Nato in mesi invernali? Rischi la depressione…

Nato in mesi invernali Rischi la depressione...Il post di oggi è legato ad un articolo comparso qualche tempo fa sul Corriere della Sera. Riporta i risultati di uno studio pubblicato su Psychiatry Research dall’Università di Bologna, condotto su 870 ragazzi e 653 ragazze con età compresa fra 10 e 17 anni che porterebbe alla considerazione del fatto che ci sarebbe un maggior rischio di depressione legato alla fotoperiodicità luminosa particolarmente corta della stagione invernale a seconda dei mesi in cui si è venuti alla luce. Lo studio riporta i punteggi della scala GSS (acronimo di Gobal Seasonality Score, scala di stagionalità globale) che segna una correlazione tra i mesi di nascita e la propensione dell’individuo a cader nella depressione. Lo studio sarebbe particolarmente’sfavorevole’ per le ragazze che sembrerebbero più soggette a cadere in questo tipo di problematiche. Chi fosse interessato ai test che sono stati utilizzati all’interno dello studio può leggerne i nomi nell’articolo.

La cosa che colpisce leggendo, o almeno che ha colpito me, è la continua lotta che l’uomo cerca di fare per riuscire a trovare una correlazione tra fattori, esogeni ed endogeni, per cercare di spiegare un aspetto che forse caratterizza l’uomo dalla sua comparsa sul pianeta. D’altronde, se dovessimo dare per scontato, in accordo con la teoria evoluzionistica darwiniana, che noi si stia evolvendo, migliorando, allora dovremmo anche ipotizzare che la depressione abbia un significato in senso evolutivo se, con tutte le migliorie che hanno caratterizzato la nostra storia, questa è rimasta come una compagna fedele nel cammino dell’uomo.

Eppure continuiamo la ricerca di un perché universale, di un fattore generale che possa spiegare i ‘fattori di rischio’ che caratterizzano alcuni rispetto ad altri circa il rischio di essere colpiti da quella che viene considerata a tutti gli effetti una malattia ma che, a diversi livelli, caratterizza parte della vita di noi tutti. Detto da una persona nata in pieno inverno (26 Gennaio): credo sia una semplificazione eccessiva considerare la data di nascita come un fattore pro o contro la comparsa della depressione. Credo giochino un ruolo rilevante fattori che difficilmente possono essere misurati e valutati statisticamente come la propria storia personale, le proprie radici, le proprie relazioni e la propria sensibilità, fattori che, se considerati renderebbero lo studio impossibile da vagliare per la mole di variabili intervenienti che potrebbero influenzare i risultati. Colpisce come nello studio non venga preso minimamente in considerazione il peso che le persone hanno sulle vicende del ‘nascituro invernale’, come se un bambino nascesse da solo e fosse solo la fotoperiodicità ad influenzare la sua propensione alla depressione. Qualcuno ha valutato le conseguenze della fotoperiodicità sulle figure adulte significative per un bambino al momento della nascita? Insomma l’evidente semplificazione non può che far riflettere sull’utilizzabilità di questo tipo di scoperte che, seppur condotte con metodi scientifici, non si capisce che tipo di utilità abbiano nell’affrontare una realtà complessa come quella depressiva. 

Comunque, per chi fosse interessato, eccovi il link: http://www.corriere.it/salute/12_marzo_14/oroscopo-depressione-peccarisi_99191c06-6c54-11e1-bd93-2c78bee53b56.shtml 

L’articolo è firmato da Cesare Peccarisi.

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio

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Omogenitorialità (3)

Omogenitorialità (3)Ancora una volta ci troviamo, perciò, a dover sfatare un mito che è basato più su antichi preconcetti, o su altre posizioni, che legato a fatti concreti. Gli studi dimostrano che non esiste differenza tra i bambini cresciuti in diversi tipi di famiglie. In questo senso anzi tali dati evidenziano inoltre come crescere con due genitori dello stesso sesso non sia un fattore di rischio di per sé ma addirittura possa rappresentare un punto di forza. [1] Il possibile punto di forza sarebbe, indubbiamente, l’elasticità mentale. Cresciuti in un contesto ‘nuovo’ o comunque spesso non considerato come tradizionale soprattutto in alcuni paesi del mondo, i bambini cresciuti all’interno di famiglie omogenitoriali si trovano, fin da piccolissimi, a dover fare i conti col ‘diverso’ e per questo si allenano ad elaborare strategie che li renderanno più facilmente adattabili nella loro vita adulta.

Naturalmente, c’è un altro lato della medaglia che deve necessariamente essere considerato. Le famiglie omogenitoriali si trovano spesso a dover vivere in un contesto che non solo non le accetta ma le ostracizza come qualcosa di diverso e di strano. Questo fa si che la famiglia si trovi a dover vivere in un contesto più povero socialmente e, se non ha provveduto a crearsi un contesto sociale di supporto, rende problematica o solitaria la vita di queste famiglie. Tutto questo alla lunga può avere ripercussioni sulla vita della famiglia stessa quando, dal momento che risulta difficile condividere le proprie tematiche familiari con altri, si possono innescare situazioni conflittuali tra i genitori che alla lunga possono sfociare in situazioni di disagio. La necessità di un supporto sociale più ampio è il motivo per cui spesso, dall’esterno, le comunità omosessuali sembrano dei mondi a parte, come se fossero separate da un contesto sociale più ampio. E’ chiaro, invece, che se il contesto sociale fosse accettante e non giudicante si aprirebbero più possibilità di relazione tra diversi tipi di famiglie cosa che non sembra accadere quando il contesto sociale più ampio è, come detto, non accettante o giudicante.

Insomma la differenza, alla lunga, è fatta da tutti noi. Nel momento in cui questa realtà sarà vista semplicemente con una variante possibile della vita familiare, e non come un contesto potenzialmente pericoloso per far crescere un bambino, cambierà la percezione stessa della realtà e non verrà più avvertita come una scelta destabilizzante per la società. Mi rendo conto come questo cambio di prospettiva non sia per niente immediato o facile perché comporta la ristrutturazione di ciò che fino ad adesso è stato definito come famiglia. Ma, a mio avviso, è necessario iniziare a sfatare tutti quei falsi miti e quelle false immagini che rendono il confronto tra realtà diverse apparentemente impossibile. Molti di quelli che consideriamo passi avanti ed evoluzioni del nostro mondo sono stati ridicolizzati e derisi, ed ora sono consideriamo elementi irrinunciabili e fondamentali della nostra società. Pensate semplicemente a quello che si diceva della possibilità di concedere la possibilità di voto alle donne. Concedere loro il voto avrebbe portato alla fine della nostra società. Non mi sembra che niente di tutto questo sia avvenuto e anzi, la possibilità che le donne votino ha contribuito all’avanzamento dell’intera società.

Quando a guidarci è il pregiudizio l’unica strada percorribile è la chiusura. Un senso unico che porta al giudizio e all’esclusione. E’ necessario screditare tutto questo, cercando di passare dal giudizio alla comprensione. E il primo passo verso la comprensione è quello di guardare le cose per ciò che sono non facendosi guidare dal preconcetto o dalla paura che esse suscitano in noi. 

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio

[1] Chiari, C., Borghi, L. (2009), Psicologia dell’omosessualità, Carocci, Roma, pag. 28

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Omogenitorialità (2)

Omogenitorialità (2)La differenza allora può risiedere in quei due semplici termini: processi e strutture. Più che una questione di mere strutture la genitorialità sarebbe una questione di processi. Quale potrebbero essere le differenze tra i due termini? Non stiamo parlando di una differenza di valore (una è meglio dell’altra) quanto di una differenza di organizzazione: il termine struttura rimanda a qualcosa di statico, di immobile, qualcosa legato più al ruolo, il termine processuale ha a che fare con qualcosa in divenire, in costruzione, più legato alla funzione piuttosto che al ruolo. Un esempio renderà il discorso più concreto. Poniamo il caso di una donna sposata, con figli che improvvisamente rimane vedova. La funzione genitoriale strutturale vorrebbe che lei facesse da madre e non potesse in nessun caso fare le veci del genitore mancante. Nella realtà, invece, succede spesso che un genitore si accolli anche la funzione del genitore mancante, che si accolli l’intero processo della vita familiare. Che poi ci si riesca o no è un altro discorso. Quello che vorrei qui rimarcare riguarda la fluidità dei processi che ha a che fare con diverse situazioni che, nel corso della vita, possono portare alla ridefinizione delle funzioni in seno alla famiglia. Questa fluidità fa parte di tutte le famiglie, fa parte del naturale processo di cambiamento insito nella vita stessa. E’ la capacità di adattamento alle mutate condizioni che fa la differenza. E’ il processo, dunque, a fare una buona genitorialità, non la struttura.

Un altro dubbio che spesso nasce nel caso specifico dell’omogenitorialità riguarda invece la possibile differenza tra lo sviluppo dei bimbi cresciuto in una famiglia eterosessuale e i bambini cresciuti in una famiglia omosessuale. Anche in questo caso, a discredito delle tesi contrarie, possono essere riportati i risultati ottenuti in vari studi condotti sull’argomento.  

Gli studi che hanno messo a confronto sia il funzionamento genitoriale sia il benessere dei bambini cresciuti in famiglie omogenitoriali e in famiglie eterosessuali (…) evidenziano stili di funzionamento appropriati indipendentemente dalle diverse tipologie di composizione familiare. Nel caso specifico delle famiglie con coppia omosessuale, l’interesse dei ricercatori è volto a esplorare se e come l’orientamento sessuale di uno o entrambi i genitori possa influire su alcune variabili importanti per la crescita dei minori quali: lo sviluppo dell’identità sessuale e dell’identità di genere (identificazione di sé come maschio o femmina), l’interiorizzazione dei ruoli di genere (le aspettative circa come comportarsi in quanto uomini o donne) e dell’orientamento sessuale; l’adattamento emotivo e comportamentale; le relazioni sociali e, infine, il funzionamento cognitivo. A questo proposito le ricerche hanno trovato che i bambini cresciuti con genitori omosessuali presentano le stesse caratteristiche di bambini di età analoga cresciuti con genitori eterosessuali; condividono cioè con i loro coetanei le stesse probabilità di sviluppare un orientamento omo o eterodiretto: identificarsi con maschi o femmine, comportarsi coerentemente con il proprio genere percepito, avere un adeguato funzionamento cognitivo e sviluppare funzionali processi di sviluppo emotivo, sociale e comportamentale[1] 

Per una bibliografia completa vi rimando al testo citato. Citare singolarmente tutti i riferimenti avrebbe a mio avviso reso il testo poco scorrevole. 

– Continua –

[1] Chiari, C., Borghi, L. (2009), Psicologia dell’omosessualità, Carocci, Roma, pp. 110-111

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Omogenitorialità (1)

Omogenitorialità (1)Il post di oggi è dedicato ad uno di quei temi che sembra suscitare sempre perplessità e discussione ma che, se si ha la voglia di interrogarsi e di porsi delle domande, rimane un argomento per il quale il confronto sembra alimentato più da pregiudizi che da dati oggettivi. Oggi voglio provare con voi ad esplicitare questi dati oggettivi, far parlare loro piuttosto che il pregiudizio. L’argomento è: può un bambino che cresce con genitori dello stesso sesso crescere ‘bene’? Stiamo parlando di omogenitorialità, un aspetto della società che sta iniziando a prendere piede, stante la totale mancanza di legislazione da parte dello Stato. Nonostante questo vuoto normativo, nelle ragioni del quale non entreremo, si diffondono sempre più famiglie che sono lo specchio dei tempi nei quali volenti o nolenti viviamo, una società nella quale la famiglia è ben lontana dallo stereotipo che continuano ripetutamente a propinarci, padre madre figlio maschio e figlia femmina, quando la realtà parla di famiglie ricostituite, famiglie allargate, famiglie monogenitoriali, famiglie adottive ecc. Eppure, quando si tratta di affrontare il tema della genitorialità, ci si domanda se una coppia di genitori dello stesso sesso sia adatta a crescere un bambino. Mai che questi dubbi sfiorino le migliaia di famiglie eterosessuali nelle quali ai genitori, per il solo fatto di essere genitori biologici del bambino, credo non venga mai domandato se siano o meno adatti a crescere il loro figlio. E sarebbero migliaia gli esempi che testimonierebbero dell’incapacità di genitori eterosessuali di svolgere le funzioni genitoriali.

Qual è allora la paura più grande rispetto alle famiglie omogenitoriali? Diciamo che il dubbio più grande riguarda il fatto che un figlio (o una figlia naturalmente) cresciuti all’interno di una famiglia con genitori dello stesso sesso, non favorisca l’identificazione nel bimbo col genitore dello stesso sesso e possa farlo crescere in maniera non adeguata. Il dubbio tradotto in termini pratici è che da coppie omosessuali possano ‘svilupparsi’ figli omosessuali. Se questa teoria fosse vera, non si capirebbe come possano nascere figli omosessuali in coppie etero. Lo sviluppo dell’identità di genere è qualcosa di ben più complesso di genitori etero=figli etero e viceversa. E’ uno sviluppo che coinvolge la formazione dell’identità dell’individuo, che ha come figure di identificazione non solamente i suoi genitori ma anche altri significativi per il bambino stessoSarebbe riduttivo pensare che il bimbo sia emanazione dei soli genitori vivendo la famiglia stessa in un contesto sociale più ampio.

Un altro punto dolente dell’argomento ha a che fare col rapporto che genitori omosessuali hanno coi loro figli. La posizione più comune è quella di coloro che non vogliono la possibilità per coppie omosessuali di adottare dei bambini. Ma come ci si dovrebbe comportare con i figli naturali? Mi spiego meglio: una donna ha dei figli con un uomo, suo marito. Dopo alcuni anni di matrimonio la coppia ha problemi. Si separano e la donna va a convivere con quella che diventa a tutti gli effetti la sua compagna. Quale sarebbe la posizione di coloro che non possono tollerare l’idea dell’omogenitorialità? Si dovrebbero portare via i figli alla donna? Affidarli al padre? O comunque bisognerebbe garantire il legame col genitore biologico per quanto abbia uno stile di vita ostracizzato a livello legislativo? E’ una questione che non sembra mai interessare coloro che si occupano di questo argomento. Credo che una delle prime cose che dovremmo fare a questo punto è quello di cercare di ridefinire il concetto stesso di genitorialità. Stante tutte le molteplici forme attraverso cui si può organizzare una famiglia, che cosa rende due persone due genitori? Vi riporto il passaggio di un testo per me molto esplicativo sulla questione: in questo senso il concetto stesso di genitorialità viene ridefinito. La funzione genitoriale non può più essere riduttivamente ricondotta ai legami di sangue (cosa che non si riscontra nelle famiglie con figli adottivi), alla presenza di entrambi i genitori (cosa che non pertiene nelle famiglie monogenitoriali) o alla presenza di un unico nucleo accudente (cosa che non avviene, ad esempio, nelle famiglie ricomposte). Una genitorialità funzionale basata sui processi più che sulle strutture, allora, dipende dalla capacità dei genitori di proteggere i figli in modo stimolante, insegnare loro il limite senza soverchiare, favorire l’autonomia nell’interdipendenza e affrontare i conflitti in modo cooperativo (Fruggeri, 2005). [1]

– Continua –

[1] Chiari, C., Borghi, L. (2009), Psicologia dell’omosessualità, Carocci, Roma, pag. 110

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La ricetta della felicità sta nell’agire?

La ricetta della felicità sta nell'agireNel post di oggi vorrei segnalarvi un articolo di Repubblica nel quale si riportano i risultati di diversi studi circa la ricetta giusta per la felicità. Ovviamente non si parla di un metodo per trovare la felicità quanto sulla possibilità che muoversi, darsi da fare, possa avere delle implicazioni circa la propria percezione di essere felici. Sarebbe una sorta di capovolgimento rispetto all’idea che basti pensare positivo per essere tali! Nell’articolo si accennano a diversi studi compiuti da diversi psicologi, che cercarono di tracciare quali potevano essere le caratteristiche personali che potevano far si che una persona realizzasse i suoi obiettivi (e fosse, per questo, felice). I diversi studi che vengono riportati andrebbero verso una direzione comune: bisognerebbe agire per raggiungere dei risultati percepiti come positivi. Probabilmente la possibilità di agire ha a che fare con il sentirsi attivi e non in balìa di evenienze sulle quali non possiamo fare nulla e che ci fanno sentire impotenti. Credo che più che una questione di agire, sia una questione di riuscire ad accompagnare testa e azione. Che senso avrebbe sennò agire senza che il pensiero accompagni quello che stiamo facendo? Il fatto di sentirsi in grado di muoversi e di raggiungere gli obietti che ci si è prefissati non può che far stare bene, anche solo per il fatto di non farci percepire l’immobilità rispetto ad un obiettivo che ci sta a cuore. Risulta, forse, precipitosa una distinzione tra pensare ed agire, dal momento che ognuna si riverbera nell’altra. Se agiamo e otteniamo risultati, stiamo meglio e questo rinforza il nostro muoverci. Se, viceversa, agiamo e non otteniamo nulla, stiamo male e forse non  più propensi a muoverci. 

All’interno dell’articolo del quale vi ho postato il link, si trova anche il collegamento con un altro articolo, sempre di Repubblica, che fa il punto su quali caratteristiche debba avere un piano per cercare di conquistare ciò che ci si è prefissi nella vita. Le caratteristiche sarebbero:

  1. concretezza (scegliere obiettivi che si è in grado di raggiungere),
  2. convinzione di farcela (se siamo i primi a non credere di potercela fare come si può sperare di centrare l’obiettivo?),
  3. realizzare un desiderio alla volta (cercando di capire quali sono le priorità o gli obiettivi più facilmente raggiungibili),
  4. non porre obiettivi lontani nel tempo (cercando di prefissare anche un ragionevole limite temporale per l’ottenimento di ciò che si vuole),
  5. trovare la giusta motivazione (naturalmente per cercare di ottenere ciò che vogliamo dovremo essere motivati ad ottenerlo!),
  6. organizzare le giornate ( di modo che l’obiettivo sia in parte strutturato in un tempo che permetta anche la pianificazione stessa del suo raggiungimento),
  7. l’ottimismo (ovvero la capacità di non lasciarsi abbattere dalle difficoltà che necessariamente si incontrano),
  8. non pensare al presente (cercare, cioè, di non fare un raffronto con la propria attuale realtà che può essere demotivante). Credo che questo elenco sia interessante soprattutto per la possibilità di dare una risposta concreta su come affrontare ed organizzare il ‘muoversi’. Non so se sia la ricetta della felicità. Probabilmente è solo la ricetta di una migliore organizzazione, pratica e cognitiva, sul come cercare di affrontare dei problemi.

Eccovi il link dell’articolo:

http://www.repubblica.it/scienze/2012/07/05/news/per_la_felicit_non_basta_pensare_positivo_servono_azioni_e_comportamenti_vincenti-38498506/?ref=HRERO-1

L’articolo è di Valeria Pini.

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio

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Quanto siamo emotivamente (inter)/(in) dipendenti?

Quanto siamo emotivamente (inter)(in) dipendentiLa riflessione che condivido oggi è nata da una osservazione che si può fare immediatamente e personalmente: provate a lasciare a casa il telefono e ditemi come vi siete sentiti tutto il giorno senza questo oggetto. Prima di arrivare alle conclusioni permettetemi una breve digressione sociologica. La premessa parte dal fatto che fino a non molto tempo fa, inizio del secolo scorso tanto per dare delle coordinate temporali, il mondo era molto diverso da come lo consideriamo ‘normale’ oggi. Dovremmo anche tenere a mente che le persone vivevano all’interno di comunità che erano in qualche misura autonome rispetto a come le conosciamo adesso. Le persone, con poche eccezioni, nascevano e morivano nello stesso luogo e di solito la comunità era in grado di sostentarsi autonomamente. Anche le persone riflettevano questa autonomia. Molti erano in grado di costruire, fare o procacciarsi ciò che serviva per vivere. Se anche non si era in grado di fare tutto, al’interno della comunità esisteva qualcuno che poteva farlo per te rendendo la comunità di fatto indipendente. Anche le persone sviluppavano un senso di indipendenza potendo contare sulle proprie risorse piuttosto che su un infinità. Col cambiamento che coinvolse tutto il mondo occidentale, le cose cambiarono notevolmente. Si iniziò, con le varie rivoluzioni industriali, a diversificare funzioni e ruoli sopratutto dal punto di vista lavorativo e iniziò quella specializzazione del mondo del lavoro i cui frutti vediamo anche adesso. Abbiamo, infatti molti lavori che sono di assoluta specialità (anche il mio lo è!) e che prevedono delle figure formate ad hoc per svolgere determinate funzioni. Ovviamente, più una persona si specializza in un determinato settore, più diventa difficile che sappia fare delle cose che non ha appreso in quel determinato ambito. Questo fa si, necessariamente che quella persona dipenda da altre persone per soddisfare altri bisogni. Non si saprà costruire una casa (e ne dovrà comprare una da chi la costruisce per lui!), non si saprà procacciare il cibo (e lo dovrà reperire da che si occupa di allevarlo/coltivarlo per lui, glielo porti a casa e così via!) ecc. Quale sono le conseguenze di questo processo? Quella forse più evidente è la totale interdipendenza l’uno dall’altro, l’impossibilità che ognuno di noi possa sentirsi in grado di pensare autonomamente la propria vita.

E veniamo al punto. O meglio torniamo all’inizio. Questa continua interdipendenza ha figliato, e non poteva essere altrimenti, anche nella nostra psiche, andando ad intaccare il senso della nostra capacità di non dipendere dagli altri. Mi spiego meglio. Quando entriamo nel versante emotivo questo sentimento di dipendenza diventa sempre più costoso e pesante da reggere. Se prima si aveva a che fare col semplice nucleo familiare o con la comunità nella quale si viveva, ora, con i mezzi tecnologici a nostra disposizione, questo senso di dipendenza è legato a centinaia (se non migliaia) di persone con le quali interagiamo in maniera virtuale ma le cui conseguenze possono ben essere annoverate come reali. E un’altra conseguenza della quale dovremmo necessariamente tenere conto riguarda il possibile senso di esclusione che una persona può provare nel non sentirsi ricompresa o accettata all’interno di queste comunità virtuali più ampie. Il costo di questo continuo legame virtuale è molto pesante da sopportare. Ormai non prendiamo neanche più in considerazione l’ipotesi di non poter essere rintracciati in qualunque posto o a qualunque ora. Siamo formalmente legati a chi ci cerca con qualunque mezzo lo faccia. Attenzione, non sto demonizzando il mezzo del quale, d’altronde, anche io mi servo in abbondanza. Vorrei soltanto riflettere su quanto la nostra percezione di autonomia emotiva sia sempre più fragile nel momento in cui non sentiamo di poterci connettere con tutti gli altri. Che fine ha fatto la nostra indipendenza emotiva? Che fine ha fatto la capacità di percepirci autonomi? Appena ci succede qualcosa il primo impulso è quello di condividerlo. Non una brutta ragione, sicuramente, ma quanto siamo capaci ormai di godere di una cosa per noi stessi? 

Tornando all’inizio, so che alcuni di voi considerano del tutto improponibile l’esperimento di lasciare il telefono a casa. Se mi succede qualcosa come faccio? Se mi cerca qualcuno quando mi trova? Quali risorse in più avevamo quando questi mezzi non erano così presenti nelle nostre vite? Non sto pensando di tornare indietro quanto di guardare con attenzione ciò che facciamo controllando in continuazione il telefono. Forse non avremo gli ultimi aggiornamenti di Facebook. In compenso magari saremo in grado di gestire una giornata senza telefono, con noi stessi.

Sentendoci emotivamente più liberi?

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio

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Reparti oncologici a misura d’uomo…

Reparti oncologici a misura d'uomo...Vi riporto un articolo del Corriere della Sera che riguarda i possibili miglioramenti da attuare per favorire la degenza in strutture ospedaliere per coloro che si ammalano di tumore. Stiamo parlando di circa 300.000 persone in Italia che soffrirebbero, nel loro percorso terapeutico, di forme di ansia e di depressione. Senza contare il sistema di relazioni che risente necessariamente di questa condizione andando perciò a riflettersi sulle persone che stanno vicine alla persona.

Il progetto HUCARE (HUmanization of CAncer caRE) è un progetto pilota che cerca di migliorare la permanenza delle persone nei reparti oncologici, ha evidenziato cinque aree sulla quali dovrebbero concentrarsi gli sforzi di miglioramento:

  1. corsi di formazione alla comunicazione per tutto il personale (medici e infermieri);
  2. applicazione sistematica di un percorso informativo e di supporto per i tutti i nuovi pazienti;
  3. utilizzo di una lista di “domande-chiave” che i malati possono rivolgere all’oncologo perché dispongano delle informazioni necessarie sulla neoplasia e sulle migliori terapie disponibili;
  4. presenza di un “infermiere di riferimento” dedicato ad ogni nuovo malato che inizia una trattamento;
  5. rilevazione dello stato di ansia e depressione per tutti i malati grazie a un questionario ed eventuale consulenza psicologica (se indicata).

Quello che mi sembra rilevante, di questo progetto è il fatto che sembrerebbero necessarie più informazioni: per il personale e per i pazienti. Solo la consapevolezza di quello che sta succedendo loro può aiutarli a fronteggiare un male così impattante. C’è molto da lavorare. Ma, credo, queste iniziative sono degli ottimi inizi.

Come detto l’articolo è del Corriere della Sera, a firma di Vera Martinelli della Fondazione Veronesi.

Il link dell’articolo:

http://www.corriere.it/salute/sportello_cancro/11_ottobre_09/hucare-umanizzazione-ospedali-martinella_913d4ca0-f1c5-11e0-8be4-a71b6e0dfe47.shtml

Se volete saperne di più sul progetto, cliccando sulla parola

HUCARE

sarete direttamente reindirizzati sul sito dell’associazione.

A presto…

Fabrizio

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Animal kingdome

Animal kingdomeIl film che voglio raccontarvi oggi è un film che narra le vicende di una famiglia molto particolare. Si intitola Animal kingdome (2010) del regista David Michod. Il film racconta la storia di Joshua, detto “J” Cody. Il ragazzo, diciassettenne, perde la madre per un overdose e chiama la nonna materna ad occuparsi della situazione. La nonna lo porta in casa sua dove vive con gli altri tre suoi figli, zii di Joshua. L’unico particolare che vi aggiungo è che la famiglia sembra dedita alla criminalità per vivere e sembrano molto ambigui i rapporti tra i membri della famiglia stessa. La famiglia è organizzata all’interno di una confusione e di una ambiguità che colpiscono. Gli zii sembrano, infatti, sebbene tutti e tre adulti, ancora molto figli della signora e sembrano essere tutti in un rapporto di parità tra loro. Anche il rapporto tra la madre e figli sembra essere particolare, morboso. Per buona parte del film non viene spiegato dove sia il padre.

Vi riporto questo film perché credo possa rappresentare molto bene, ovviamente con un esito, quello criminale, che non sempre è scontato in situazioni di questo tipo, quanto possano essere problematiche quelle famiglie nella quale la confusività (comunicativa, relazionale, di ruoli, di funzioni) sembra pervadere tutti i livelli. Diverse scene contengono messaggi assolutamente incongruenti tra loro. Ho già accennato, per esempio, al fatto che questa famiglia sia dedita al crimine. In una scena assistiamo ad un diverbio molto acceso, sul fatto che dopo essere andato in bagno, uno degli zii non si sia lavato le mani. Quali regole funzionano? Solo quelle della famiglia stessa? In una scena successiva li vediamo mentre fumano all’interno di un locale pubblico. Sembra allora che questa famiglia abbia in qualche maniera costruito delle sue regole. E fin qui non ci sarebbe nulla di male dal momento che ogni sistema familiare è portatore di una sua visione e di sue regole. La discrepanza è rintracciabile nel momento in cui le regole della famiglia sembrano assolutamente slegate dal contesto nella quale la famiglia vive o, comunque, slegate dal contesto sociale generale. Questo provoca una sorta di autoreferenzialità assolutamente sconcertante. L’incongruenza di cui parlo viene accentuata da moltissimi episodi all’interno del film: i tre figli della donna si picchiano tra loro quasi fossero ragazzini e la madre li sgrida proprio come se fossero piccoli. Sembra una fotografia congelata di tempi ormai passati. Ma che per questa famiglia sono tragicamente il presente. Oppure le reazioni della donna, quando un amico dei tre viene ucciso dalla polizia. La madre cerca di consolare il figlio che piange proprio come farebbe se lui fosse un bambino.

Anche il racconto della donna su come la figlia (madre di J) sia uscita fuori dalla famiglia assume contorni particolari. La donna spiega come abbia lasciato la figlia per una regola non rispettata in un gioco a carte in cui i giocatori erano ubriachi. Lo racconta con una incongruenza totale tra il modo in cui il racconto avviene e il fatto in sé. Come se stesse parlando di  sciocchezze e non della sua stessa figlia. Questo sistema, nella sua autoreferenzialità, è del tutto isolato dall’esterno. Non solo hanno regole loro, ma nessuno di loro sembra avere una relazione con altre persone. Anzi, nel momento in cui l’esterno entra in casa, il sistema familiare si attiva affinché possa ben presto lasciarlo. Qualunque tentativo del mondo esterno di entrare viene bloccato. Naturalmente vale anche il contrario e viene bloccato nello stesso modo anche qualunque tentativo di uscire da questa famiglia. E in quest’ottica, quella di non poter uscire, di non poter avere autonomia, quel patto non scritto per cui o si sta dentro o si muore, che leggo anche la morte dell’unica figlia uscita di casa, la mamma di J. Perché non sopravvive? Perché estromessa dal suo clan? E la sua morte è forse il modo per far rientrare il figlio e ‘lavare’ così la colpa di essere uscita? 

E la fine è altrettanto tragica di quanto fin qui raccontato. La famiglia non salva e, anzi, porta J a legarsi, in qualche modo in maniera indissolubile con i suoi zii. Ripeto, è un film molto disturbante, violento. Può infastidire molto, quindi ne consiglio la visione solo se si tiene conto della tematica trattata. Credo sia un esempio, un pessimo esempio, di come il mancato confronto, l’interazione e la mediazione di regole, di prospettive diverse, possano portare alla follia di una visione che tutto giustifica e tutto consente. Anche se tutto questo ha come teatro e avviene per la propria famiglia.

A presto…
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Gli analfabeti delle emozioni

Gli analfabeti delle emozioniIl post è una riflessione che parte dal bellissimo brano che Umberto Galimberti, filosofo e psicanalista italiano, scrisse all’indomani dell’ennesimo caso di cronaca nera che vedeva, nella parte dell’assassino, giovanissimi. La riflessione parte da questo punto: qual è il mondo interiore di questi giovani? Eccovi il pezzo:

L’hanno trovata morta in un cascinale abbandonato, vicino alla sua abitazione. Ancora non sanno se il ragazzo che ieri notte ha confessato il delitto ha agito da solo o insieme ad altri, che per ora restano in quella cupa ombra dove la sessualità si mescola alla violenza, in quel cocktail micidiale che, a dosi massicce, la televisione quotidianamente distribuisce nell’indifferenza generale.

Quel che è certo è che una brava ragazza di 14 anni, che sabato scorso era uscita con le chiavi di casa e il suo cellulare, come fanno tutti i ragazzi della sua età, a casa non tornerà più. Ma come è fatto il mondo fuori casa?Non dico il mondo in generale, ma il mondo di questi ragazzi di cui ieri, in un lucido intervento su Repubblica, Marco Lodoli ha descritto il loro apparato cognitivo in questi termini: “I processi intellettivi più semplici, un’elementare operazione matematica, la comprensione di una favoletta, ma anche il resoconto di un pomeriggio passato con gli amici o della trama di un film, sono diventati compiti sovrumani di fronte ai quali gli adolescenti rimangono a bocca aperta, in silenzio. (…)”. Semplicemente non capiscono niente, non riescono a connettere i dati più elementari, a stabilire dei nessi anche minimi tra i fatti che accadono davanti a loro, che accadono a loro stessi”.

A questa diagnosi (che posso tranquillamente confermare perché questi stessi ragazzi li ascolto quattro o cinque anni dopo, un po’ più evoluti ma non tanto, all’università) resta solo da aggiungere che carenti non sono solo i nessi “cognitivi”, verbalizzati con un linguaggio che più povero non si può immaginare, ma anche quelli “emotivi”, per cui viene da chiedersi se questi ragazzi dispongono ancora di una psiche capace di elaborare i conflitti e, grazie a questa elaborazione, in grado di trattenersi dal gesto. Esiste nella nostra attuale cultura e nelle nostre pratiche di vita un’educazione emotiva che consenta loro di mettere in contatto e quindi di conoscere i loro sentimenti, le loro passioni, la qualità della loro sessualità e i moti della loro aggressività? Oppure il mondo emotivo vive dentro di loro a loro insaputa, come un ospite sconosciuto a cui non sanno dare neppure un nome? Se così fosse, di fatti simili a questa tragedia avvenuta nel Bresciano aspettiamocene molti, perché è difficile pensare di poter governare la propria vita senza un’adeguata conoscenza di sé. E qui non alludo alla conoscenza postuma che in età adolescenziale o in età adulta porta qualcuno dallo psicoterapeuta a cercare l’anima o direttamente in farmacia nel tentativo di sedarla; ma faccio riferimento a quell’educazione dei sentimenti, delle emozioni, degli entusiasmi, delle paure, che mette al riparo da quell’indifferenza emotiva, oggi sempre più diffusa, per effetto della quale non si ha risonanza emozionale di fronte ai fatti a cui si assiste o ai gesti che si compiono. E chi non sa sillabare l’alfabeto emotivo, chi ha lasciato disseccare le radici del cuore, si muove nel mondo pervaso da un timore inaffidabile e quindi con una vigilanza aggressiva spesso non disgiunta da spunti paranoici che inducono a percepire il prossimo innanzitutto come un potenziale nemico.

E tutto ciò perché? Perché manca un’educazione emotiva: dapprima in famiglia, dove i giovanissimi trascorrono il loro tempo in quella tranquilla solitudine con le chiavi di casa in tasca e la televisione come baby sitter, e poi a scuola, quando ascoltano parole che fanno riferimento a una cultura che, per esser tale, non può che esser distante mille miglia da ciò che la televisione ha loro offerto come base di reazione emozionale. Oggi l’educazione emotiva è lasciata al caso e tutti gli studi e le statistiche concordano nel segnalare la tendenza, nell’attuale generazione, ad avere un maggior numero di problemi emozionali rispetto a quelle precedenti. E questo perché oggi i giovanissimi sono più soli e più depressi, più rabbiosi e ribelli, più nervosi e impulsivi, più aggressivi e quindi impreparati alla vita, perché privi di quegli strumenti emotivi indispensabili per dare avvio a quei comportamenti quali l’autoconsapevolezza, l’autocontrollo, l’empatia, senza i quali saranno sì capaci di parlare, ma non di ascoltare, di risolvere i conflitti, di cooperare. Se la scuola non è sempre all’altezza dell’educazione emotiva, che prevede, oltre a una maturazione intellettuale, anche una maturazione psicologica, l’ultima chance potrebbe offrirla la società se i suoi valori non fossero solo business, successo, denaro, immagine, ma anche qualche straccio di solidarietà, relazione, comunicazione, aiuto reciproco, che possano temperare il carattere asociale che, nella nostra cultura, caratterizza sempre di più il mondo giovanile. Nel deserto della comunicazione emotiva che da piccoli non è loro arrivata, da adolescenti non hanno incontrato, e nelle prossimità dell’età adulta hanno imparato a controllare, fa la sua comparsa il “gesto”, soprattutto quello violento, che prende il posto di tutte le parole che questi ragazzi non hanno scambiato né con gli altri per istintiva diffidenza, né con se stessi per afasia emotiva.

Si tratta di gesti che mettono in crisi la giustizia e, con la giustizia, la società che per tranquillizzarsi è sempre alla ricerca di un movente. E il movente in effetti non c’è, o se c’è è insufficiente, comunque sproporzionato alla tragedia, persino ignoto agli stessi autori. Cercarlo ci porta lontano, tanto lontano quanto può esserlo l’avvio della nostra vita, dove ci è stato insegnato tutto, ma non come “mettere in contatto” il cuore con la nostra mente, e la nostra mente con il nostro comportamento, e il comportamento con il riverbero emotivo che gli eventi del mondo incidono nel nostro cuore. Queste “connessioni”, che fanno di un uomo un uomo, non si sono costituite, e perciò sono nate biografie capaci di gesti tra loro a tal punto slegati, da non percepirli neppure come propri. Questo è il nostro tempo, il tempo che registra il fallimento della comunicazione emotiva e quindi la formazione del cuore come organo che prima di ragionare, ci fa “sentire” che cosa è giusto e che cosa non è giusto, chi sono io e che ci faccio al mondo.

UMBERTO GALIMBERTI, Gli analfabeti delle emozioni, La Repubblica, 5 ottobre 2002.

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio

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I neuroni-specchio…

I neuroni-specchio...Il post di oggi riguarda un interessante articolo del Corriere della Sera che ha come tema i cosiddetti neuroni-specchio. Per chi non lo sapesse, i neuroni-specchio sono dei neuroni che si attivano sia quando un soggetto compie direttamente l’azione, sia quando l’azione viene osservata nel momento in cui viene compiuta da altri. Chiaramente la rispondenza sarà maggiore se si osservano individui della stessa specie dell’osservatore. Questo è ciò che spiega il nome neuroni specchio: essi sarebbero appunto degli specchi (neuronali in questo caso) nel quale si riflette l’azione degli altri. In altri termini possiamo dire che è come se i neuroni dell’osservatore rispecchiassero ciò che avviene nella mente del soggetto osservato, come se fosse l’osservatore stesso a compiere l’azione.

A cosa servirebbero questi neuroni? Qual è lo scopo di ‘imitare’ a livello neuronale un’altra persona? Il fatto è che questo tipo di neuroni sarebbe fondamentale per il comportamento empatico e alla base dei processi di apprendimento dei comportamenti cosiddetti specie-specifici. Il comportamento empatico, la capacità cioè di avvicinarsi emotivamente ad un’altra persona e sentire di poter provare ciò che l’altra persona sta provando, sarebbero appunto regolati da questi neuroni che permetterebbero, tramite il rispecchiarsi delle funzioni neuronali dell’altro, di sentire effettivamente ciò che l’altro sta provando in quel determinato momento. Il discorso è molto complesso, e ancora oggetto di studio, anche se le evidenze sembrano propendere per questo tipo di ipotesi.

Tornerò più avanti con dei post su questo argomento specifico. L’articolo, introduttivo al tema, come vi dicevo, è del Corriere della Sera. Sotto potete trovare il link all’articolo. Una volta che aprite il link sul sito del Corriere, vi consiglio anche di guardare il video.

http://www.corriere.it/salute/11_settembre_12/video-neuroni-specchio_83dbefb4-da35-11e0-89f9-582afdf2c611.shtml

A presto…

Fabrizio

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Perché sembra che i ragazzi ‘peggiorino’ nelle scuole medie? (2)

Perché sembra che i ragazzi 'peggiorino' nelle scuole medie (2)Torniamo sul tema introdotto dal post Perché sembra che i ragazzi ‘peggiorino’ nelle scuole medie? (1) (per rileggerlo potete cliccare sul titolo in arancione) L’autrice parla di senso di inadeguatezza dovuto al cambiamento scolastico ma credo non sia errato pensare che questo senso di inadeguatezza sia più ampio è abbia a che fare con la generale inadeguatezza che si inizia a percepire in quella fase della nostra vita, sia a livello di preparazione ma anche e soprattutto con le inadeguatezze a livello prepuberale (si inizia a non essere più bambini ma neanche adulti), a livello di relazioni (non si possono più fare certi giochi, soprattutto tra maschi e femmine perché non più ‘adeguati’).

Insomma tutta una serie di manchevolezze che possono pesare nel momento di massimo cambiamento del soggetto interessato. Aggiungiamo a questo il fatto che i ragazzi spesso non hanno una grande capacità di lettura di quello che sta succedendo, non capiscono perché non possano continuare a fare ciò che , fino a poco tempo prima, era autorizzato e tollerato nel mondo degli adulti. Tutto questo è disorientante non solo per il ragazzo ma anche per le figure che gli stanno intorno: i genitori spesso si trovano spiazzati dal cambiamento del proprio figlio e non sembrano in grado di ‘fronteggiare’ tutto ciò che il mutamento stesso comporta. Anche gli insegnanti si trovano a fronteggiare una delle situazioni più tipiche senza avere il  tempo né la disponibilità per stare attenti alle singole esigenze dei ragazzi. Questo porta ad una contrapposizione spesso frontale tra i genitori e la scuola: i primi, frustrati dal peggioramento, e in considerazione di come andasse bene il figlio alle elementari, attribuiscono alla nuova scuola il ‘merito’ del peggioramento del figlio per una serie di ragioni ( personale non preparato, scarsa offerta formativa, poca motivazione degli insegnanti ecc); gli insegnanti, all’ennesima massa di ragazzi chiassosi, si lamentano che ormai nessun ragazzo sembra in grado di arrivare con una famiglia alle spalle che possa dargli quel contenimento che spesso viene demandato alla scuola stessa. Nel mezzo di tutto questo stanno i ragazzi, disorientati dall’ennesima doppia lettura (colpa della scuola o della famiglia?) che non permette in un nuovo ambito di capire cosa stia succedendo. 

Quali sono le soluzioni per affrontare tutto questo? L’autrice cita i diversi attori in gioco: per i ragazzi sarebbe utile cercare di imparare a stare sul senso di inadeguatezza che l’età inevitabilmente comporta. Non pretendere che tutto questo sparisca e ‘vada via’ senza lasciar traccia, quanto cercare di comprendere come questo periodo possa essere fondamentale nello sviluppo della persona adulta che un giorno quel ragazzo diventerà. Per gli insegnanti sarebbe necessario, tenuto conto delle effettive e pratiche difficoltà, cercare di prestare il massimo dell’attenzione per ciò che quei giovani adulti stanno cercando di comunicare all’interno del contesto scolastico stesso. Per i genitori iniziare a pensare che quello che si ha davanti non è la semplice ’emanazione’ di ciò che sono i genitori, ma una persona che inizia ad essere indipendente, autonomo, una persona con la quale, pian piano, cercare di relazionasi su basi nuove che ci vedano inevitabilmente coinvolti ma che permettano all’adulto che si trova nei nostri figli di poter emergere. 

Per tutti e tre gli attori in gioco dovrebbe valere la consapevolezza di quanto la realtà della quale stiamo parlando sia multisfaccettata e complessa e di quanto eccessive ipersemplificazioni (è colpa della scuola, è colpa degli insegnanti…) lungi dall’aiutare la ricerca di una soluzione, finiscano con il deresponsabilizzare le scelte che ognuno di noi porta avanti e di attribuire la causa di ciò che succede essenzialmente a ciò che fa l’altro. Solo cercando di capire il nostro ruolo e la nostra posizione all’interno della realtà possiamo essere d’aiuto nello stabilire un modus che riesca a portare alla comprensione della situazione stessa. Sono consapevole che non sia facile, ma credo sia necessaria questa presa di coscienza rispetto ad una delle realtà che viene percepita come tra le più problematiche all’interno della nostra società.

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio 

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