto. 

Dopo qualche tempo arriva con loro, ma soprattutto tra loro, un figlio. Questo fattore costituisce il punto di rottura nei rapporti tra i genitori. Il bimbo, anziché costituire un ulteriore legame nella relazione genitoriale, si frappone fra i due genitori diventando causa scatenante delle ossessioni della madre. Mina, inizia gradualmente a chiudersi nel rapporto col figlio tagliando fuori il mondo esterno sotto tutti i punti di vista. Per cercare di garantire la purezza del figlio, arriva a non fargli mangiare altro se non cibo di sola origine vegetale che lei stessa coltiva su una sorta di serra sulla terrazza di casa. Il bambino non viene portato mai fuori: il mondo esterno è percepito come ostile, pericoloso, avvelenato. Da evitare. La loro casa diventa un piccolo mondo asfittico, deformato nelle stesse inquadrature dei personaggi che assumono contorni sformati ed alterati. Anche la relazione tra madre e piccolo diventa sempre più esclusiva e in Mina aumentano le difficoltà anche a far toccare il bambino dal padre che, venendo ogni giorno a contatto col mondo esterno, è sempre più contaminato. Il rapporto con Jude inizia a farsi complicato. La vitalità che sorreggeva il loro rapporto si è tramutata ormai in un clima di pericoloso sospetto, nel quale entrambi attribuiscono all’altro la pericolosità per la salute del bambino. La loro vita di coppia, finanche la loro vita sessuale è tramontata sotto la scure pesantissima dell’ossessione. Jude si rende conto del fatto che il comportamento di Mina è sempre più pericoloso e riesce, con una sorta di sotterfugio, a far visitare di nascosto il bambino da un medico che ne constata il grave stato di denutrizione e il mancato accrescimento. Questo provoca una sempre più forte perdita di fiducia tra entrambi i genitori, una perdita di sfiducia che sfalderà inesorabilmente il noi coniugale a favore di due io contrapposti, sublimati nelle frasi di Mina ‘Io so cosa è meglio per lui’ o in ‘tu hai fatto male a mio figlio’. Fine del noi, fine del nostro. Il contrapporsi di due visioni completamente differenti su cosa sia proprio fare, sfocerà in un esito che evito di raccontarvi per non rovinarvi il film.

Come dicevo, il film mi ha particolarmente colpito per l’apparente discrasia che esiste tra le intenzioni della mamma, quella di fare il bene del proprio figlio, ed i risultati manifesti. La nascita e la crescita del figlio diventano  vere e proprie ossessioni: il mantenimento della purezza del bimbo diventa lo scopo ultimo dietro al quale deve attendere tutto, persino la sua vita, tanto che si annulla nella crescita di questo bambino.

Ho letto che molte persone, in questo film, hanno visto una critica all’alimentazione vegetariana soprattutto se destinata ai bambini. Non sono d’accordo, non credo sia questo il punto principale della narrazione. Credo che il tema principale sia: cosa succede quando un figlio diventa l’unica ragione di vita? Cosa accade quando l’amore è solo un pretesto e un figlio è solo il modo per creare un senso alla nostra vita? In tutto il film aleggia una fortissima solitudine che accentua ancora di più lo spaesamento dei protagonisti. Ambientato a New York, alienante di per sé come ogni grande metropoli, i protagonisti si trovano a muoversi da soli, non circondati da una rete di relazioni né amicali né familiari che possano costituire per loro motivo di sicurezza. Solo la mamma di Jude avvicina i due giovani nella loro vicenda. La storia familiare di Mina è molto sfilacciata. Orfana di madre, ha un padre che non vede mai e con il quale non è in buoni rapporti. Questa potrebbe essere una delle chiavi che possano far ‘comprendere’ ciò che poi Mina attua con suo figlio: un bimbo che ci ama come la cosa più preziosa del mondo non può che riscattare una vita nel quale l’amore è stato così assente. E nessuno correrebbe il rischio di inquinare la sola fonte di amore che sente di avere. Ed è necessario esercitare un forte controllo sulla fonte, un fortissimo possesso, in grado di riscattare una vita che ha avuto così poco emotivamente.

Ripeto, un film profondo e disturbante, sicuramente un film che non lascia indifferenti e costringe a riflettere su quelle che sono le conseguenze dell’amore, o meglio sulle conseguenze del mancato amore, quando tutto quello che sembra dare un senso alla nostra vita è quello di aggrapparsi all’amore delle persone che riescono a fornircelo nel modo più incondizionato: i bambini. Finendo, in questo attaccamento, per perdere di vista il valore più importante: il loro bene.

Se l’aveste visto e voleste condividere le vostre impressioni lasciate un commento o contattatemi per mail (fabrizioboninu@gmail.com). 

A presto…

Fabrizio Boninu

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La persecuzione del bambino

violenza sui bambini

Tra i temi dei quali amo scrivere e occuparmi, una menzione particolare andrebbe fatta per i bambini e gli adolescenti. Il lavoro in loro compagnia è fonte di continue scoperte ed è spesso grazie all’incontro con le loro esigenze che le mie opinioni si affinano e migliorano.

Non sempre è stato così e, soprattutto all’inizio, mi sono trovato imprigionato all’interno di un’ideologia ‘adultocentrica’ che mi ha messo in difficoltà rispetto al confronto con i bambini e con i ragazzi. Rimuovendo tutto ciò che siamo stati e tutto ciò che abbiamo subito da bambini, una volta cresciuti costruiamo un modo di pensare che colloca l’adulto in una posizione privilegiata: questo ostacola la comunicazione e l’ascolto e fa si che idee quali superiorità, durezza, insensibilità, violenza, maltrattamento e costrizione si frappongano all’ascolto aperto e autentico della loro verità.

In questo senso, mi ha impressionato il libro dal quale ho tratto il brano che vi riporto. Scritto da Alice Miller, psicologa e psicoterapeuta svizzera, la quale si occupò, in quasi tutte le sue opere, della relazione tra i maltrattamenti subiti da bambini e i successivi maltrattamenti inflitti, una volta che questi bambini sono diventati adulti, alla generazione successiva. Nei suoi scritti la Miller arrivò a criticare pesantemente la psicoanalisi freudiana che, secondo l’autrice, costituisce un’ulteriore rimozione rispetto alle violenze subite dai bimbi in nome di alti principi come l’educazione. Il brano, riportato integramente, è tratto dall’opera La persecuzione del bambino (trovate tutti i riferimenti bibliografici alla fine del post) e costituisce una sorta di manifesto del processo che, partendo dall’infanzia, fa di ognuno di noi le vittime delle coercizioni subite da bambini che si perpetuano una volta che quel bambino sia diventato, a sua volta, adulto. Solo partendo da questa consapevolezza è possibile avvicinare, guardando con occhi diversi, il mondo dell’infanzia di oggi. Personalmente, soprattutto nel mio lavoro, reputo questa attenzione e questa consapevolezza la rappresentazione di ciò che un terapeuta attento dovrebbe avere in mente nel momento in cui ha la fortuna di lavorare con un bambino o con un ragazzo:

1) Ogni bambino viene al mondo per crescere, svilupparsi, vivere, amare ed esprimere i propri bisogni e sentimenti, allo scopo di meglio tutelare la propria persona.

2) Per potersi sviluppare armoniosamente, il bambino ha bisogno di ricevere attenzione e protezione da parte di adulti che lo prendano sul serio, gli vogliano bene e lo aiutino onestamente a orientarsi nella vita.

3) Nel caso in cui questi bisogni vitali del bambino vengano frustrati, egli viene allora sfruttato per soddisfare i bisogni degli adulti, picchiato, punito, maltrattato, manipolato, trascurato, ingannato, senza che in suo aiuto intervenga alcun testimone di tali violenze. In tale modo l’integrità del bambino viene lesa in maniera irreparabile.

4) La normale reazione a tali lesioni dell’integrità sarebbe di ira e dolore, ma poiché in un ambiente simile l’ira rimane un sentimento proibito per il bambino e poiché l’esperienza del dolore sarebbe insopportabile nella solitudine, egli deve reprimere tali sentimenti, rimuovere il ricordo del trauma e idealizzare i suoi aggressori. In seguito non sarà più consapevole di ciò che è stato fatto.

5) I sentimenti di ira, disperazione, desiderio struggente, paura e dolore – ormai scissi dallo sfondo che li aveva motivati – continuano tuttavia a esprimersi in atti distruttivi rivolte contro gli altri (criminalità e stermini) o contro se stessi (tossicomania, alcolismo, prostituzione, disturbi psichici, suicidio).

6) Vittime di tali atti vendicativi sono assai spesso i propri figli, che hanno la funzione di capri espiatori e la cui persecuzione è ancora sempre pienamente legittimata nella nostra società, anzi gode persino di alta considerazione, non appena si autodefinisca ‘educazione’. Il tragico è che si picchiano i propri figli per non prendere atto di ciò che ci hanno fatto i nostri genitori.

7) Perché un bambino maltrattato non divenga un delinquente o un malato mentale, è necessario che egli, perlomeno una volta nella vita, incontri una persona la quale sappia per certo che ‘deviante’ non è il bambino picchiato e smarrito, bensì l’ambiente che lo circonda. La consapevolezza o l’ignoranza della società aiutano, in tal senso, a salvare una vita o contribuiscono a distruggerla. Di qui la grande opportunità che viene offerta a parenti, avvocati, giudici, medici e assistenti sociali di stare, senza mezzi termini, dalla parte del bambino e di dargli la loro fiducia.

8) Finora la società proteggeva gli adulti e colpevolizzava le vittime. Nel suo accecamento, essa si appoggiava a teorie che, corrispondendo ancora interamente al modello educativo dei nostri nonni, vedevano nel bambino una creatura astuta, un essere dominato da impulsi malvagi, che racconta storie non vere e critica i poveri genitori innocenti, oppure li desidera sessualmente. In realtà, invece, non v’è bambino che non sia pronto ad addossarsi lui stesso la colpa della crudeltà dei genitori, al fine di scaricare da loro, che egli continua pur sempre ad amare, ogni responsabilità.

9) Solo da alcuni anni, grazie all’impiego di nuovi metodi terapeutici, si può dimostrare che le esperienze traumatiche rimosse nell’infanzia vengono immagazzinate nella memoria corporea e che esse, rimaste a livello inconscio, continuano a esercitare la loro influenza sulla vita dell’individuo ormai adulto. I rilevamenti elettronici compiuti sul feto hanno inoltre rivelato una realtà che finora non era stata percepita dalla maggior parte degli adulti: e cioè che sin dai primi attimi di vita il bambino è in grado di recepire e di apprendere atteggiamenti sia di tenerezza che di crudeltà.

10) Grazie a queste nuove conoscenze, ogni comportamento assurdo rivela la sua logica sino a quel momento nascosta, non appena l’esperienza traumatica subita nell’infanzia non debbano più rimanere nell’ombra.

11) L’aver acquisito sensibilità per le crudeltà commesse verso i bambini, che sinora venivano generalmente negate, e per le loro conseguenze arresterà il riprodursi della violenza di generazione in generazione.

12) Individui che nell’infanzia non hanno dovuto subire violazioni alla loro integrità, e a cui è stato consentito di sperimentare protezione, rispetto e lealtà da parte dei loro genitori, da giovani e anche in seguito saranno intelligenti, ricettivi, capaci di immedesimarsi negli altri e molto sensibili. Godranno della gioia di vivere e non avranno affatto bisogno di far del male agli altri o a se stessi né addirittura di uccidere. Useranno il proprio potere per difendersi, e non per aggredire gli altri. Non potranno fare a meno di rispettare e proteggere più deboli, ossia anche i propri figli, dal momento che essi stessi, un tempo, hanno compiuto tale esperienza, e dal momento che fin dall’inizio in loro è stato memorizzato proprio questo sapere (e non la crudeltà). Questi individui non saranno mai nella condizione di capire come mai i loro avi nel passato abbiano dovuto impiantare una mastodontica industria bellica per sentirsi a loro agio e sicuri nel mondo. Dal momento che il compito inconscio della loro vita non consisterà più nel difendersi dalle minacce subite nell’infanzia, essi saranno in grado di affrontare in maniera più razionale e creativa le minacce presenti nella realtà.[1]

 

 Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

[1] Miller, A., La persecuzione del bambino, Bollati Boringhieri, Torino, 1987, pag. XII e seg.

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Educhiamoci ad educare

educazioneCi siamo occupati altre volte di cosa voglia dire educare: educare, secondo la definizione comune, è dato da quella serie di attività che servono e sono finalizzate a favorire lo sviluppo di una persona. Questa definizione è molto generica, dal momento che mette l’accento sulle attività consapevoli che vengono svolte per educare un individuo, ma non tiene conto della molteplicità di attività che sono educative senza che l’educatore ne sia consapevole. Il modo in cui mi comporto è educativo, perché funge da esempio, da paradigma al quale l’altro può rifarsi prendendolo a modello, ed è un modello educativo espresso spesso senza che, appunto, se ne sia consapevoli.

Nell’immagine comune del termine poi, è sempre l’adulto che educa il minore. Quasi mai viene preso in considerazione come un minore possa educare un adulto e anzi sembra una sorta di controsenso considerare che un minore possa farlo. Diversi altri aspetti dovrebbero essere presi in considerazione in una riflessione su cosa significhi educare: uno dei più rilevanti riguarda il fatto che nella relazione educativa è implicita una condizione di disparità tra chi educa (e sa) e chi deve essere educato (e non sa). L’educatore, soprattutto se il suo ruolo è riconosciuto e accettato a livello sociale, ha più potere di chi viene educato, e spesso si serve di questo potere nell’atto stesso di educare. Interessanti, a mio avviso, i passaggi che vi riporto:

Prima riflessione: chi educa rischia perché nella relazione educativa mette a confronto due soggetti, che non hanno una posizione paritaria: ce n’è uno più forte ed uno più debole e c’è sempre il rischio che il soggetto che ha più esperienza, più competenza, più capacità di parola sia tentato di usare questo potere non per far crescere il soggetto più inesperto e più facile, ma per approfittarne. È un rischio che si ritrova nella relazione educativa, nella relazione parentale, nella stessa relazione terapeutica: in queste situazioni si struttura un piano inclinato, dove il rischio è la distorsione strumentale della relazione a fini di potere da parte del soggetto più forte. Chi educa rischia, perché c’è sempre la tentazione da parte del genitore, dell’educatore, il terapeuta stesso di utilizzare la relazione interpersonale Per sostenere le proprie difese e imporre in qualche modo i propri bisogni.

Credo sia necessario prestare particolare attenzione a questo potere ed esserne consapevoli dal momento che, se non riconosciuto, può portare, nella relazione educativa, verso l’imposizione piuttosto che verso la proposizione di un modello. Anche nella relazione terapeutica questo rischio è particolarmente forte e rischia di far deragliare la relazione stessa nel momento in cui il terapeuta invece di sollecitare l’autonomia e le risorse del paziente, si sostituisce a lui con suggerimenti e consigli, perché ‘sa che cosa sia giusto fare’.

Seconda riflessione: chi educa rischia e chi non rischia non educa. Il rischio inevitabile, necessario che non si può eludere nella relazione educativa è quello di avvicinarsi alle emozioni. Non educa chi non vuole rischiare di mettere in discussione la propria immagine narcisistica di soggetto razionale, sempre è comunque capace di controllare le emozioni e le situazioni. Non educa che non scende dal piedistallo della propria competenza educativa auto rassicurante, raggiunta presunta mente una volta per tutte. Non educa chi evita di avvicinarsi al mondo fluido, sofferto, conflittuale delle emozioni. Non educa chi non è disponibile a sviluppare l’intelligenza emotiva, l’intelligenza del cuore.[1]

Questo secondo punto è facilmente fraintendibile. Se è vero che chi educa rischia e chi non rischia non educa, nel senso che chi educa deve mettere in gioco se stesso, è altrettanto vero che spesso chi educa cerca di non rischiare per niente perché si difende, dall’alto della sua posizione privilegiata di potere, dal mettersi in gioco, dal condividere, dal rendere la relazione più paritaria e non basata sostanzialmente sul gioco di potere nascosto per cui tu fai ciò che dico io perché io so che cosa sia giusto per te. Se questo non avviene è lecito ricorrere a qualunque strumento per ottenere i risultati voluti. L’incognita è che ciò sfoci nell’autoritarismo, rischio al quale ci si può opporre coltivando l’autorevolezza. Diverso è infatti essere autoritari, fare leva sulla forza o sul proprio potere per imporre la propria volontà, tutt’altra cosa è essere autorevoli, avere cioè un’autorità educativa riconosciuta per le proprie capacità e non per la propria forza. Nel primo caso è necessario fare qualcosa (farsi obbedire, sgridare, punire…) nel secondo, ben più difficile, è necessario essere (essere coerenti, credibili, contenitivi…).

La differenza come sempre la costruiamo noi. Sono sempre più convinto che educare sia fornire un esempio, coerente e centrato a partire da quello che siamo. Questo non vuol dire non dover porre delle regole o non farle rispettare. Significa non ritenersi  dei dispensatori di regole ma cercare di partecipare attivamente alla costruzione della relazione con l’altro.

E, soprattutto, iniziare a non ritenere che il processo educativo sia a senso unico.

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

 

[1] Foti C., La mente abbraccia il cuore, Edizioni GruppoAbele, Torino, 2012, pag. 74.

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Come aiutare i bambini ad amare la lettura? (2)

bambini e libri6) Non trasformatela in una gara a chi legge di più: rinforzate positivamente i risultati ottenuti, non rimarcate che, a fronte del libro portato a termine, ce ne siano altri dieci che aspettano da anni di essere aperti. Ancora, se avete un figlio che legge molto e un figlio che considera i libri alla stregua di polverosi soprammobili, non cercate di spronare il secondo creando inutili gare e continui paragoni tra loro: questo tipo di strategie, anziché avvicinare, allontanano ancora di più dalla lettura. Abbiamo già visto che leggere non dovrebbe essere un compito: ancor meno dovrebbe diventare una gara;

7) Considerate le alternative dei mezzi attuali: siamo d’accordo: un libro in carta ha, ancora di più nell’età del digitale, un fascino immenso. Questo fascino non fa degli altri mezzi (ebook, audiolibri) dei ripieghi di secondo ordine. Il punto è che diano una chance alla lettura, che si incuriosiscano delle storie raccontate. Se dovessero sceglier di farlo ricorrendo all’uso di mezzi che quando eravamo piccoli neanche immaginavamo, non consideratelo un ripiego e non cercate di sminuirlo. Il mezzo non fa il lettore. Lasciate che siano poi loro, entrati nel mondo della lettura, ad incuriosirsi a tutti gli altri mezzi coi quali una storia può essere narrata; 

8) I fumetti: se siete riusciti a non condannare i vari reader digitali o gli audiolibri, cercate di applicare la stessa comprensione anche al mondo dei fumetti. Leggerli non è peccato, non traviano la mente di nessuno, semplicemente associano l’immagine alla narrazione della storia raccontata. Non si comprende perché, invece, siano spesso combattuti, o classificati come un sottogenere di ripiego, come se non fossero in realtà una vera lettura. Se leggerli riesce ad interessare i loro giovani (ma non solo!) lettori, non dovrebbero essere snobbati o condannati, ma incoraggiati. Spesso i piccoli lettori di fumetti crescono mantenendo vivo l’amore per la lettura;

9) Fate che la lettura sia un momento divertente: come accennato leggere dovrebbe essere percepito come un’attività piacevole, non l’ennesima incombenza da svolgere. Se il massimo del dialogo in casa è: ‘ma perché non molli la playstation e ti prendi un libro?’, molto difficilmente il bambino penserà alla lettura come una cosa positiva, anzi l’assocerà ad una sorta di punizione. Cercate di connetterla invece a qualcosa di positivo, di bello, di condiviso. Provate a farlo assieme, chiedete loro da cosa siano incuriositi, dimostratevi interessati, come vorreste che loro fossero per la stessa lettura. Costruite un momento di condivisione piacevole e cercate di condividere anche altri interessi. Tornando alla playstation precedente, non create l’equazione videogiochi=male:libri=bene. Queste polarizzazioni non funzionano e non rendono giustizia ai diversi interessi che un bimbo o un ragazzo riescono a coltivare;

10) Leggere non è tutto: lo dico da persona amante della lettura, ma leggere non è tutto. La nostra realtà quotidiana è profondamente cambiata e i bambini come i ragazzi, sono esposti ad una serie continua di stimoli che rende la concentrazione nella lettura ancora più complessa, creando ancora più distinzione tra una realtà, spesso virtuale, percepita come viva e mutevole, e il mondo dei libri spesso percepito come noioso e statico. Questa differenza rende se possibile ancora più problematico l’approccio con la lettura e allontana i piccoli lettori da un mondo che spesso rifiutano senza neanche dargli una possibilità. Sta agli adulti che lo circondano cercare di superare questa separazione e rendere viva e coinvolgente, alla pari di altri stimoli, anche l’esperienza legata alla lettura.

Anche in questo caso, come in altri post, quelle che avete letto non vogliono essere regole quanto suggerimenti che spero aiutino a relazionarsi meglio col mondo dei piccoli.

Resto a disposizione con chi volesse/potesse condividere la sua esperienza: può farlo contattandomi per mail (fabrizioboninu@gmail.com) oppure lasciando un commento. 

A presto…

Fabrizio Boninu

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Come aiutare i bambini ad amare la lettura? (1)

bambini e libriInterno: studio. Primo incontro con i genitori di Matteo. Io: ‘Come trascorre le giornate in casa, Matteo?’, mamma: ‘Guardi, non fa nulla tutto il giorno, passa gran parte del tempo di fronte alla tv o con la playstation, è sempre attaccato a qualcosa di elettronico, non lo abbiamo mai visto prendere di sua iniziativa un libro in mano. Ma cosa dovremmo fare per farlo leggere?’
Già, cosa dovremmo fare noi adulti per far interessare i bambini o i ragazzi alla lettura? Parlo da appassionato lettore oltre che da psicologo. Per far fronte a richieste di queste tipo, e tenendo in considerazione la ripresa dei loro impegni scolastici, ho immaginato di stilare un rapido catalogo di quelle che potrebbero essere dei suggerimenti (niente regole!) per cercare di favorire questa attività anche con i nostri ragazzi. Attirati dal veloce e accattivante mondo dei videogiochi, circondati da internet o social network a qualunque ora del giorno (e spesso della notte!) ed in qualunque circostanza, bambini e ragazzi sono semplicemente all’oscuro di quanto possa essere altrettanto viva e vivida l’avventura vissuta grazie alla loro fantasia e ad un buon libro. Cosa possiamo fare per rendere questa esperienza più frequente?

Questo elenco vi aiuterà a rendere più agevole il percorso:

 

1) Non associate la lettura con i compiti scolastici: spesso i bambini si avvicinano alla lettura solamente perché costretti dalla scuola per attività di ricerca o come compito, stabilendo, quindi, la relazione ferrea per cui leggere equivalga ad un dovere. Uno dei primi lavori da fare sarebbe proprio questo: spezzare il legame lettura=compito, cercando di rendere l’attività della lettura indipendente dall’attività dello studio o dello svolgimento dei compiti. Spezzata questa connessione, il bambino si sentirà libero di scegliere cosa e quando leggere e non si sentirà costretto a farlo per una scadenza;

2) Proponiamo libri che piacciano a lui non a noi: il secondo punto è strettamente legato al primo: dato che il bambino non dovrebbe leggere libri perché obbligato (dagli adulti, dalla scuola, ecc ), dovremmo stare attenti a proporre libri che rientrino nei suoi interessi. Questo comporta che gli adulti intorno a lui prestino attenzione agli interessi manifestati dai ragazzi, e quindi abbiano una conoscenza delle realtà che li coinvolgono e delle loro passioni. Evitiamo una riproposizione pedissequa di ciò che è piaciuto a noi e che, per quanto ci secchi ammetterlo, potrebbe essere totalmente passato di moda! Cerchiamo di evitare termini come: ‘è un classico’ o ‘è un capolavoro’, frasi che sottilmente sottintendono quanto, invece, quello che leggono loro non lo sia per nulla e non lo diventerà mai. Ricordiamoci che stiamo cercando di insegnare loro ad apprezzare la lettura, non a costruire dei nostri cloni, anni dopo l’originale;

3) Diamo per primi l’esempio: è molto facile predicare senza essere coinvolti. Un bambino impara più dall’esempio che dalle parole. Se non vede nessun adulto intorno a lui prendere in mano un libro difficilmente sarà a sua volta invogliato a farlo. Sarebbe bene, quindi, prima di gridare allo scandalo di quanto i nostri figli non leggano, cercare di capire quanto siamo per loro esempi per l’attività che richiediamo;

4) Leggete assieme: una delle cose che generalmente i bambini amano di più, è che qualcuno racconti loro una storia. Se potete, abituateli fin da piccoli a sentirvi leggere storie, per condividere, oltre al tempo che passerete assieme facendolo, anche un viaggio con la fantasia. Cercate di non perdere col tempo questa abitudine: anche se cresciuti, se state leggendo un libro che vi appassiona, costruite un momento per condividerlo: leggetelo assieme oppure chiedete loro un parere. Questo gesto permetterà diversi movimenti: da una parte potrebbe incuriosirli e spingerli a voler sapere cosa accade nel resto del libro (e per quale motivo vi abbia catturato quel libro!), saprà che leggere è per voi un’attività ancora ricca di passione e costituirà un piccolo, ulteriore ponte comunicativo tra i vostri interessi e loro;

5) Rispettiamoli: come detto prima stiamo cercando di far crescere in loro l’interesse per la lettura, non creare dei nostri cloni. Se il nostro obiettivo è quello di allontanarli dalla lettura, non dobbiamo far altro che trattarli come piccoli illetterati che non capiscono nulla di quello che stanno leggendo/recensendo/criticando e che non comprendono la bellezza di ciò che proponiamo loro. Questo atteggiamento difficilmente si concilia con la creazione di uno spirito critico. Leggere equivale anche a costruire, come per molte altri aspetti, i propri personali gusti. Siamo in grado di accettare che i loro non coincidano con i nostri?

– CONTINUA –

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Bambini e internet: che fare? (2)

baby-ipad6) Fate rispettare (e rispettate) queste regole: una volta stabilite le regole e comunicatele a tutti i membri della famiglia, preoccupandosi che siano state capite e condivise, non vi rimane altro (si fa per dire!) che farle rispettare. A questo punto, infatti, di solito nascono i problemi perché far rispettare le regole è spesso impegnativo e difficoltoso. Soprattutto perché, come accennato, anche gli adulti dovranno rispettare le stesse regole pena la perdita dell’autorevolezza. Riprendendo l’esempio di prima, se la regola impone il divieto di utilizzo di tablet mentre si mangia necessariamente anche gli adulti dovranno astenersi dal farne uso. Il rischio è che il bambino percepisca la debolezza della regola e si chieda perché debba rispettarla se anche i grandi non la rispettano. Di solito gli adulti si appellano al loro ‘essere grandi’, status che ai loro occhi li esonera dal rispetto della regola stessa. Credo sia una mossa altamente pericolosa, perché inficia il fatto che la regola valga per tutti, facendo implicitamente credere al bambino che la regola stessa non abbia poi così tanto valore. Altro messaggio implicito è che l’insieme delle regole che strutturano la sua casa non siano poi così ferree e che si possa sempre trovare una scappatoia. State quindi attenti alle regole che imponete, perché sarete i primi a doverle rispettare;  

7) Cercate di stabilire delle regole condivise con i genitori dei bambini che frequentano di più: se il bambino va spesso a casa del suo amico del cuore, cercate di stabilire una relazione anche con i genitori del suo amico. Sarebbe bene cercare di condividere con loro della regole che possano andar bene ad entrambe le famiglie. Questo permetterà di non creare particolare discrepanze tra il vostro contesto familiare e quello della famiglia dell’amico che frequenta. Se voi foste particolarmente rigidi mentre la famiglia del suo amichetto del cuore fosse particolarmente permissiva, si creerebbe una discrepanza che porterebbe il bambino a farsi delle domande sull’assetto che voi avete scelto per la vostra famiglia, e magari a metterlo in discussione. Se anche l’ambiente sociale risultasse coerente, invece, avrete la possibilità di costruire un modello educativo più autorevole. Questo aspetto è molto complesso e necessariamente mediato tra le esigenze di famiglie diverse e con una diversa storia;

8) Chiedete ad altri genitori come si comportino: il punto precedente, forse uno dei più difficili, poneva l’accento sulla possibilità di creare una sorta di rete genitoriale con le persone che vi sono più vicine, come per esempio altri genitori di bambini che frequentano la scuola di vostro figlio. Questo confronto può essere utile per cercare di capire e di riflettere su come gli altri genitori si comportino con i propri figli, facendovi comprendere cosa sarebbe applicabile in casa vostra e cosa non lo sarebbe, cosa funzionerebbe e cosa invece sarebbe controproducente. Se potete, coltivate questo confronto;

9) Utilizzate programmi che consentano di filtrare i risultati: una strategia pratica che potrebbe essere di grande aiuto è quella di utilizzare dei programmi che consentano di filtrare i risultati. Tra le funzioni dei principali motori di ricerca e sui principali browser di navigazione, alcune consentono di filtrare i risultati in base all’età del frequentatore. Nel caso il bambino dovesse rimanere per qualche tempo solo di fronte al computer, sarebbe più difficile che incappasse in risultati indesiderati;

10) Spegnete computer, tablet e smartphone e passate del tempo con vostro figlio facendo tutt’altro: se anche i vostri figli sono nativi digitali, sarebbe bene che godessero del rapporto con voi facendo altro. Cercate di coinvolgerli il più possibile in attività pratiche, ricreative e creative: giocare a pallone, andare in bicicletta, costruire qualcosa, sono attività altrettanto importanti che consentiranno loro di costruire un rapporto con voi in attività non legate esclusivamente alla fruizione di internet.

Quello che avete appena letto non vuole essere un decalogo da rispettare, quanto una proposta di riflessione sul rapporto tra noi, i bambini e la nuova realtà virtuale che avanza. Come sempre chi volesse/potesse condividere la sua esperienza può farlo contattandomi per mail (fabrizioboninu@gmail.com) oppure per telefono (3920008369). 

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

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Bambini e internet: che fare? (1)

baby-ipadLe implicazioni di internet, dell’uso dei social network e le possibili conseguenze rimangono spesso sottovalutate a livello genitoriale. In studio capita che genitori mi raccontino, apparentemente poco interessati al tema, che i figli passano molto tempo su internet e rimangano spesso soli di fronte al computer, senza l’assistenza e l’accompagnamento di un adulto. Questi genitori, molto accorti, premurosi e solletici per la salute dei loro figli, non si sognerebbero mai di lasciare, per esempio, il bimbo da solo con in mano un coltello o un paio di forbici. Mi chiedo, allora, se non ci sia una minimizzazione e una poca consapevolezza del significato di internet e degli aspetti che tramite internet vengono veicolati. Credo che molti genitori vedano il web e tutta la realtà virtuale come una specie di gigantesco gioco, qualcosa che ha solo vaghe influenze sul mondo reale. Questa sottovalutazione passa spesso anche ai bambini e ai ragazzi i quali poi si ritrovano a trascurare in maniera pericolosa le conseguenze di quello che fanno/postano/condividono online (vedi, per esempio, i molti casi di cyberbullismo sempre più frequenti). 

Partendo da queste premesse, ho pensato di stilare una sorta di decalogo di come accostarsi al meglio alla realtà virtuale, rendendo questa esperienza non solo produttiva, ma anche gratificante sia per i piccoli che per gli adulti che si occupano di loro:

1) Non lasciate soli i bambini di fronte al pc: la prima regola in assoluto sarebbe quella di non lasciare soli i bambini di fronte al computer: la loro curiosità e la loro buona fede potrebbe renderli facili prede di siti poco raccomandabili che, proponendo cartoni animati o immagini molto colorate, faccia assistere loro ad episodi di natura sessuale esplicita oppure di violenza esplicita. Un adulto che li accompagni e che condivida con loro quello al quale assistono renderà l’esperienza produttiva per diversi aspetti: ci sarà la possibilità di filtrare ciò che vedono, non si sentiranno soli e si sentiranno supportati nei loro interessi;

2) Parlate di ciò che i bambini vedono: la seconda regola riguarda i possibili ‘incidenti di visione’: può capitare che navigando su Internet si assista ad episodi o a scene inadatte. Se dovessero vedere qualcosa di inopportuno non cercate di evitare di parlarne per quanto la cosa possa imbarazzare anche voi. Non cambiate discorso, non distraete il bambino ma lasciate che tutte le curiosità abbiano la possibilità di venire fuori e di essere espresse. Il punto è che i bambini si accorgono che quello che hanno visto non era adatto loro e che, probabilmente, è una cosa che vi mette in difficoltà. State attenti a non censurare questo bisogno del bambino, lasciate che i dubbi e le perplessità possano essere comunicate. L’aspetto importante è che sentano che gli adulti intorno a loro siano in grado di accogliere le loro paure, i loro dubbi, le loro domande e contenerle senza lasciarsene spaventare. Questo permetterà loro non solo di significare quello che hanno visto ma farà si che sia legittimata l’espressione di ogni emozione, ogni sensazione che possono provare sapendo che c’è un adulto vicino a loro in grado di comprenderla e accoglierla;

3) Stabilite una serie di regole col partner per cercare di essere coerenti nell’imposizione e nel rispetto delle regole: altro passo importante è la condivisione delle norme tra voi e il vostro partner facendo in modo che le regole siano condivise all’interno della coppia genitoriale e siano perciò fatte rispettare coerentemente dall’uno e dall’altro genitore. Assisto spesso alla ‘polarizzazione’ dei ruoli genitoriali, con un genitore ‘buono’ e uno ‘cattivo’, uno permissivo e l’altro intransigente. Questa ripartizione permette ai figli di incunearsi tra i genitori e ottenere ciò che desiderano. La condivisione delle regole da stabilire renderà entrambi i genitori partecipi nel farle rispettare e renderà più difficile l’interposizione dei figli negli spazi lasciati dai genitori; 

4) Domandatevi e discutete in coppia quale sarà l’età per concedere: provate a chiedervi quali siano le età nelle quali concedereste l’uso di determinati strumenti: a che età pensate possa essere consono dare un telefono cellulare al proprio figlio? A che età pensate possa essere necessario farlo iscrivere su un social network? Una volta iscritto, quale limitazioni avrebbe? Dovrebbe essere accompagnato mentre sta sul social network? Nel caso utilizzasse un telefono cellulare con connessione ad Internet, quale tipo di limitazioni avrebbe? Queste domande vi aiuteranno a chiarire i punti per voi importanti e vi aiuteranno ad individuare quali regole pensate sarebbe necessario stabilire;

5) Stabilite, nella fruizione di internet, delle regole sull’uso del pc (o tablet o smartphone): se un bambino sa che insistendo avrà il permesso di utilizzo del pc o di tablet, saprà di avere un grande potere in mano e che, utilizzando la reazione giusta, potrebbe ottenere ciò che desidera. Se in famiglia esiste invece un codice di regole, ben strutturato, ben motivato e coerente con le esigenze familiari sarà ben difficile per il bambino cercare di infrangerlo. Se, per esempio, la regola è che durante i pasti non si usano telefoni o tablet perché si sta insieme, si mangia e si parla, la chiarezza e la coerenza della regola permetterà al bambino di rispettarla. Naturalmente una regola è coerente se la stessa regola vale anche per gli adulti (vedi punto 6!);

– CONTINUA –

 

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Come avere figli educati?

Come avere figli educatiIl post di oggi riporta un articolo del Corriere della Sera che cerca di individuare quale sia la strategia migliore per avere figli più educati: è meglio premiarli o sgridarli? Meglio metterli in punizione o lodare il comportamento corretto? Non è una differenza di poco conto se ci si pensa, perché il metodo educativo basato sulle punizioni si basa sull’intimorire il bimbo sulla reazione al comportamento sbagliato, mentre elogiare un comportamento corretto fa leva sul rinforzo positivo ad un comportamento ‘buono’. Nell’articolo si propende per il privilegiare l’elogio piuttosto che la punizione. Questa tendenza viene chiamata «terapia di interazione tra genitori e figli» ma, più semplicemente, è la tendenza, propugnata da una parte degli psicologi infantili, ad accantonare le punizioni (per lo meno quelle troppo drastiche) e a privilegiare elogi e abbracci. In pratica, l’imperativo per i genitori è: non fissatevi sui comportamenti ‘cattivi’ ma valorizzate quelli ‘buoni’

Secondo lo psicologo Timothy Verduin, docente di Psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza all’Università di New York, sarebbe meglio che questi elogi venissero accompagnati da manifestazioni fisiche di affetto (una carezza, un abbraccio…) che avrebbero lo scopo di accompagnare e rinsaldare il legame tra genitori e figli. Questa è la ricetta per avere figli educati? In realtà, l’articolo riporta quelle che sono le ‘evidenze empiriche’ di ogni genitore: a volte semplicemente parlare non serve a molto, sopratutto se il bambino è piccolo. Cercare di far comprendere solo col dialogo a volte non sembra dare i risultati sperati, e i genitori si trovano costretti ad alzare la voce. E’ un comportamento basato sulla punizione anche se stabilisce comunque una regola all’interno della famiglia e presuppone che sia contenitiva rispetto ad una totale assenza di regole o ad una liceità apparente per tutto. Le regole in qualche modo ordinano il mondo per quanto sembrino dolorose da rispettare. 

Per il rispetto delle regole stesse vale il principio che sarebbe meglio l’elogio piuttosto che la punizione. Come riportato nell’articolo, infatti, il castigo è un’arte, e molto difficile» spiega lo psicoterapeuta Gustavo Pietropolli Charmet. Che illustra il metodo: «Bisogna prima di tutto capire qual è la comunicazione implicita contenuta nella trasgressione della regola: nella violazione di un patto c’è sempre, nel bambino, una speranza di potersi affrancare, di crescere. Se capiamo questo suo desiderio e lo aiutiamo a realizzarlo non ripeterà il comportamento scorretto. E ancora: La sanzione non deve mortificare ma aiutare a crescere. Per esempio, se la trasgressione sta nel non apparecchiare la tavola, si potrebbe far frequentare al bimbo un corso di cucina, per sviluppare una competenza legata al cattivo comportamento». L’arte del castigo, insomma: «La punizione – nota Charmet – è un momento educativo molto alto: il bambino che trasgredisce non si aspetta di provare un dolore fisico o morale come conseguenza della sua azione, ma vuole vedere quale sarà la reazione degli adulti al suo superare i limiti fissati» Ecco perché il «buon» castigo conclude lo psicoterapeuta, «richiede tempo e astuzia». E non deve essere una sculacciata, «o un togliere ai figli i soldi, le uscite o l’uso del computer». Sì al castigo allora, ma con intelligenza.

L’aspetto importante è cercare di capire cosa il bambino sta cercando di comunicarci con il suo infrangere le regole. Non si tratta di cose molto lontane dalla realtà come si può vedere. Basta applicare buonsenso e giudizio. E cuore. Capisco che molti di voi potrebbero obiettare alla frequenza del corso di cucina, ma ci sono veramente tanti metodi per ottenere lo stesso risultato. Quello che posso suggerire è il coinvolgimento: una soluzione che veda coinvolti i genitori (per vicinanza, per spiegazione, per comprensione…) avrà risultati sicuramente più duraturi di una semplice punizione per privazione (‘non usi il pc, non usi più i giochi’, ecc.)

Intanto qui il link all’articolo:

L’articolo è di Giulia Ziino.

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

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Alunni, insegnanti & Facebook

Alunni, insegnanti & FacebookEccoci nuovamente a settembre. L’inizio di un nuovo anno scolastico porta sempre con sé un misto di paure e desideri. Lavoro spesso con ragazzi che frequentano le scuole e mi capita di interagire anche con i loro insegnanti. Il rapporto tra questi due ruoli è sempre stato complesso e delicato nella nostra società per la funzione che svolgono ma, negli ultimi tempi, si è aggiunto un fattore nuovo, i social network come Facebook o Twitter, che rendono il quadro ancora più complesso. Avendo a che fare con persone che si occupano di scuola, capita  di sapere che i ragazzi chiedano di interagire in tanti modi, così che possano avere un contatto diretto con, per esempio, gli insegnanti. Hanno la mail personale, spesso formano con altri studenti gruppi su Whatsapp che consentono di comunicare con tutti i membri della classe, hanno i contatti di Facebook tramite i quali possono interagire con gli insegnanti stessi.

Da questa disponibilità nasce il dilemma: questa possibilità di contatto aiuta od ostacola il rapporto tra alunni e docenti? Credo che l‘interazione possa essere particolarmente proficua per entrambi gli attori in gioco sempre che si sia consapevoli dei mezzi che vengono utilizzati e, soprattutto, che vengano osservate alcune semplice regole da ambo le parti: entrambi dovrebbero per esempio prestare attenzione a non sovrapporre il proprio profilo scolastico con quello privato: quest’ultimo dovrebbe, a mio avviso, essere distinto da quello che si usa per scuola. La sovrapposizione e mescolanza di profilo pubblico e privato ingenera una serie di confusioni che non sono facilmente gestibili nell’ambito di un rapporto come quello tra alunni ed insegnanti.  

Altro fattore che gli insegnanti dovrebbero prendere in considerazione riguarda lo sbilanciamento di potere nel rapporto tra loro e gli alunni. Il rapporto infatti non è paritario, ed è impossibile che lo diventi nel momento in cui sono amici su Facebook. La relazione è sbilanciata da una serie di disparità, prima fra tutte quella per cui un professore, per lavoro, giudica il suo alunno. Sarebbe più proficuo, quindi, non giocare a fare gli amici dei propri allievi: i ragazzi possono trovare amici tra i coetanei; se ricercano la presenza di un adulto è perché desiderano qualcuno che, affiancandoli, possa aiutarli nelle loro scelte

Da questo punto ne consegue un altro: se i professori e gli alunni condividessero la bacheca di Facebook questo probabilmente potrebbe portare ad una minore libertà e ad una minore spontaneità nel comportamento dei ragazzi. Tanto per fare un esempio: come potrebbero dei ragazzi scherzare su un professore della loro scuola se uno stesso insegnante della scuola è presente e legge le loro bacheche? Anche se virtuale, la bacheca di Facebook (o di Twitter, o di Instagram ecc) è uno spazio privato anche se nell’era della condivisione totale andrebbe ridefinito il significato delle parole privato o pubblico. Proprio questa possibile confusione potrebbe ingenerare fraintendimenti complicati da gestire rispetto al ruolo, alla professione, al pubblico e al privato, al rapporto che si può costruire tra alunni e insegnanti.

Quale soluzione può esserci? Ostracizzare il mondo virtuale come luogo di comunicazioni non rientra nei miei obiettivi (sarebbe abbastanza strano screditare un aggettivo che compare nel nome del mio sito!), ma credo sia necessario trovare un modo per interagire che possa permettere ad entrambi gli attori in gioco di far si che l’esperienza sia positiva. Se per esempio i ragazzi potessero accedere ad una pagina di discussione con gli insegnanti che fosse solo professionale, si potrebbe creare uno spazio di incontro ulteriore tra alunni ed insegnanti. 

La materia è attualmente discussa e diverse sono le correnti di pensiero. Alcune scuole nel mondo sono arrivate a vietare per regolamento questo tipo di realtà: (qui un articolo che si occupa della materia). In Italia non si hanno ancora notizie di scuole che abbiano fatto passi di questo tipo. Insomma una materia in divenire, che rende necessario riflettere circa una maggiore consapevolezza nell’utilizzo di questi mezzi. 

Come sempre se ci fossero insegnanti o ragazzi o genitori che volessero/potessero condividere la loro esperienza possono farlo contattandomi per mail (fabrizioboninu@gmail.com) oppure per telefono (3920008369). 

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

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Quanti giochi dovrebbero avere i bambini?

Quanti giochi dovrebbero avere i bambiniCapita, lavorando con bambini e coi loro genitori, che vengano chiesti consigli su come affrontare quelle che nelle descrizioni appaiono come vere e proprie piccole emergenze quotidiane che riguardano soprattutto la gestione dei rapporti tra genitori e figli. Come fare se…? Come comportarsi quando…? Cosa rispondere se…?  Vi ho spesso detto come non reputi opportuno entrare nell’area dei consigli, perché starei implicitamente accogliendo il fatto che i genitori stessi non siano in grado di occuparsi dei propri bambini, e che non siano, in ultima analisi, dei bravi genitori. Uno degli aspetti che viene riportato più spesso riguarda la non obbedienza dei figli i quali, secondo i genitori, non sembrano intenzionati ad obbedire neanche quando vengono levati loro, per punizione, qualunque tipo di giocattolo. Via la Playstation, via la Wii, via le Psp, via la tv, via il pc, ecc. Ora già da questo lungo elenco si potrebbe iniziare una riflessione sull’abbondanza di giochi e distrattori dai quali i bambini sembrano costantemente circondati nella loro quotidianità. Questo fa sorgere un altro interrogativo legato ai giochi: che valore hanno i giochi nell’educazione di un bambino? Come detto, i genitori si lamentano di non essere ascoltati nonostante levino per punizione tutti i giochi dalle mani dei figli. Il vero quesito sarebbe: perché i bambini hanno così tanti giocattoli? Sono necessari al loro sviluppo? Qual è il senso di una punizione che leva un gioco quando sanno di poter contare su un’altra infinità di giochi pronti a rimpiazzare e non far rimpiangere il gioco sottratto o perduto? Per illustrare meglio il valore e la complessità che il gioco ha per un bambino vi riporto un brano (trovate i riferimenti bibliografici in fondo alla pagina) che mi sembra perfetto per illustrare ciò di cui parlavo:

Spesso i sensi di colpa ci inducono a riempire i nostri figli di cose materiali. Le case di oggi straripano di giocattoli, vestiti, divertimenti. (…) Il risultato è che i bambini crescono con l’idea che le cose siano a loro disposizione e debbano essere costantemente rinnovate. Si comportano come se avessero assolutamente bisogno di qualcosa, facendo leva senza volerlo sul nostro timore di non dar loro abbastanza, che si tratti di cose materiali o di tempo, attenzione, amore. Vogliamo compensarli per quello che ci pare di non aver dato, e diamo loro oggetti. Ma così facendo rischiamo di privare il bambino di un’esperienza necessaria. Quando vogliono qualcosa, i bambini hanno la sensazione di averne bisogno. Ma noi, come adulti, siamo in grado di discernere ed attraverso il nostro atteggiamento anche il bambino impara a distinguere tra desiderio e bisogno; è importantissimo che riesca a farlo, perché rischia altrimenti di essere sempre in balia di bisogni estremi, che non potranno mai essere soddisfatti del tutto. L’abitudine ad ottenere ed a buttare via facilmente, inoltre, priva il bambino dell’idea che esista qualcosa di speciale. Se il giocattolo si rompe, per risparmiargli un dispiacere viene immediatamente sostituito, ma così il bambino non fa l’esperienza di soffrire per la perdita di qualcosa e di superare poi il dolore. Così i giocattoli non possono assumere un significato emotivo e il bambino non impara da affezionarsi profondamente a qualcosa. Ne risente anche il suo senso della realtà, la presa di coscienza che, se si rompe qualcosa, è danneggiato ed è possibile che non funzioni più. Un’altra conseguenza positiva del fatto di non ottenere sempre quello che si vuole e di sentirsi dire ogni tanto no da un genitore, è la capacità di sopportare uno spazio vuoto. (…)

Se gli spazi vengono riempiti all’istante, non c’è posto per la creatività. Se un bambino ha un giocattolo per tutte le occasioni, non userà la sua immaginazione per inventare nuove combinazioni, per trasformare un oggetto in un altro. Una scatola sarà solo una scatola, invece che una potenziale casa di bambole, un pezzo di legno resterà in giardino senza poter diventare la bacchetta di un direttore d’orchestra, un fucile o qualunque altra cosa suggerisca la fantasia. Il fatto di avere sempre a disposizione l’oggetto specifico rischia di sviluppare solo i lati più concreti, a scapito della capacità simbolica, dell’inventiva, dell’immaginazione. Inoltre, cosa ancora più importante, viene riportata la sensazione che lo spazio vuoto sia intollerabile. Stiamo dicendo a nostro figlio che non avere è terribile, che senza soddisfazione è perduto. In fondo gli stiamo trasmettendo l’idea che lui è quello che ha. Se il bambino lega la propria importanza a quello che possiede, la sua immagine di sé sarà sempre a repentaglio. Tollerando di non avere, invece, acquista più fiducia in se stesso e più consapevolezza di essere la persona che è, con un suo carattere, che è la cosa più preziosa di tutte, che nessuno gli può togliere. È questo senso del proprio valore, di essere apprezzati per quello che si è che aiuta a sopravvivere nei periodi di avversità. [1]

Credo sia esaustivo nel raccontare quella che è la complessità e l’intreccio di diversi piani (educativi, relazionali, oggettuali e simbolici) che da sempre accompagnano lo sviluppo del bambino attraverso il gioco. E’ importante prestare attenzione a questi aspetti perché anche su questi si basa la crescita e lo sviluppo del bambino. Forse allora sarà più proficuo che ci si metta a parlare con loro per spiegare perché non compreremo tutti i giocattoli visti a casa dall’amichetto piuttosto che accontentarlo acriticamente pur di non vederlo piangere. Anche per l’adulto è un importante passaggio, perché, cresciuti nell’idea che tutto sia accessibile e comprabile, deve implicitamente contenere l’idea di essere ‘cattivo’ nel non accontentare il proprio figlio. Insomma una sfida evolutiva per tutti i membri della famiglia coinvolti. Un altro esempio di come la complessità entri anche nelle cose più quotidiane della nostra vita.

Come al solito fatemi sapere che ne pensate e se qualche genitore volesse raccontare la sua esperienza può contattarmi tramite blog, email (fabrizioboninu@gmail.com) o telefono (3920008369).

A presto…

Fabrizio Boninu

[1] Phillips, A. (2003), I no che aiutano a crescere, Feltrinelli, Milano

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Devo dire ai miei figli che mi voglio separare?

Devo dire ai miei figli che mi voglio separareLavoro spesso con adolescenti e con i loro genitori e capita che questi ultimi mi chiedano quale sia il modo migliore per affrontare una separazione. Ho notato come uno degli orientamenti più diffusi sia quello di cercare di nascondere il più possibile ciò che sta avvenendo in casa, convinti che questo sia il modo migliore per preservare la tranquillità dei figli da ciò che sta accadendo. Pur trovandolo un atteggiamento molto comprensibile da parte di genitori che sono già disorientati per quello che accade nella coppia genitoriale e non vogliono ‘infliggere’ le loro pene anche ai figli, ritenuti incolpevoli di ciò che sta avvenendo, non lo ritengo il modo più adatto per fronteggiare la situazione per diversi motivi:

  • presuppone che i figli non si accorgano di nulla; questa visione adultocentrica ipotizza che i ragazzi siano come del tutto inconsapevoli di ciò che li circonda e non siano in grado di accorgersi di ciò che avviene intorno a loro;
  • dal punto precedente deriva anche il pensiero che non possano comprendere ciò che sta succedendo, che tenerli fuori non possa che semplificare il problema e che, se dovessero venirlo a sapere, accrescerebbero ancora di più la problematicità della situazione;
  • si crea una sorta di autorizzazione alla menzogna emotiva, sostenendo una situazione che disorienta ulteriormente i ragazzi per la discrepanza tra ciò che viene mostrato e ciò che viene percepito in famiglia.

Ripeto: pur comprendendone le ragioni, trovo che questo modo di affrontare la situazione possa essere ancora più complesso da gestire. A maggior ragione se si parla di coppie con figli preadolescenti o adolescenti. A conferma di questa tesi, vi riporto il passo di un libro che, per l’appunto, si occupa del tema se sia meglio parlare di ciò che avviene in casa oppure cercare di mantenere un’impressione di unità nella famiglia: 

Sono davvero numerosi i casi in cui i due coniugi fingono di mantenere un alone di normalità all’interno della propria vita di coppia, illudendosi in tal modo di proteggere i figli. (…) a volte si scopre il tradimento di un coniuge, a volte entrambi si impegnano in relazioni extra coniugali mantenendo una vita comune sotto lo stesso tetto che è solo di facciata, spesso motivato dal fatto che ci sono figli.

A volte, invece, si resta sotto lo stesso tetto senza però conservare l’apparenza che tutto va bene. Così ogni giorno in casa scoppiano liti furibonde, di fronte agli stessi figli per i quali si decide comunque di non separarsi. È necessario che coppie così in crisi abbiano un supporto per fare chiarezza interiore. È naturale che a un figlio serva avere a disposizione un padre e una madre che vivono con lui sotto lo stesso tetto, ma tutto ciò deve anche prevedere un’unione sincera, intima e profonda tra i due coniugi. Se tale condizione non esiste, allora è bene che i due genitori comprendano le molte implicazioni emotive nelle quali i figli si trovano spesso intrappolati. Obbligare i figli a partecipare alla messinscena di una famiglia che sta insieme per convenienza, per routine oppure per evitare di affrontare la fatica di una crisi e di una separazione, significa imbastire la quotidianità sull’ordito della simulazione, della falsità, della verosimiglianza. E questo accade in un momento della vita dei figli in cui loro hanno soprattutto bisogno di verità, lealtà, sostanza e non forma. I figli di genitori che simulano sono spesso infastiditi  e arrabbiati dal ‘teatro’ al quale si trovano, loro malgrado, a fare da comprimari. È frequente sentir dire dalla voce di un adolescente: ‘molto meglio vivere con due genitori separati, piuttosto che partecipare alla messa in scena dei miei’. E la situazione si complica ulteriormente se i figli hanno il sospetto che i loro genitori abbiano avviato storie sentimentali parallele, condotte nella clandestinità. Proprio nel momento in cui devono investire sogni ed energie nella ricerca di un amore bello prezioso (…) si trovano tutti giorni a dover fare i conti con quello che resta della storia d’amore dei loro genitori. 
Insomma, è un bene che due genitori in crisi riflettano profondamente non solo su quello che sta succedendo alla loro coppia, ma anche sull’impatto che ciò comporta nel mondo dei pensieri e delle emozioni dei loro figli. A volte può succedere che l’unica via d’uscita consista proprio nel progettare una separazione che, pur tra gli innumerevoli problemi che implica nella vita di una famiglia, offre due innegabili vantaggi:
 
• anche affrontando una separazione, due genitori possono aiutare i figli a capire che l’amore è un valore troppo importante da difendere e che non può essere mascherato o sostituito con altro. Se si ha la certezza che una storia è finita, l’unico modo per difendere l’amore è smettere di confonderlo con ciò che non è;
 
• una separazione evita ai figli di convivere con madri e padri che spesso usano la relazione con loro come piattaforma sulla quale far convergere, invece, la loro incapacità di volersi bene. Un uomo e una donna che si separano devono avere chiaro che il loro impegno educativo dovrà farsi ancora più totale e coinvolto e che, mai e poi mai, il loro conflitto dovrà utilizzare l’educazione dei figli come campo di battaglia sul quale, invece, dovrà essere ricercato il massimo accordo possibile. [1]
 
Questo post è scritto pensando ad una coppia con figli adolescenti ma credo sia adatto anche a coppie che hanno figli più piccoli. La differenza potranno farla i genitori che si troveranno a dover calibrare al meglio possibile, in relazione all’età, alla personalità, alla sensibilità del proprio figlio, il modo con cui comunicare quello che sta accadendo. L’intento di questo passaggio non è quello di edulcorare la situazione, né di rende la realtà meno complessa da affrontare. Stabilisce semplicemente che la comunicazione possa avvenire anche sui cambiamenti dolorosi e traumatici che la famiglia si trova a dover vivere, e che questi passaggi non siano silenziati ma esplicitati e condivisi.
 
 
Come sempre chi volesse/potesse condividere la sua esperienza può farlo contattandomi per mail (fabrizioboninu@gmail.com) oppure per telefono (3920008369).
 

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

[1] Pellai, A. (2012), Questa casa non è un albergo, Feltrinelli, Milano, pp. 95-96 

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Adolescenti e adulti competenti: la risposta di una mamma

Adolescenti e adulti competenti la risposta di una mammaSicuramente ricorderete l’articolo di qualche tempo fa Adolescenti e adulti competenti (clicca qui per andare direttamente all’articolo). In esso si parlava della possibilità che preadolescenti e adolescenti potessero eleggere  degli adulti competenti tra quelli conosciuti e che questi adulti potessero dimostrarsi fondamentali nella crescita e come esempio per i ragazzi stessi. Naturalmente l’essere competenti non è dato semplicemente dall’essere scelti, quanto da una serie di competenze e attenzioni (la capacità di ascolto, l’assenza di giudizio, il non essere ‘cattedratici’, l’empatia ecc) che l’adulto stesso deve poter dimostrare di possedere e tramite le quali riesca a relazionarsi. Devo aver toccato un tasto dolente, con quell’articolo perché ho ricevuto diversi riscontri circa quello che ho scritto. Uno in particolare, la lettera di una mamma, mi ha colpito e volevo riportarvele integralmente:

Gentile Dott. Boninu,
Da mamma, e quindi prima educatrice dei miei figli, ho letto con profondo interesse l’articolo “Adolescenti e adulti competenti”. La ringrazio per il professionale apporto in materia di educazione, in un campo di cui tanto si scrive e si dice, ma nella realtà i disagi dei giovani vengono per la maggiore addebitati, come una colpa, ai giovani stessi. Tanto basta per deresponsabilizzarci e autoassolverci. Vorrei dire anch’io la mia, esprimendo con semplicità le mie considerazioni, il mio pensiero, sulla base delle tante esperienze di relazione con il mondo della scuola e con altri settori (anche in ambito di studi medici di pedagogia clinica). E’soprattutto come genitore che ho potuto verificare come i problemi di relazione e quindi di comprensione dei nostri figli siano principalmente riconducibili a due fattori: un’assenza di sinergia tra gli educatori coinvolti nel loro percorso di crescita, quindi uno scollegamento, una insufficiente comunicazione tra gli stessi adulti che giocano per loro i principali ruoli educativi. Da qui ne deriva, purtroppo, la scarsa credibilità di cui godono gli adulti da parte dei bambini e dei giovani in genere. Inoltre, ho spesso modo di verificare quanto gli educatori si diano da fare per adempiere ai loro doveri di protocollo, dimenticando l’universo emozionale dei diretti fruitori del loro servizio. Un preoccupante indirizzo di educazione monodirezionale sta prendendo sempre più piede, sulla base del fatto che si debba trattare tutti “allo stesso modo”, appiattendo e omologando delle personalità in formazione, lasciando pericolosamente inosservata la meravigliosa unicità che contraddistingue ogni essere umano. Sono convinta che il materiale in materia di buone strategie educative non manchi, a partire dalle stesse convenzioni internazionali che sanciscono i diritti del fanciullo. Basterebbe soltanto desiderare di conoscere i nostri bambini e ragazzi, di tacere, saper fare silenzio, mettersi in ascolto delle loro voci, delle loro passioni, occupare meno spazio e lasciare a loro quello indispensabile alla loro allegria e creatività, perché soltanto così possiamo conoscerli, e ci insegnerebbero loro ad essere dei bravi educatori, molto più che i manuali. Basterebbe essere molto, molto umani, prima che professionali. Saremmo, così, degli adulti più credibili, modelli umani per un mondo più umano e compatibile con il loro universo emozionale.
(…)
Michela

Come non essere colpiti dalla lucidità con la quale Michela centra il punto dell’argomento? Le questioni sono proprio queste: assenza di sinergia tra coloro i quali dei ragazzi si occupano (scuola, famiglia, sport,) e un forte disinteresse, per incapacità, per fretta, per superficialità, per il mondo emotivo dei ragazzi, spesso bollato come sciocco o inconcludente. A questo si aggiunga la citata capacità autoaasolutoria nel momento in cui, alle prime difficoltà nella relazione, attribuendo la responsabilità di quello che sta avvenendo all’altro e non riuscendo a capire quale sia il nostro ruolo in quella relazione, finiamo col non volercene più occupare. O pensare che siano ‘impazziti’ a causa dell’adolescenza stessa. Questa mail mi sembra particolarmente significativa, però, di un atteggiamento decisamente più consapevole, di come la coscienza di questo tipo di problematiche stia non solo aumentando ma anche necessariamente stimolando un confronto che, spero, possa portare alla riconsiderazione della costruzione delle relazioni con ragazzi/e adolescenti.

Credo che l’obiettivo debba necessariamente essere quello di recuperare la capacità critica di come ci confrontiamo coi ragazzi e di come possiamo migliorare il nostro contributo per costruire rapporti più apprezzabili da parte di entrambi gli attori in gioco. Solo percorrendo questa impervia strada, che comporta l’abbandono da parte degli adulti dell’idea deresponsabilizzante che noi non c’entriamo nulla ma che siano loro così ‘strani’, potremmo ambire sul serio al ruolo di adulti credibili, gruppo del quale, per le domande che porge, credo Michela sia un’ottima esponente.

Se qualche altro genitore potesse/volesse comunicare la sua esperienza è, naturalmente benvenuto.

A presto…

Fabrizio Boninu

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Violenza su internet, consapevolezza e ascolto…

Violenza su internet, consapevolezza e ascolto...Non so se avete fatto caso, ma lo stillicidio di notizie di questo tipo è ormai quotidiano. Quasi tutti i giorni accade che una vicenda, condivisa su internet e sui diversi social network, qualunque sia il tema o l’argomento trattato, scateni una massa di commenti spesso triviali, retrogradi, incolti che lasciano attoniti. Non c’è alcuna remora nell’insultare, nel denigrare, nell’offendere persone che non si è mai conosciuti. Io stesso ho avuto esperienza diretta di questo modus operandi di molte persone: offese del tutto gratuite, scherni e dileggi semplicemente perché non si condividevano le mie posizioni.

Fin qui, direte, nulla di nuovo sotto il sole. Ho già affrontato l’argomento della deriva aggressiva del confronto su internet (clicca qui per saperne di più). La novità è che vorrei legare questo atteggiamento, che secondo me è la punta di un iceberg ben più grosso, con altri episodi che vedono protagonisti ragazzi adolescenti e internet. Convinto che l’associazione non sia per nulla casuale, si assiste anche in questo caso in maniera esponenzialmente sempre più frequente, ad episodi nei quali ragazzi (o ragazze naturalmente) adolescenti o preadolescenti condividano e diffondano loro foto private personali in atteggiamenti intimi, soli o con altre persone coetanee. Il mezzo informatico è ormai utilizzato quotidianamente da quasi tutti noi. E’ entrato a far parte della nostra esperienza giornaliera, un po’ come utilizzare il frigo o utilizzare la luce elettrica. Come tutti gli automatismi, non ci rendiamo neanche conto di utilizzarlo se non accadono degli intoppi nel suo stesso utilizzo. In questi casi però, quando ci si rende conto dell’intoppo, il danno è ormai fatto. E quando le conseguenze sono tragiche, gli ‘intoppi’ sono particolarmente pesanti. E’ accaduto a Cagliari all’inizio del mese di Febbraio, un fatto di cronaca particolarmente sconcertante: una ragazza di 16 anni pone fine alla sua giovane vita. Poco tempo e iniziano a comparire sulla sua bacheca di Facebook insulti e derisioni rispetto a quanto successo. Suoi stessi coetanei si avventuravano in battute di scherno e di irrispetto in un momento tragico. La domanda che mi ronzava in mente era: a cosa è dovuta quest’insensibilità? Cosa spinge dei ragazzi perfettamente ‘normali’ a compiere atti di questo tipo? Cosa spinge le persone ad insultarsi in maniera pesantissima su Internet qualunque sia l’argomento del quale si parla? Abbiamo parlato di insulti su internet, di atti osceni diffusi tramite internet e di cyberbullismo. Cosa unisce questi tre fattori?

Fondamentalmente credo che alla base di tutto questo ci sia la totale inconsapevolezza del mezzo che si sta utilizzando. Questo aspetto può riguardare sia adulti che ragazzi ma in questo post voglio concentrarmi sui secondi. Soprattutto i ragazzi, si trovano spesso soli a maneggiare e a gestire un mondo che è assolutamente più grande di loro e per il quale nessuno ha fornito loro uno strumento di comprensione. All’interno di Internet tutto sembra un gioco, tutto sembra facile, tutto sembra a portata di clic, tutto sembra possibile, e niente sembra avere conseguenze: tanto quella cosa li non è ‘reale’. È una realtà virtuale dalla quale si può uscire nel momento stesso in cui lo si desidera. Questo pensiero si trasforma spesso in una trappola. Un tempo la fruizione di internet era limitata all’uso di un pc: ora l’accesso ad internet è praticamente costante attraverso i telefoni. Molti ragazzi ne possiedono uno e hanno piani tariffari che consentono la navigazione su internet costantemente. Naturalmente molti pochi adulti si preoccupano di spiegare o di stare vicino a questi ragazzi nell’uso di tanta potenza. L’inconsapevolezza dei ragazzi, infatti è specchio dell’inconsapevolezza dei tanti adulti che non si preoccupano minimamente di aiutare o di dare degli strumenti di comprensione a questi ragazzi. Probabilmente non avendone avuto a loro volta. Sarebbe come se mettessimo loro in mano un’arma non spiegando come funziona, e stupendoci poi che l’uso di quest’arma possa provocare feriti o, peggio, morti. Ed anche questo è solo la punta di un disinteresse totale che il mondo degli adulti rivolge ai suoi ragazzi.

Presi da mille incombenze e, non di rado, spaventati dalla loro crescita, troppi adulti semplicemente li lasciano a loro stessi, senza nessun sostegno e senza nessun supporto, non fornendo loro nessuno strumento per capire il mondo all’interno del quale stanno iniziando a muoversi. Questo disorienta moltissimo i ragazzi che si trovano a non avere figure adulte di riferimento con le quali potersi confrontare e impedisce loro di acquisire la consapevolezza e l’autonomia necessarie nel mondo adulto. L’unica soluzione è un ripensamento totale del patto generazionale tra adulti e ragazzi. Stare loro vicini, fornire loro un orecchio (e un cuore) che li ascolti può veramente fare la differenza. Sento già l’obiezione che mi si potrebbe muovere, sopratutto da parte di chi ha figli adolescenti: ‘Ma io cerco di ascoltare mio figlio e lui che non vuole ascoltare o parlare con me!’. Cosa fare in questo caso? Non reputo necessario che l’adulto di riferimento sia uno dei due genitori. Succede spesso che durante l’adolescenza i ragazzi abbiano bisogno di disconfermare le figure genitoriali e debbano in questo senso metterglisi contro. Sta all’intelligenza degli adulti capirlo e trovare una ‘figura adulta fiduciaria’ che il ragazzo riconosce come degno di stima e del quale i genitori stessi si fidino. Attenzione, non sto parlando solo di psicologi: potrebbe essere un amico/a dei genitori, un parente, un allenatore qualcuno che possa fungere da intermediario tra la figura genitoriale e il ragazzo. Una persona che possa servire da riferimento ed affiancare i ragazzi nella consapevolezza di quello che stanno facendo.

Confrontandomi spesso, per motivi professionali, con la realtà di ragazzi pieni di tutto ma sostanzialmente abbandonati a se stessi, credo che qualunque passo fatto nella direzione di ascoltarli e supportarli non possa non essere l’obiettivo condiviso di ognuno di noi.

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

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