Devo dire ai miei figli che mi voglio separare?

Devo dire ai miei figli che mi voglio separareLavoro spesso con adolescenti e con i loro genitori e capita che questi ultimi mi chiedano quale sia il modo migliore per affrontare una separazione. Ho notato come uno degli orientamenti più diffusi sia quello di cercare di nascondere il più possibile ciò che sta avvenendo in casa, convinti che questo sia il modo migliore per preservare la tranquillità dei figli da ciò che sta accadendo. Pur trovandolo un atteggiamento molto comprensibile da parte di genitori che sono già disorientati per quello che accade nella coppia genitoriale e non vogliono ‘infliggere’ le loro pene anche ai figli, ritenuti incolpevoli di ciò che sta avvenendo, non lo ritengo il modo più adatto per fronteggiare la situazione per diversi motivi:

  • presuppone che i figli non si accorgano di nulla; questa visione adultocentrica ipotizza che i ragazzi siano come del tutto inconsapevoli di ciò che li circonda e non siano in grado di accorgersi di ciò che avviene intorno a loro;
  • dal punto precedente deriva anche il pensiero che non possano comprendere ciò che sta succedendo, che tenerli fuori non possa che semplificare il problema e che, se dovessero venirlo a sapere, accrescerebbero ancora di più la problematicità della situazione;
  • si crea una sorta di autorizzazione alla menzogna emotiva, sostenendo una situazione che disorienta ulteriormente i ragazzi per la discrepanza tra ciò che viene mostrato e ciò che viene percepito in famiglia.

Ripeto: pur comprendendone le ragioni, trovo che questo modo di affrontare la situazione possa essere ancora più complesso da gestire. A maggior ragione se si parla di coppie con figli preadolescenti o adolescenti. A conferma di questa tesi, vi riporto il passo di un libro che, per l’appunto, si occupa del tema se sia meglio parlare di ciò che avviene in casa oppure cercare di mantenere un’impressione di unità nella famiglia: 

Sono davvero numerosi i casi in cui i due coniugi fingono di mantenere un alone di normalità all’interno della propria vita di coppia, illudendosi in tal modo di proteggere i figli. (…) a volte si scopre il tradimento di un coniuge, a volte entrambi si impegnano in relazioni extra coniugali mantenendo una vita comune sotto lo stesso tetto che è solo di facciata, spesso motivato dal fatto che ci sono figli.

A volte, invece, si resta sotto lo stesso tetto senza però conservare l’apparenza che tutto va bene. Così ogni giorno in casa scoppiano liti furibonde, di fronte agli stessi figli per i quali si decide comunque di non separarsi. È necessario che coppie così in crisi abbiano un supporto per fare chiarezza interiore. È naturale che a un figlio serva avere a disposizione un padre e una madre che vivono con lui sotto lo stesso tetto, ma tutto ciò deve anche prevedere un’unione sincera, intima e profonda tra i due coniugi. Se tale condizione non esiste, allora è bene che i due genitori comprendano le molte implicazioni emotive nelle quali i figli si trovano spesso intrappolati. Obbligare i figli a partecipare alla messinscena di una famiglia che sta insieme per convenienza, per routine oppure per evitare di affrontare la fatica di una crisi e di una separazione, significa imbastire la quotidianità sull’ordito della simulazione, della falsità, della verosimiglianza. E questo accade in un momento della vita dei figli in cui loro hanno soprattutto bisogno di verità, lealtà, sostanza e non forma. I figli di genitori che simulano sono spesso infastiditi  e arrabbiati dal ‘teatro’ al quale si trovano, loro malgrado, a fare da comprimari. È frequente sentir dire dalla voce di un adolescente: ‘molto meglio vivere con due genitori separati, piuttosto che partecipare alla messa in scena dei miei’. E la situazione si complica ulteriormente se i figli hanno il sospetto che i loro genitori abbiano avviato storie sentimentali parallele, condotte nella clandestinità. Proprio nel momento in cui devono investire sogni ed energie nella ricerca di un amore bello prezioso (…) si trovano tutti giorni a dover fare i conti con quello che resta della storia d’amore dei loro genitori. 
Insomma, è un bene che due genitori in crisi riflettano profondamente non solo su quello che sta succedendo alla loro coppia, ma anche sull’impatto che ciò comporta nel mondo dei pensieri e delle emozioni dei loro figli. A volte può succedere che l’unica via d’uscita consista proprio nel progettare una separazione che, pur tra gli innumerevoli problemi che implica nella vita di una famiglia, offre due innegabili vantaggi:
 
• anche affrontando una separazione, due genitori possono aiutare i figli a capire che l’amore è un valore troppo importante da difendere e che non può essere mascherato o sostituito con altro. Se si ha la certezza che una storia è finita, l’unico modo per difendere l’amore è smettere di confonderlo con ciò che non è;
 
• una separazione evita ai figli di convivere con madri e padri che spesso usano la relazione con loro come piattaforma sulla quale far convergere, invece, la loro incapacità di volersi bene. Un uomo e una donna che si separano devono avere chiaro che il loro impegno educativo dovrà farsi ancora più totale e coinvolto e che, mai e poi mai, il loro conflitto dovrà utilizzare l’educazione dei figli come campo di battaglia sul quale, invece, dovrà essere ricercato il massimo accordo possibile. [1]
 
Questo post è scritto pensando ad una coppia con figli adolescenti ma credo sia adatto anche a coppie che hanno figli più piccoli. La differenza potranno farla i genitori che si troveranno a dover calibrare al meglio possibile, in relazione all’età, alla personalità, alla sensibilità del proprio figlio, il modo con cui comunicare quello che sta accadendo. L’intento di questo passaggio non è quello di edulcorare la situazione, né di rende la realtà meno complessa da affrontare. Stabilisce semplicemente che la comunicazione possa avvenire anche sui cambiamenti dolorosi e traumatici che la famiglia si trova a dover vivere, e che questi passaggi non siano silenziati ma esplicitati e condivisi.
 
 
Come sempre chi volesse/potesse condividere la sua esperienza può farlo contattandomi per mail (fabrizioboninu@gmail.com) oppure per telefono (3920008369).
 

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

[1] Pellai, A. (2012), Questa casa non è un albergo, Feltrinelli, Milano, pp. 95-96 

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Imparare dagli adolescenti

Imparare dagli adolescentiQuante volte abbiamo pensate di insegnare qualcosa ad un adolescente? Quante volte abbiamo pensato, dall’alto della nostra esperienza, a cosa avremmo potuto modificare del suo comportamento? Quante volte abbiamo pensato che solo l’inesperienza gli facesse dire (o fare) determinate cose? Probabilmente tante volte. Quante volte invece abbiamo pensato a cosa possiamo imparare da loro? Probabilmente poche se non nessuna volta. D’altronde cosa potrebbe insegnarci qualcuno che sta appena affacciandosi nel mondo degli adulti? 

Lavorando con molti adolescenti mi sono reso conto che spesso, automaticamente e inconsciamente, ci mettiamo dalla parte di coloro che devono insegnare, devono ‘far vedere’, devono mostrare il modo con cui ‘fare bene’ le cose. Poche volte, invece, succede l’esatto contrario, il momento in cui cioè ci mettiamo dall’altra parte, dalla parte di coloro che, invece, possono e hanno qualcosa da imparare da loro. Credo che questo ‘sovvertimento’ sia benefico e molto importante per entrambe la parti: innanzitutto l’adulto che non sale in cattedra sta implicitamente rimarcando come ci sia sempre da imparare e che, neanche diventati grandi, sia esaurita quella possibilità di migliorarsi che abbiamo lungo tutta la nostra vita. Questa possibilità potrebbe essere l’esempio che fa da contraltare all’estremismo delle posizioni che da sempre viene considerata come una delle più grandi ‘pecche’ dell’adolescenza. Ancora, il permettersi di poter imparare toglie quell’aura di sacralità per ciò che l’adulto dice, facendo emergere un’area di possibilità molto più consona a persone che si stanno confrontando. Questa posizione è molto importante perché permette di superare lo stereotipo ‘adulto=esperto’. Inoltre credo che il mettersi in discussione, nel confronto con l’altro, sia sempre un bene perché permette di interiorizzare un atteggiamento critico nei confronti di se stessi che impedisce di sentirsi e comportarsi come guru.

In cosa, invece, mostrare quanto possiamo imparare da loro permette una reale crescita dell’adolescente? Il passo del testo che vi riporto descrive molto bene ciò che può succedere:

Mostrare che possiamo imparare da loro ha almeno tre funzioni. Innanzitutto li rende consapevoli che hanno un contributo valido da dare. Questo accresce la loro autostima e soddisfa il loro desiderio di dare qualcosa in cambio di tutto ciò che hanno ricevuto. In secondo luogo serve a far capire loro, con l’esempio, che non si è mai finito di imparare, che si possono sempre rinnovare ed ampliare le proprie conoscenze. Questo dovrebbe favorire un atteggiamento aperto e curioso verso il mondo. In terzo luogo, in un momento in cui stanno facendo un balzo in avanti, li rassicura che i genitori non sono statici, ancorati per sempre nello stesso posto. Alcuni adolescenti vivono con un senso di colpa questo loro sviluppo che li porta a farsi carico di se stessi. Possono preoccuparsi che i genitori siano gelosi o che manchino di vitalità, come se fossero improvvisamente molto vecchi e rischiassero di essere lasciati indietro. La loro capacità di cambiare e di crescere dà ai figli il via per continuare liberamente nel proprio sviluppo. Rifiutando i genitori o cambiando la percezione che hanno delle loro qualità, gli adolescenti provano un senso di perdita, di tristezza perché non possono più fare riferimento a loro. Può succedere che per un certo periodo di tempo si sentano persi e vuoti. Anche la loro autostima ne risente. Se ciò che si è cercato di emulare non appare più così positivo, ci si sente sminuiti. La maggior parte dei ragazzi superano questa fase e riescono a vedere i genitori per quello che sono, con i lati buoni e i lati cattivi. È la battaglia con l’ambivalenza, che continuerà per tutta la vita. [1]

Quest’ultimo passaggio descrive, secondo me, molto bene quello che succede all’interno della famiglia mentre si assiste alla crescita dei membri. E’ come se l’adolescente, col suo rapido mutamento e con la sua crescita mettesse tutti i membri di fronte all’ineluttabilità del tempo che passa. Con tutto ciò che questo passare comporta.

In conclusione, tornando al punto, da adulto penso sia molto più fruttuoso e produttivo, benché spesso non sempre facile, cercare di confrontarsi con l’altro piuttosto che salire in cattedra e dare lezioni di vita. Anche, e forse soprattutto, se l’altro è ‘solo’ un adolescente.

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

[1] Phillips, A. (2003), I no che aiutano a crescere, Feltrinelli, Milano

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Adolescenti e adulti competenti: la risposta di una mamma

Adolescenti e adulti competenti la risposta di una mammaSicuramente ricorderete l’articolo di qualche tempo fa Adolescenti e adulti competenti (clicca qui per andare direttamente all’articolo). In esso si parlava della possibilità che preadolescenti e adolescenti potessero eleggere  degli adulti competenti tra quelli conosciuti e che questi adulti potessero dimostrarsi fondamentali nella crescita e come esempio per i ragazzi stessi. Naturalmente l’essere competenti non è dato semplicemente dall’essere scelti, quanto da una serie di competenze e attenzioni (la capacità di ascolto, l’assenza di giudizio, il non essere ‘cattedratici’, l’empatia ecc) che l’adulto stesso deve poter dimostrare di possedere e tramite le quali riesca a relazionarsi. Devo aver toccato un tasto dolente, con quell’articolo perché ho ricevuto diversi riscontri circa quello che ho scritto. Uno in particolare, la lettera di una mamma, mi ha colpito e volevo riportarvele integralmente:

Gentile Dott. Boninu,
Da mamma, e quindi prima educatrice dei miei figli, ho letto con profondo interesse l’articolo “Adolescenti e adulti competenti”. La ringrazio per il professionale apporto in materia di educazione, in un campo di cui tanto si scrive e si dice, ma nella realtà i disagi dei giovani vengono per la maggiore addebitati, come una colpa, ai giovani stessi. Tanto basta per deresponsabilizzarci e autoassolverci. Vorrei dire anch’io la mia, esprimendo con semplicità le mie considerazioni, il mio pensiero, sulla base delle tante esperienze di relazione con il mondo della scuola e con altri settori (anche in ambito di studi medici di pedagogia clinica). E’soprattutto come genitore che ho potuto verificare come i problemi di relazione e quindi di comprensione dei nostri figli siano principalmente riconducibili a due fattori: un’assenza di sinergia tra gli educatori coinvolti nel loro percorso di crescita, quindi uno scollegamento, una insufficiente comunicazione tra gli stessi adulti che giocano per loro i principali ruoli educativi. Da qui ne deriva, purtroppo, la scarsa credibilità di cui godono gli adulti da parte dei bambini e dei giovani in genere. Inoltre, ho spesso modo di verificare quanto gli educatori si diano da fare per adempiere ai loro doveri di protocollo, dimenticando l’universo emozionale dei diretti fruitori del loro servizio. Un preoccupante indirizzo di educazione monodirezionale sta prendendo sempre più piede, sulla base del fatto che si debba trattare tutti “allo stesso modo”, appiattendo e omologando delle personalità in formazione, lasciando pericolosamente inosservata la meravigliosa unicità che contraddistingue ogni essere umano. Sono convinta che il materiale in materia di buone strategie educative non manchi, a partire dalle stesse convenzioni internazionali che sanciscono i diritti del fanciullo. Basterebbe soltanto desiderare di conoscere i nostri bambini e ragazzi, di tacere, saper fare silenzio, mettersi in ascolto delle loro voci, delle loro passioni, occupare meno spazio e lasciare a loro quello indispensabile alla loro allegria e creatività, perché soltanto così possiamo conoscerli, e ci insegnerebbero loro ad essere dei bravi educatori, molto più che i manuali. Basterebbe essere molto, molto umani, prima che professionali. Saremmo, così, degli adulti più credibili, modelli umani per un mondo più umano e compatibile con il loro universo emozionale.
(…)
Michela

Come non essere colpiti dalla lucidità con la quale Michela centra il punto dell’argomento? Le questioni sono proprio queste: assenza di sinergia tra coloro i quali dei ragazzi si occupano (scuola, famiglia, sport,) e un forte disinteresse, per incapacità, per fretta, per superficialità, per il mondo emotivo dei ragazzi, spesso bollato come sciocco o inconcludente. A questo si aggiunga la citata capacità autoaasolutoria nel momento in cui, alle prime difficoltà nella relazione, attribuendo la responsabilità di quello che sta avvenendo all’altro e non riuscendo a capire quale sia il nostro ruolo in quella relazione, finiamo col non volercene più occupare. O pensare che siano ‘impazziti’ a causa dell’adolescenza stessa. Questa mail mi sembra particolarmente significativa, però, di un atteggiamento decisamente più consapevole, di come la coscienza di questo tipo di problematiche stia non solo aumentando ma anche necessariamente stimolando un confronto che, spero, possa portare alla riconsiderazione della costruzione delle relazioni con ragazzi/e adolescenti.

Credo che l’obiettivo debba necessariamente essere quello di recuperare la capacità critica di come ci confrontiamo coi ragazzi e di come possiamo migliorare il nostro contributo per costruire rapporti più apprezzabili da parte di entrambi gli attori in gioco. Solo percorrendo questa impervia strada, che comporta l’abbandono da parte degli adulti dell’idea deresponsabilizzante che noi non c’entriamo nulla ma che siano loro così ‘strani’, potremmo ambire sul serio al ruolo di adulti credibili, gruppo del quale, per le domande che porge, credo Michela sia un’ottima esponente.

Se qualche altro genitore potesse/volesse comunicare la sua esperienza è, naturalmente benvenuto.

A presto…

Fabrizio Boninu

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I no che aiutano (i genitori) a crescere (2)

I no che aiutano (i genitori) a crescere (2)L’autrice spiega questa incapacità ad assumere il ruolo genitoriale come una continua giovinezza che non permette ai genitori di collocarsi nella fascia adulta. Credo sia vero, soprattutto considerando il peso che la nostra società pone sempre più di frequente sul mito dell’eterna giovinezza, sull’abbaglio che si possa essere giovani per sempre. Nella società italiana vi è spesso poi la tendenza a rimanere figli anche in età adulta, e questo viversi figli rende ancora più complesso focalizzare le funzioni genitoriali nel momento in cui si diventa effettivamente genitori. I futuri genitori crescono quindi in una sorta di immaturità emotiva che, non permettendo loro di percepirsi appieno come adulti, non lascia loro spazio per costruire ed interiorizzare un’immagine di se stessi come genitori. Questa può essere una delle cause per cui poi si assiste ad un continuo oscillare tra posizioni amicali e posizioni genitoriali che spesso non ha altra conseguenza se non quella di disorientare i figli.

Il rischio è che i figli si trovino appunto a dover fare i conti con genitori non del tutto consapevoli del ruolo che ricoprono e che i genitori non siano in grado di assumere gli aspetti più problematici (i no appunto!) e non si trovino a dovere marcare una funzione, quella genitoriale, con la quale, abbiamo visto in precedenza, si ha spesso difficoltà ad interagire proprio perché segna inesorabilmente il nostro passaggio nell’età adulta. Si dice spesso che i genitori crescano con i figli: credo avvenga proprio in questo movimento: le continue richieste dei figli obbligano un genitore a prendere posizione rispetto al proprio ruolo. E abbiamo già delineato come la non accettazione del proprio ruolo adulto di guida possa, non essendo stato riconosciuto ed accettato, creare problemi al genitore stesso che si trova nella condizione di non saper fronteggiare queste richieste. Nella crescita è soprattutto l’adolescenza il periodo che più influisce su questo equilibrio perché muta i rapporti all’interno della famiglia. Le dinamiche diventano più complesse perché alla crescita dei figli corrisponde la marcatura del ruolo adulto dei genitori stessi che si trovano dunque a dover accettare de facto una condizione per cui spesso non si sentono pronti. Il rischio è che nascano conflitti e che si esacerbino proprio nel momento in cui lo scontro generazionale è più esplicito.

In questo fase dovrebbe giocare un ruolo fondamentale la presenza genitoriale, perché contenitiva rispetto alle tensioni che questo momento vitale comporta nella vita delle famiglie. Un ‘buon’ genitore è il genitore che, consapevole del ruolo che ricopre per il proprio figlio, è in grado di accollarsi gli onori e gli oneri della sua posizione, riuscendo a creare una relazione con il proprio figlio senza che questo comporti l’annullamento della distanza generazione o funzionale all’interno della famiglia stessa. Un genitore che fa il compagno grande del figlio probabilmente non dovrà fare i conti con la messa in discussione da parte del figlio adolescente ma altrettanto probabilmente non sarà riuscito ad assolvere in pieno alla sua funzione genitoriale. 

L’importanza dell’adulto risiede proprio nel suo compito di ‘traduttore’ della realtà, di ‘potenziatore’ di soluzioni alternative, di ‘sostegno’ emotivo, oltre che cognitivo, alla capacità di prendere decisioni: azioni fondamentali per affrontare compiti evolutivi richiesti dalla crescita! [1]

In conclusione ci è stato detto in un famoso libro quanto i no aiutino i figli a crescere [2]. Forse bisognerebbe iniziare a pensare quanto quegli stessi no aiutino a far crescere anche i genitori di quei figli.

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

[1] Rosci, M. (2010), Scuola: istruzioni per l’uso, GiuntiDemetra, Firenze, pag. 96

[2] Phillips, A. (2003), I no che aiutano a crescere, Feltrinelli, Milano 

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I no che aiutano (i genitori) a crescere (1)

I no che aiutano (i genitori) a crescere (1)A quale genitore non è mai capito di dover dire ‘no’ al proprio figlio? Il post di oggi cerca di occuparsi proprio di questo: quanto sia difficile per un genitore dire di no, ma da un punto di vista diverso: quanto i no costino al genitore stesso. Questo è uno dei temi più dibattuti ultimamente riguardo l’educazione dei propri figli. Quando un genitore deve dire di no? L’argomento, come dicevo, è dibattuto da tempo perché è uno degli interrogativi su cui ci si interroga di più: è necessario dire qualche volta di no o è meglio accogliere le richieste dei figli? Diverse le tendenze: da una parte coloro che si prodigano per l’accettazione incondizionata di qualunque richiesta da parte dei figli, dall’altra coloro che invece ritengono che i genitori debbano mantenere una sorta di ‘distacco genitoriale’ rispetto ai figli. Naturalmente, come in tutti gli estremi, la soluzione potrebbe trovarsi nella mediazione ed è forse necessario cercare di considerare quella che è l’utilità di alcuni no e l’utilità di alcuni si. Il tema di questo post però voleva focalizzarsi non tanto sulla capacità dei genitori di accogliere le richieste dei figli quanto sulla capacità o meno dei genitori di riuscire a farlo.

In altre parole l‘argomento vuole essere non tanto un ragionamento sui diversi stili di educazione che i genitori possono assumere nei confronti dei figli, quanto piuttosto quella che appare spesso come un’incapacità di accettare il proprio ruolo da parte dei genitori stessi. Essere genitori significa spesso anche sobbarcarsi le parti ‘spiacevoli’ che la posizione comporta. Molti genitori ritengono invece di poter ovviare alla complessità del proprio ruolo semplicemente diventando amici dei loro figli e non si preoccupano quindi di quelle che possono essere le conseguenze di quello che dicono loro. Non sembrano essere in grado dunque di prendere in considerazione quello che è il ruolo di responsabilità che l’essere genitore spesso comporta. Questo necessariamente significa prendere delle posizioni, che spesso possono essere scomode, e tenere ferme queste decisioni. Mantenere queste posizioni non è per niente facile ed è più semplice ovviare con una posizione intermedia (la posizione amicale) che però disorienta i ragazzi che, crescendo, hanno bisogno di un modello adulto al quale confrontandosi (avvicinandosi o allontanandosene) ma col quale comunque prendere le misure. Se questo modello è un surrogato della loro cerchia amicale come può avvenire un processo di crescita equilibrato? Svolgere un ruolo genitoriale significa spesso utilizzare dei no, no che definiscono delle regole, dei confini, degli equilibri che spesso si ha timore a mantenere

Vi riporto un brano del libro Scuola: istruzioni per l’uso che descrive bene quello che cerco di dirvi riguardo al ruolo genitoriale:

Chiedo ai genitori: perché un figlio non dovrebbe avere un tempo per giocare, un tempo per interrompere i giochi, un tempo per aiutare, un tempo per studiare, un tempo per andare a letto? Perché dovrebbe essere così pericoloso dire un ‘no’ senza chiedersi, allarmati, quale trauma si stia provocando? Ho l’impressione che l’adulto oggi sia più fragile, abbia un’eccessiva paura di sbagliare e rimandi ad altri la responsabilità di porre limiti. Il sentirsi tutti un po’ più giovani delle precedenti generazioni, il dimostrare meno anni di quelli che si hanno, per cui oggi a cinquant’anni se ne possono mostrare anche dieci di meno, rischia di farci assumere atteggiamenti mentali non consoni all’essere comunque adulti. Non mi interessa che abbiate ben chiaro cosa si vuole quando si è adolescenti: (…), nostro figlio ha bisogno di un genitore, non di un amico, o di un adulto che fa l’adolescente. Nel momento che diventiamo genitori, perdiamo il diritto a rimanere adolescenti spensierati, trasgressivi e senza confini. Questa è la condizione dei nostri figli. Loro si aspettano un adulto, certamente comprensivo, disposto al dialogo, all’ascolto, ma autorevole e stabile. Un modello con cui rapportarsi, da imitare in qualche momento e da combattere in altri. I figli non sono i nostri giocattoli, neppure cavie per vedere cosa vuol dire essere genitore! L’essere genitori è un’eccellente esperienza, un viaggio magnifico, una ricerca coinvolgente, una continua trasformazione anche per noi stessi per condividere le tappe evolutive dei nostri figli, ma accompagnandoli, in quanto persone adulte, contenendoli, indirizzandoli, ben convinti che non saranno (e non dovranno essere) le nostre copie e neppure la realizzazione dei nostri desideri! [1]

– Continua –

[1] Rosci, M. (2010), Scuola: istruzioni per l’uso, GiuntiDemetra, Firenze, pag. 168

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Adolescenti e adulti competenti

Adolescenti e adulti competentiSpesso sento dire che non è facile che gli adolescenti comunichino con gli adulti, che non si riesce a comprendere cosa vogliano, che dicano di volere qualcuno che li ascolti ma che non sembrino poi in grado di comunicare. Eppure, e ne parlo anche per esperienza diretta, spesso accade la ‘magia’ per la quale lo stesso adolescente che non comunica, che non ascolta, che non condivide, elegga un adulto conosciuto come tramite personale tra il suo mondo e l’altro, quello adulto, che consideri degne di attenzione le sue parole e presti ascolto ad esse. Come si spiega la ‘magia’? Cosa fa si che questo rapporto possa essere costruito? Vi riporto in merito il passo di un testo che descrive molto bene quello di cui sto parlando. Il libro è di Gustavo Pietropolli Charmet, psichiatra con grande esperienza col mondo adolescenziale. Nel testo si delinea la differenza di rapporto di ragazzi con adulti ‘qualsiasi’, ai quali stentano a riconoscere un ruolo e, dunque, li appiattiscono in un ‘tutto indifferente’, e adulti competenti, adulti coi quali entrano in relazione, si aprono condividendo le loro paure e le loro vite. Cosa fa di un adulto un adulto competente? Sostanzialmente la competenza è data dalla possibilità che gli adulti hanno di credere in quello che fanno, che siano in grado di mettersi in gioco e di relazionarsi con empatia all’altro. Nel brano, come vedrete, si fa riferimento agli insegnanti, ma credo che il discorso sia estensibile ad ogni tipo di categoria. Eccovi il brano:

Generalmente per gli adulti la spavalderia degli adolescenti fragili è intollerabile. Non riescono ad apprezzarla e a divertirsi alle loro gag, perché al fondo delle comunicazioni c’è una certa dose di implicita denigrazione. Gli adolescenti di oggi affrontano gli adulti senza riconoscere loro alcun significato simbolico e senza regalare al ruolo sociale che svolgono un’importanza che meriti deferenza è timore reverenziale. Se gli adulti vogliono essere rispettati, è necessario che facciano o dicano qualcosa di interessante qui e ora, nella diretta interazione con l’adolescente e il suo gruppo. Ottengono rispetto e confidenza solo se hanno saputo dimostrare di conoscere il loro mestiere e di sapere spiegare bene a cosa serva la loro funzione. Che si tratti di un genitore o di un’insegnante, di un poliziotto o di un medico, di un educatore o di un allenatore il fatto che abbia l’età che ha e indossi quel ruolo, o eserciti quell’arte, o quel mestiere non gli regala alcuna importanza particolare agli occhi della tua spavalderia adolescenziale. Gli adolescenti sono portati a dare del tu a chiunque, convinti che non sono le differenze visibili quelle che contano, ma le competenze relazionali. Se poi un poliziotto o un prete, un allenatore o un assistente sociale dimostra sul campo di essere competente, allora si aprono trattative molto interessanti e gli spavaldi sono disponibilissimi all’ascolto.

Sarebbe utile ed interessante riuscire a capire le caratteristiche che deve avere un adulto per essere ritenuto ‘competente’ dagli spavaldi. È infatti molto complicato capire quali possano essere i motivi che fanno sì che fra un centinaio di docenti di una scuola solo quattro o cinque vengano ritenuti competenti. Sembra che l’amore che un insegnante manifesta per la propria materia sia molto apprezzato (…) purché comunichi la convinzione quasi delirante che quella disciplina sia fondamentale per la crescita e la realizzazione piena del sè: a queste condizioni viene posta la premessa affinché quell’insegnante sia ammesso al concorso per l’elezione al ruolo educativo di adulto competente. (…) Anche un certo livello di curiosità da parte del docente è generalmente molto apprezzato, purché sia fine a se stesso e sincero, non intrusivo e pettegolo. Agli spavaldi piace che il loro insegnante dimostri interesse per certe piccole vicende della loro vita, per alcuni incomprensibili riti della loro generazione, a cospetto dei quali gli adulti generalmente provano totale disinteresse. L’adulto competente, invece, se chiede è perché vuole capire, e quindi ammette di non sapere. E’ chiaro che non pretende di sapere ancor prima di aver chiesto delucidazioni. Se la domanda è pertinente, e documenta un certo rispetto per gli usi e costumi generazionali, allora gli spavaldi raccontano e spiegano bene, aprendo uno spazio ed un tempo di confronto educativo sulla quotidianità di enorme interesse ed utilità. Questo dimostra sul campo quanto sia utile ed interessante un confronto democratico fra la cultura adolescenziale e quella adulta. Ovviamente la spavalderia pone delle condizioni che non sono facilmente accettabili da ogni tipo di adulto, poiché pretende che dietro non vi sia alcun pensiero pedagogico o di curiosità intrusiva o di manovra seduttiva per carpire benevolenza d’ascolto a favore della propria disciplina.

Una volta deciso che hanno di fronte un adulto competente, gli adolescenti fragili e spavaldi ne fanno un uso intensivo, dimostrando quanto sia reale e profonda la loro motivazione ad attrezzare una relazione funzionale col mondo adulto e come sia cruciale per loro sentirsi in relazione. Quando viene stabilita una relazione educativa gli spavaldi accettano anche livelli molto elevati di dipendenza e ne sono consapevoli, perché la fiducia che sperimentano li autorizza a ritirare la denigrazione preventiva che è generalmente inalberano. [1]

Sarebbe da rivedere, dunque, il concetto che gli adolescenti non vogliano parlare con gli adulti. Anzi, credo sia per loro fondamentale riuscire a stabilire un rapporto costruttivo con uno di loro, un adulto che possa insegnare con l’esempio piuttosto che salendo in cattedra, che chieda perché interessato e non per ribadire cosa sia giusto e cosa sia sbagliato, che sappia ascoltare piuttosto che proclamare, che sia disposto a mettersi in gioco, che accetti il moto ondivago delle relazioni con un adolescente. Questo fa di un adulto un adulto competente per me. Con sempre maggior allarme mi rendo conto di quanto siano assenti figure adulte con queste caratteristiche nel mondo adolescente e mi chiedo quanto gli adulti siano disposti a mettersi in discussione, arrivando ad intuire come la mancanza di dialogo tra generazioni stia diventando drammaticamente sempre più pesante.

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

[1] Pietropolli Charmet, G. (2008), Fragile e spavaldo, Editori Laterza, Roma, pp. 116-118

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Violenza su internet, consapevolezza e ascolto…

Violenza su internet, consapevolezza e ascolto...Non so se avete fatto caso, ma lo stillicidio di notizie di questo tipo è ormai quotidiano. Quasi tutti i giorni accade che una vicenda, condivisa su internet e sui diversi social network, qualunque sia il tema o l’argomento trattato, scateni una massa di commenti spesso triviali, retrogradi, incolti che lasciano attoniti. Non c’è alcuna remora nell’insultare, nel denigrare, nell’offendere persone che non si è mai conosciuti. Io stesso ho avuto esperienza diretta di questo modus operandi di molte persone: offese del tutto gratuite, scherni e dileggi semplicemente perché non si condividevano le mie posizioni.

Fin qui, direte, nulla di nuovo sotto il sole. Ho già affrontato l’argomento della deriva aggressiva del confronto su internet (clicca qui per saperne di più). La novità è che vorrei legare questo atteggiamento, che secondo me è la punta di un iceberg ben più grosso, con altri episodi che vedono protagonisti ragazzi adolescenti e internet. Convinto che l’associazione non sia per nulla casuale, si assiste anche in questo caso in maniera esponenzialmente sempre più frequente, ad episodi nei quali ragazzi (o ragazze naturalmente) adolescenti o preadolescenti condividano e diffondano loro foto private personali in atteggiamenti intimi, soli o con altre persone coetanee. Il mezzo informatico è ormai utilizzato quotidianamente da quasi tutti noi. E’ entrato a far parte della nostra esperienza giornaliera, un po’ come utilizzare il frigo o utilizzare la luce elettrica. Come tutti gli automatismi, non ci rendiamo neanche conto di utilizzarlo se non accadono degli intoppi nel suo stesso utilizzo. In questi casi però, quando ci si rende conto dell’intoppo, il danno è ormai fatto. E quando le conseguenze sono tragiche, gli ‘intoppi’ sono particolarmente pesanti. E’ accaduto a Cagliari all’inizio del mese di Febbraio, un fatto di cronaca particolarmente sconcertante: una ragazza di 16 anni pone fine alla sua giovane vita. Poco tempo e iniziano a comparire sulla sua bacheca di Facebook insulti e derisioni rispetto a quanto successo. Suoi stessi coetanei si avventuravano in battute di scherno e di irrispetto in un momento tragico. La domanda che mi ronzava in mente era: a cosa è dovuta quest’insensibilità? Cosa spinge dei ragazzi perfettamente ‘normali’ a compiere atti di questo tipo? Cosa spinge le persone ad insultarsi in maniera pesantissima su Internet qualunque sia l’argomento del quale si parla? Abbiamo parlato di insulti su internet, di atti osceni diffusi tramite internet e di cyberbullismo. Cosa unisce questi tre fattori?

Fondamentalmente credo che alla base di tutto questo ci sia la totale inconsapevolezza del mezzo che si sta utilizzando. Questo aspetto può riguardare sia adulti che ragazzi ma in questo post voglio concentrarmi sui secondi. Soprattutto i ragazzi, si trovano spesso soli a maneggiare e a gestire un mondo che è assolutamente più grande di loro e per il quale nessuno ha fornito loro uno strumento di comprensione. All’interno di Internet tutto sembra un gioco, tutto sembra facile, tutto sembra a portata di clic, tutto sembra possibile, e niente sembra avere conseguenze: tanto quella cosa li non è ‘reale’. È una realtà virtuale dalla quale si può uscire nel momento stesso in cui lo si desidera. Questo pensiero si trasforma spesso in una trappola. Un tempo la fruizione di internet era limitata all’uso di un pc: ora l’accesso ad internet è praticamente costante attraverso i telefoni. Molti ragazzi ne possiedono uno e hanno piani tariffari che consentono la navigazione su internet costantemente. Naturalmente molti pochi adulti si preoccupano di spiegare o di stare vicino a questi ragazzi nell’uso di tanta potenza. L’inconsapevolezza dei ragazzi, infatti è specchio dell’inconsapevolezza dei tanti adulti che non si preoccupano minimamente di aiutare o di dare degli strumenti di comprensione a questi ragazzi. Probabilmente non avendone avuto a loro volta. Sarebbe come se mettessimo loro in mano un’arma non spiegando come funziona, e stupendoci poi che l’uso di quest’arma possa provocare feriti o, peggio, morti. Ed anche questo è solo la punta di un disinteresse totale che il mondo degli adulti rivolge ai suoi ragazzi.

Presi da mille incombenze e, non di rado, spaventati dalla loro crescita, troppi adulti semplicemente li lasciano a loro stessi, senza nessun sostegno e senza nessun supporto, non fornendo loro nessuno strumento per capire il mondo all’interno del quale stanno iniziando a muoversi. Questo disorienta moltissimo i ragazzi che si trovano a non avere figure adulte di riferimento con le quali potersi confrontare e impedisce loro di acquisire la consapevolezza e l’autonomia necessarie nel mondo adulto. L’unica soluzione è un ripensamento totale del patto generazionale tra adulti e ragazzi. Stare loro vicini, fornire loro un orecchio (e un cuore) che li ascolti può veramente fare la differenza. Sento già l’obiezione che mi si potrebbe muovere, sopratutto da parte di chi ha figli adolescenti: ‘Ma io cerco di ascoltare mio figlio e lui che non vuole ascoltare o parlare con me!’. Cosa fare in questo caso? Non reputo necessario che l’adulto di riferimento sia uno dei due genitori. Succede spesso che durante l’adolescenza i ragazzi abbiano bisogno di disconfermare le figure genitoriali e debbano in questo senso metterglisi contro. Sta all’intelligenza degli adulti capirlo e trovare una ‘figura adulta fiduciaria’ che il ragazzo riconosce come degno di stima e del quale i genitori stessi si fidino. Attenzione, non sto parlando solo di psicologi: potrebbe essere un amico/a dei genitori, un parente, un allenatore qualcuno che possa fungere da intermediario tra la figura genitoriale e il ragazzo. Una persona che possa servire da riferimento ed affiancare i ragazzi nella consapevolezza di quello che stanno facendo.

Confrontandomi spesso, per motivi professionali, con la realtà di ragazzi pieni di tutto ma sostanzialmente abbandonati a se stessi, credo che qualunque passo fatto nella direzione di ascoltarli e supportarli non possa non essere l’obiettivo condiviso di ognuno di noi.

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

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I compiti per le vacanze…

Prueba1669Ci siamo. Le tanto sospirate vacanze di Natale sono arrivate. Per molti bambini e ragazzi è arrivato finalmente il momento in cui, essendo liberi dalle tante incombenze che caratterizzano la loro routine quotidiana, pensano di potersi dedicare a ciò che più piace loro. Questo sarebbe possibile se non avessero quello che per molti è un vero e proprio incubo da vacanza: i compiti delle vacanze appunto. Esistono due tipi di scuole al riguardo: coloro che reputano i compiti necessari per tenere in allenamento i ragazzi e coloro che li ritengono l’ennesimo modo per tenerli sotto scacco anche nei momenti in cui dovrebbero essere più liberi. In supporto alla seconda tesi ho trovato un interessante articolo che fa un elenco dei motivi per cui sarebbe preferibile che i ragazzi non avessero compiti durante le vacanze. L’elenco è stato stilato da Miriam Clifford, insegnante e blogger che si occupa del tema scuola attraverso InformEd, sorta di laboratorio di idee sulla scuola. Trovate il link in fondo al post.

Intanto i punti:

  1. Gli studenti  imparano tutto il tempo nel 21° secolo. In una società come la nostra, costantemente connessa e nella quale circolano una miniera di informazioni ovunque, non si può pensare che i ragazzi apprendano solamente all’interno del contesto scolastico. Questo rende in parte superflua l’idea di compiti da fare a casa, legati alla visione di tenere vive e fresche le conoscenze acquisite a scuola durante l’anno;
  2. Non necessariamente molti compiti equivalgono ad una maggiore realizzazione: non è detto cioè che assegnare compiti a casa faccia studenti più diligenti o più bravi a scuola;
  3. I paesi che assegnano più compiti a casa non sono i migliori. Spesso invece è vero il contrario. Per esempio il Giappone ha abolito l’utilizzo di compiti a casa per favorire il tempo in famiglia mentre paesi del nord Europa, come per esempio la Finlandia, hanno limitato i compiti a casa ad un impegno massimo di mezz’ora al giorno;
  4. Invece di assegnare compiti, suggerire che leggano per divertimento: invece di assegnare un compito si può cercare di far interessare ad una lettura libera, per divertimento, che consenta di superare la logica di imposizione dei compiti a casa;
  5. Non assegnare troppo lavoro durante le vacanze: è controproducente anche al momento del ritorno a scuola; 
  6. Invitare gli studenti a partecipare a un evento culturale locale: questo tipo di attività, oltre ad essere percepita come più attiva rispetto allo svolgimento dei soli compiti, può portare il ragazzo a conoscere aspetti della sua realtà che non avrebbe mai preso in considerazione altrimenti;
  7. Il tempo in famiglia è più importante nelle vacanze: spesso infatti è una delle poche occasioni nella quale tutti  i membri, essendo anche gli altri in vacanza, possono passare del tempo insieme, non distratti dalla mille incombenze quotidiane che portano spesso ad incontrarsi tutti assieme solamente a cena; 
  8. Per gli studenti che viaggiano durante le vacanze, i compiti possono ostacolare l’apprendimento sul loro viaggio: dovendosi portare i compiti appresso hanno meno tempo di dedicarsi all’esperienza che stanno vivendo; 
  9. I bambini hanno bisogno di tempo per essere bambini: il fatto di avere spesso doveri non aiuta molto questo aspetto; 
  10. Alcuni esperti consigliano una fine a tutti i compiti: il rischio è, come detto, quello del sovraccarico; 
  11. Inviare una lettera ai genitori per spiegare perché non si stia assegnando lavoro: questo punto è dedicato agli insegnanti che possono spiegare con una lettera ai genitori dei propri alunni per quale motivo non reputano necessario assegnare loro compiti;
  12. È possibile rendere le vacanze un momento per un “progetto aperto” per crediti supplementari: si può, cioè, affidare alla fantasia e alla creatività del ragazzo l’esecuzione di un compito che sia dal ragazzo pensato, progettato ed eseguito. Il progetto sarà poi valutato a seconda delle qualità che il ragazzo ha deciso di mettere in gioco; 
  13. Suggerire la visita di un museo: se a scuola si studia il Medioevo, una visita ad un museo che ha questo tipo di reperti può essere più interessante che l’ennesima scheda su un brano letto nel libro di storia; 
  14. Esortare gli studenti a fare volontariato durante il periodo di vacanza: questo genere di attività, come nel punto 6, può essere percepita come più attivante rispetto al fare semplicemente dei compiti, e può spronare il ragazzo ad impegnarsi in attività che lo portino ad interessarsi all’altro e ai suoi bisogni;
  15. Sviluppare un gioco di classe: prima delle vacanze è possibile costruire un’attività scolastica la cui fine può essere poi assegnata a casa, coinvolgendo anche altri membri della famiglia. Questo favorirà un maggior tempo che i membri passano tra loro; 
  16. Gli studenti possono imparare di più osservando il mondo reale, piuttosto che fargli fare compiti su quello stesso mondo;
  17. Fare escursioni a piedi: e utilizzare le impressioni registrate. Come per altri punti precedenti, un’esperienza diretta è spesso più formativa dello studio della stessa esperienza; 
  18. Dire agli studenti di visitare un parco divertimenti: concetti spesso astratti come le forze fisiche possono essere sperimentate direttamente con molti giochi presenti in questi parchi!
  19. I bambini hanno bisogno di riposo: come tutti noi, anzi forse sopratutto loro, hanno bisogno di un momento di stacco dalle attività quotidiane;
  20. Molti genitori e studenti non amano compiti delle vacanze: sulla veridicità di questo punto non sono molto d’accordo, perché da per scontato che i genitori vogliano passare più tempo coi figli durante le vacanze e non sempre le cose stanno così.

Come avrete notato, uno dei punti principali di questo elenco è quello di preferire delle attività pratiche piuttosto che mere attività scolastico/mentali. Il tempo che rimane libero può essere utilizzato per far vivere delle realtà (musei, volontariato…) che normalmente vengono solamente insegnate. Come accennavo nell’ultimo punto, questo comporterebbe passare e dedicare maggior tempo ai propri figli e per molti genitori, in vacanza a loro volta, potrebbe essere un impegno non da poco che eviterebbero volentieri per riposarsi a loro volta. Sarebbe interessante allora chiedersi a chi giovi che i figli abbiano compiti da svolgere anche durante le vacanze.

Che ne pensate? A che scuola di pensiero appartenete? I compiti sono per voi una cosa utile oppure una vessazione cui cercare di porre al più presto rimedio?

Se voleste leggere l’articolo per intero, solo in inglese, cliccate qui

A presto…

Fabrizio Boninu

P.s. Dato che siamo in tema di vacanze natalizie, approfitto per fare a tutti voi un augurio di Buon Natale:)

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Quella ‘brutta bestia’ dell’adolescenza…

Quella 'brutta bestia' dell'adolescenza...Ho letto qualche tempo fa un articolo che mi ha fatto riflettere sulla considerazione di quell’età ingrata che è l’adolescenza. Ingrata, naturalmente sia per gli adolescenti che si trovano a dover affrontare un cambiamento molto importante, sia per i genitori che questo cambiamento, talvolta, sono restii ad accettare. Il brano è stato scritto  da Norah Ephron, celebre sceneggiatrice e regista americana, scomparsa nel giugno del 2012. Nel testo, si fa riferimento spesso alla figura della madre ma, naturalmente, credo sia applicabile anche alla figura padre.

L’adolescente investe il genitore moderno come uno shock gigantesco, in gran parte perché è così simile all’adolescenza che hai passato anche tu (genitore). Il tuo adolescente è ombroso. Il tuo adolescente è arrabbiato. Il tuo adolescente è cattivo. Peggio, il tuo adolescente è cattivo con te. Il tuo adolescente dice parole che non ti era permesso pronunciare mentre crescevi, non che non le avessi mai sentite, prima di leggere il Giovane Holden. Il tuo adolescente fuma marijuana, che magari hai fumato anche tu, ma non prima dei diciott’anni. Il tuo adolescente sta senz’altro facendo sesso in modo stupido e sconsiderato, cosa che tu non hai fatto fino almeno a vent’anni. Il tuo adolescente si vergogna di te e cammina dieci passi avanti in modo che nessuno pensi che siete collegati in qualche modo. Il tuo adolescente è ingrato. Ricordi vagamente di essere stata accusata dai tuoi genitori di essere ingrata, ma di che cosa dovevi essere grata? Quasi niente. I tuoi genitori non erano impegnati nelle cure parentali (termine che, secondo l’autrice, avrebbe sostituito l’essere genitore). Erano solo genitori. Almeno uno dei due beveva come una spugna, mentre tu hai un comportamento esemplare. Hai dedicato anni e anni della tua vita a far sentire ai tuoi figli che ti sta a cuore ogni singola emozione abbiano mai provato. Hai riempito ogni secondo di veglia della loro vita con attività culturali. Le parole “Mi annoio” non sono mai uscite dalle loro labbra, perché non hanno avuto il tempo di pronunciarle. I tuoi figli hanno tutto quello che potevi dare – tutto e di più se si contano le sneakers. Li ami in modo spropositato più di quanto ti amavano i tuoi genitori. Eppure sembra siano venuti fuori esattamente come sono sempre venuti fuori gli adolescenti. Anche peggio. Cos’è successo? Dove hai sbagliato?  Per di più, grazie ai progressi dell’alimentazione moderna, il tuo adolescente è grande e grosso, probabilmente più grosso di te. La paghetta settimanale del tuo adolescente equivale al prodotto interno lordo del Burkina Faso, un piccolo Paese colpito dalla povertà di cui né tu né il tuo adolescente avete mai sentito parlare fino a poco tempo fa, quando entrambi avete passato parecchi giorni a lavorare su una ricerca di scienze sociali per la scuola. Il tuo adolescente è cambiato, ma in nessuno dei modi che speravi quando ti rimboccavi le maniche per cambiare il pargolo. E sei cambiata anche tu. Da un essere umano moderatamente nevrotico e discretamente allegro, in un rottame  irritabile, acido e maltrattato. Ma niente paura. C’è un posto dove puoi andare per farti aiutare . Puoi andare da tutti i terapisti e i consulenti cui ti sei rivolta negli anni prima che i tuoi figli diventassero adolescenti. (…) Ed ecco cosa ti diranno: “L’adolescenza è per gli adolescenti, non per i genitori. E’ stata inventata per aiutare i figli attaccati – o troppo attaccati – a separarsi, in preparazione del momento inevitabile in cui lasceranno il nido”; ” Ci sono cose che si possono fare per rendere la propria vita più facile” (…) Ed è completamente falso. L’adolescenza è per i genitori, non per gli adolescenti. E’ stata inventata per aiutare i genitori attaccati – o troppo attaccati – a separarsi, in preparazione del momento inevitabile in cui i loro figli lasceranno il nido. Non c’è quasi niente che possiate fare per rendervi la vita più facile, tranne aspettare che finisca. (…) Oh, il dramma del nido vuoto. L’ansia. L’apprensione. Come sarà la vita adesso? Avrete qualcosa da dirvi, voi due, una volta che i vostri figli saranno andati? Farete sesso adesso che la presenza dei figli non è più una scusa per non farlo? 

L’articolo è a mio avviso interessante, a parte per l’ironia che lo pervade, per due ragioni particolari: 

A)Innanzitutto, pone l’accento sulla vicinanza di quelle che possono essere le attitudini dell’adolescente e dei genitori. Sarebbe interessante che, all’approssimarsi dell’adolescenza dei figli, i genitori ricordassero attraverso quali momenti, quali emozioni, quali turbamenti sono passati quando erano loro ad essere adolescenti;

B) Inoltre l’articolo, a mio avviso, rimescola molto bene le carte all’interno della famiglia ‘attribuendo’ l’adolescenza e i suoi cambiamenti non solo alla persona che fisicamente li sta vivendo, ma a tutta la famiglia, genitori in primis, che si trovano a dover affrontare e fronteggiare questi cambiamenti. Non parliamo dunque di un adolescente, ma di una famiglia adolescente volendo sottolineare, con questa espressione, il fatto che tutti, all’interno del nucleo familiare, siano coinvolti in questa età di passaggio: genitori, figli, fratelli. Questo rende il processo più circolare, magari più complesso, sicuramente più affascinante. Se è vero, infatti, che l’adolescente in prima persona vive il cambiamento della sua vita, è altrettanto vero che in famiglia i rapporti cambiano, le relazioni mutano, gli equilibri si trasformano. Per tutti i membri, non solo per uno. Cambiano le relazioni tra gli appartenenti alla famiglia per il solo motivo che si trovano ad interagire con un adulto e non più come un bambino. Volete che questo non influisca sulle dinamiche familiari?

Insomma un interessante punto di riflessione che porta l’adolescenza lontano dal mondo solipsistico e solitario con cui in famiglia si percepisce il cambiamento, attribuendolo esclusivamente a colui il quale, in quel momento, è anagraficamente l’adolescente della famiglia, contribuendo a riportare il tema all’interno di una serie di relazioni, in prima fila quelle familiari, che sarebbe il caso di non tralasciare. Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

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… e ora parliamo di Kevin

... e ora parliamo di KevinIl film del quale voglio parlarvi oggi è un film molto duro sulla famiglia. Si intitola …e ora parliamo di Kevin (2011)è della regista Lynne Ramsay ed magistralmente interpretato da Tilda Swinton e da John C. Reilly nei panni dei genitori del Kevin del titolo, loro primogenito. Il film, come dicevo è un film sulla famiglia ma non per la tutta la famiglia. Racconta della discesa all’inferno dei protagonisti, del lento sfaldamento di una famiglia alle prese con un dramma che diventa, piano piano, più grande di lei. Il film è spiazzante e spiazzante lo è anche nella sequenza temporale dato che non è lineare nello svolgimento, procede per salti con continui rimandi al passato e altrettanti ritorni al presente. Ci viene, in questo modo, presentata la storia della famiglia fin dalla sua origine, la coppia genitoriale. Le scene iniziali del film sono ambientate nella famosa battaglia della Tomatina, la battaglia dei pomodori, che si svolge in estate nella cittadina di Bunol, in Spagna. La luce delle scene è così particolare da far risaltare il colore rosso dei pomodori e renderlo uguale al colore del sangue. Questa caratteristica mi ha colpito molto perché, fateci caso, un oggetto con lo stesso colore, o comunque lo stesso rosso, compare in quasi tutte le scene del film. E’ come se si volesse sottolineare, anche cromaticamente, come il sangue, inteso anche come legame di sangue, sia presente dall’inizio alla fine della storia rappresentata. 
Sostanzialmente il film ruota attorno al rapporto tra il primogenito e il resto della famiglia. Fin dalla nascita sembra essere la madre il membro più spiazzato dall’arrivo del bimbo. Questo si traduce in un rapporto problematico madre/figlio e in una ridefinizione dei ruoli all’interno della coppia dei genitori: da una parte la madre non riesce ad avere, se non con difficoltà, nessun contatto fisico col bimbo e sembra incapace di gestire il rapporto con lui mentre il padre sembra essere molto più vicino e attento a questa esigenza del piccolo. Osservando la madre, si ha l’impressione che abbia più paura che trasporto verso il piccolo. Questa mancanza di contatto e di relazione le fa, in breve perdere il controllo della situazione. Ogni cosa, anche la più piccola e la più quotidiana, è fonte di scontri  e di tensioni e questo, anziché rinsaldare la coppia genitoriale, la divide in ruoli di ‘buono’ e ‘cattivo’ che sembrano essere totalmente parziali. La mancanza di relazione, quindi, non coinvolge solo madre e figlio ma anche i genitori. E’ come se in tutti i membri della famiglia mancasse la capacità di comunicare apertamente, come se tutto dovesse essere sepolto sotto una coltre di finta indifferenza e finta mancanza di problematicità, aspetto che porta a sottovalutare e a non comprendere appieno la situazione nella sua complessità. Una scena emblematica è, per me, quella nella quale, all’ennesimo comportamento del figlio, la madre, innervosita, gli da uno strattone e gli provoca un livido. Il bimbo, al ritorno del padre, non dice nulla, inventa una bugia per spiegare il livido e rafforza una complicità con la madre basata sulla menzogna e non sulla possibilità di parlare.
Nel film viene descritta molto bene questa dimensione, questa incapacità comunicativa che, nello sforzo di cercare di far si che le cose sembrino il più normale possibile, allontana sempre di più tutti i componenti della famiglia. Il fatto di avere un bambino piccolo spinge il padre a proporre il trasferimento dalla città di New York alla campagna, contro il volere della moglie. Anche qua la domanda naturale che potrebbe sorgere è: è possibile che tra loro non abbiano parlato prima, per cercare di capire cosa sarebbe successo alla nascita di un figlio? Questo è il punto nodale, che sta a monte anche rispetto alla nascita di Kevin ed è la modalità di relazione della quale Kevin stesso è vittima. Ancora la nascita della secondogenita provoca una serie di episodi che non attivano una forte funzione genitoriale, ma che, al contrario, spaventano e sembrano rendere ancora più inadeguati i rapporti tra i genitori e i figli. Crescendo il figlio diventa sempre più apertamente problematico, ma questo non porta una generale ridefinizione della famiglia che appare ancora più incapace e ancora meno disposta ad accettare e riconoscere la gravità della situazione.Naturalmente, lo ribadisco, dal mio punto di vista, non c’è un membro malato e altri membri sani: è tutto il sistema familiare ad essere problematico, anche se poi, fisicamente, è solo uno di loro quello che appare ‘disturbato’, ed è il membro che agisce questo disagio che, però accomuna tutti loro. Il disturbo arriva ad un epilogo del quale non vi svelo nulla per non rovinare la trama.
Rimane, a mio avviso, pur essendo duro e disturbante, un film interessante che pone degli interrogativi: quanto siamo responsabili per le cose che avvengono in chi cresciamo? Quanto siamo disposti a non vedere pensando di proteggerci da una sofferenza che è solo rimandata? Nel film, per esempio, viene mostrata la crudeltà di Kevin nei confronti degli animali. Può essere considerato un segnale da prendere in considerazione nel valutare il disagio di un adolescente? Chi si accanisce contro animali può, in seguito, essere pericoloso anche per le persone che lo circondano? Naturalmente il film non fornisce risposte. Crea più dubbi, interrogativi che costringono necessariamente a riflettere sul nostro ruolo, sulle nostre relazioni, sulla nostra capacità di comunicare.
Domande che spesso nascono a posteriori ma che dovremmo imparare a farci prima. Se non avete visto il film, penso che questa frase risulti abbastanza incomprensibile. Spero anche di avervi incuriosito abbastanza per spingervi a guardarlo.
Nel caso lo vedeste, fatemi sapere che ne pensate.
A presto…
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C.R.A.Z.Y.

C.R.A.Z.Y.Il film che voglio raccontarvi oggi, come al solito spunto di riflessioni, in questo caso sulla famiglia si intitola C.R.A.Z.Y. del regista Jean-Marc Vallée (2006). Il titolo è un gioco di parole tra le iniziale dei 5 figli della famiglia e la parola crazy (pazzo). Il film narra la storia della famiglia Beaulieu, una famiglia composta da due genitori e cinque figli maschi. Il protagonista tra loro è Zachary un ragazzo che si scontra non sol con la sua identità sessuale ma anche e soprattutto con l’omofobia del padre. Il regista è molto attento ad evidenziare i passaggi che portano sempre più in alto lo scontro tra Zachary e il padre. Fin dalle prime battute si intuisce la caratteristica di Zachary quando, con la madre che ha appena avuto il quinto figlio maschio, desidera spingere il passeggino del fratello. Il padre da subito si oppone alla manifestazione di questi comportamenti e, da bravo intollerante, deve attribuire all’esterno la causa di quello che non comprende, non gli piace e giudica sbagliato. La moglie è il bersaglio perfetto per questo tipo di critica e continua a rinfacciarle che se il figlio è così deve pur essere colpa di qualcuno e che la colpa, in buona sostanza, è sua. Si intravede però, in tutto il film l’incapacità del padre di confrontarsi con questo tipo di realtà.

In questo gioco delle parti,come spesso accade, la madre sembra molto più comprensiva ed asseconda i desideri del figlio cercandone di capire la motivazione piuttosto che giudicando e proibendo. In diverse scene viene sottolineato questo aspetto. Appena il padre va via di casa per lavoro la madre permette al figlio di fare cose che in presenza del padre gli sono proibite. In una famiglia questa polarizzazione tra un genitore altamente permissivo e uno altamente punito non è da considerare una buona strategia perché potrebbe disorientare il figlio tra continui permessi e negazioni. Potrebbe poi, implicitamente, dare un grande potere al figlio che, inserendosi tra dinamiche di coppia (mamma me lo concede, papà no, posso rendere evidente questo aspetto e indurli a litigare!) può portare a fratture o incomprensioni tra i due genitori.

Tornando al film la descrizione della situazione in casa è fatta con una sottile ironia che rende il film molto godibile. In una scena Zachary piccolo sente, durante i litigi tra il padre e la madre che il padre continua a ripetere che è colpa sua se il figlio è ‘moscio’. In seguito vedremo Zachary , inginocchiato ai piedi del letto della sua camera che prega Dio di non farlo essere moscio. Il film prosegue con la descrizione della crescita del ragazzo attorniato da questa paura e dall’ansia che questo gli mette. Soffre infatti, di enuresi notturna, fatto che testimonia inequivocabilmente che Zachary si porta dietro qualche ansia, mal’unica sua preoccupazione, fatta sua da quello che sente spesso dire al padre, è la paura di cosa potrebbero pensare gli altri se lo venissero a sapere. L’adolescenza porta la ribellione nei confronti del padre e le prime risse con i suoi coetanei. La figura del padre è goffamente ridicola nell’ondeggiare tra le somiglianze con lui (quando il figlio si picchia, attività ‘maschile’) oppure le somiglianze con la madre (quando fa qualcosa che non rientra tra i canoni maschili del padre). L’ambivalenza tra l’accettazione di alcuni aspetti e il rifiuto di altri, testimonia,più che la diversità di Zachary, l’incapacità del genitore di accettare la cosa e di poterla ricomprendere tra le cose accettabili. Nella famiglia, su questo, manca completamente il dialogo e tutto sembra passare per non detti, per allusioni di cui non si può mai esplicitare nulla.

Fondamentalmente un bel film che permette di cogliere l’impossibilità di crescere senza dialogo. Come al solito, se doveste vederlo, o l’aveste già visto, fatemi sapere che ne pensate.

A presto…
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Gli analfabeti delle emozioni

Gli analfabeti delle emozioniIl post è una riflessione che parte dal bellissimo brano che Umberto Galimberti, filosofo e psicanalista italiano, scrisse all’indomani dell’ennesimo caso di cronaca nera che vedeva, nella parte dell’assassino, giovanissimi. La riflessione parte da questo punto: qual è il mondo interiore di questi giovani? Eccovi il pezzo:

L’hanno trovata morta in un cascinale abbandonato, vicino alla sua abitazione. Ancora non sanno se il ragazzo che ieri notte ha confessato il delitto ha agito da solo o insieme ad altri, che per ora restano in quella cupa ombra dove la sessualità si mescola alla violenza, in quel cocktail micidiale che, a dosi massicce, la televisione quotidianamente distribuisce nell’indifferenza generale.

Quel che è certo è che una brava ragazza di 14 anni, che sabato scorso era uscita con le chiavi di casa e il suo cellulare, come fanno tutti i ragazzi della sua età, a casa non tornerà più. Ma come è fatto il mondo fuori casa?Non dico il mondo in generale, ma il mondo di questi ragazzi di cui ieri, in un lucido intervento su Repubblica, Marco Lodoli ha descritto il loro apparato cognitivo in questi termini: “I processi intellettivi più semplici, un’elementare operazione matematica, la comprensione di una favoletta, ma anche il resoconto di un pomeriggio passato con gli amici o della trama di un film, sono diventati compiti sovrumani di fronte ai quali gli adolescenti rimangono a bocca aperta, in silenzio. (…)”. Semplicemente non capiscono niente, non riescono a connettere i dati più elementari, a stabilire dei nessi anche minimi tra i fatti che accadono davanti a loro, che accadono a loro stessi”.

A questa diagnosi (che posso tranquillamente confermare perché questi stessi ragazzi li ascolto quattro o cinque anni dopo, un po’ più evoluti ma non tanto, all’università) resta solo da aggiungere che carenti non sono solo i nessi “cognitivi”, verbalizzati con un linguaggio che più povero non si può immaginare, ma anche quelli “emotivi”, per cui viene da chiedersi se questi ragazzi dispongono ancora di una psiche capace di elaborare i conflitti e, grazie a questa elaborazione, in grado di trattenersi dal gesto. Esiste nella nostra attuale cultura e nelle nostre pratiche di vita un’educazione emotiva che consenta loro di mettere in contatto e quindi di conoscere i loro sentimenti, le loro passioni, la qualità della loro sessualità e i moti della loro aggressività? Oppure il mondo emotivo vive dentro di loro a loro insaputa, come un ospite sconosciuto a cui non sanno dare neppure un nome? Se così fosse, di fatti simili a questa tragedia avvenuta nel Bresciano aspettiamocene molti, perché è difficile pensare di poter governare la propria vita senza un’adeguata conoscenza di sé. E qui non alludo alla conoscenza postuma che in età adolescenziale o in età adulta porta qualcuno dallo psicoterapeuta a cercare l’anima o direttamente in farmacia nel tentativo di sedarla; ma faccio riferimento a quell’educazione dei sentimenti, delle emozioni, degli entusiasmi, delle paure, che mette al riparo da quell’indifferenza emotiva, oggi sempre più diffusa, per effetto della quale non si ha risonanza emozionale di fronte ai fatti a cui si assiste o ai gesti che si compiono. E chi non sa sillabare l’alfabeto emotivo, chi ha lasciato disseccare le radici del cuore, si muove nel mondo pervaso da un timore inaffidabile e quindi con una vigilanza aggressiva spesso non disgiunta da spunti paranoici che inducono a percepire il prossimo innanzitutto come un potenziale nemico.

E tutto ciò perché? Perché manca un’educazione emotiva: dapprima in famiglia, dove i giovanissimi trascorrono il loro tempo in quella tranquilla solitudine con le chiavi di casa in tasca e la televisione come baby sitter, e poi a scuola, quando ascoltano parole che fanno riferimento a una cultura che, per esser tale, non può che esser distante mille miglia da ciò che la televisione ha loro offerto come base di reazione emozionale. Oggi l’educazione emotiva è lasciata al caso e tutti gli studi e le statistiche concordano nel segnalare la tendenza, nell’attuale generazione, ad avere un maggior numero di problemi emozionali rispetto a quelle precedenti. E questo perché oggi i giovanissimi sono più soli e più depressi, più rabbiosi e ribelli, più nervosi e impulsivi, più aggressivi e quindi impreparati alla vita, perché privi di quegli strumenti emotivi indispensabili per dare avvio a quei comportamenti quali l’autoconsapevolezza, l’autocontrollo, l’empatia, senza i quali saranno sì capaci di parlare, ma non di ascoltare, di risolvere i conflitti, di cooperare. Se la scuola non è sempre all’altezza dell’educazione emotiva, che prevede, oltre a una maturazione intellettuale, anche una maturazione psicologica, l’ultima chance potrebbe offrirla la società se i suoi valori non fossero solo business, successo, denaro, immagine, ma anche qualche straccio di solidarietà, relazione, comunicazione, aiuto reciproco, che possano temperare il carattere asociale che, nella nostra cultura, caratterizza sempre di più il mondo giovanile. Nel deserto della comunicazione emotiva che da piccoli non è loro arrivata, da adolescenti non hanno incontrato, e nelle prossimità dell’età adulta hanno imparato a controllare, fa la sua comparsa il “gesto”, soprattutto quello violento, che prende il posto di tutte le parole che questi ragazzi non hanno scambiato né con gli altri per istintiva diffidenza, né con se stessi per afasia emotiva.

Si tratta di gesti che mettono in crisi la giustizia e, con la giustizia, la società che per tranquillizzarsi è sempre alla ricerca di un movente. E il movente in effetti non c’è, o se c’è è insufficiente, comunque sproporzionato alla tragedia, persino ignoto agli stessi autori. Cercarlo ci porta lontano, tanto lontano quanto può esserlo l’avvio della nostra vita, dove ci è stato insegnato tutto, ma non come “mettere in contatto” il cuore con la nostra mente, e la nostra mente con il nostro comportamento, e il comportamento con il riverbero emotivo che gli eventi del mondo incidono nel nostro cuore. Queste “connessioni”, che fanno di un uomo un uomo, non si sono costituite, e perciò sono nate biografie capaci di gesti tra loro a tal punto slegati, da non percepirli neppure come propri. Questo è il nostro tempo, il tempo che registra il fallimento della comunicazione emotiva e quindi la formazione del cuore come organo che prima di ragionare, ci fa “sentire” che cosa è giusto e che cosa non è giusto, chi sono io e che ci faccio al mondo.

UMBERTO GALIMBERTI, Gli analfabeti delle emozioni, La Repubblica, 5 ottobre 2002.

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio

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Hunger games

Hunger gamesIl film del quale voglio parlarvi in questo post è Hunger Games (Gary Ross, 2012) ed è il primo episodio di una trilogia basata sui romanzi della scrittrice Suzanne Collins. Il film in questione fu bollato (non vi nascondo anche dal sottoscritto), come l’ennesima trilogia commerciale destinata ad un pubblico di adolescenti o post adolescenti. In realtà avendolo visto, mi sono decisamente dovuto ricredere sia sul contenuto, sia sul messaggio implicito del film. La trama per chi non la conoscesse è questa: il mondo come lo conosciamo oggi non esiste più. L’angolo di mondo che vediamo è una sorta di mondo postapocalittico, ripiombato in una specie di moderno medioevo. Si intuisce che il paese in questione siano gli Stati Uniti dato che la città in cui si svolge la vicenda è una non precisata Capitol City. La città è attorniata da 12 distretti, ribellatisi e sconfitti che ora, per punizione, versano ciascuno ogni anno un tributo umano: un ragazzo e una ragazza che, estratti a sorte si devono sfidare tra loro finché uno solo non uscirà vincitore e diventerà il vincitore appunto degli Hunger Games, trasformandosi in un eroe per la comunità dal quale proviene. La trama apparentemente semplice, è in realtà secondo me particolarmente simbolica e molto precisa nel descrivere quello che avviene ora in qualsiasi reality show vada in onda. Il riferimento che mi viene più immediato è con il meccanismo del reality show più famoso, il Grande Fratello. Sostanzialmente questo tipo di gioco è basato sul privilegiare tutti gli aspetti più bassi e deleteri delle persone: opportunismo, cinismo, narcisismo, sprezzo dei rapporti, trasformismo, doppiogiochismo, false alleanze e false amicizie basate essenzialmente sul durare di più nel gioco, un gioco che viene venduto come pulito ma che in realtà viene, per motivi di trama, montato e pilotato dagli autori a seconda di ciò che il pubblico chiede. Questo avviene anche nel film, dove, la storia d’amore tra i due protagonisti sembra costruita essenzialmente per fini ‘commerciali’.

Ma le analogie non finiscono qua. Tutta la preparazione, soprattutto quella in cui vengono costruiti dei veri e propri personaggi ad uso e consumo del pubblico, sembra quella di altri reality. Altro aspetto: i bambini nella società del film, imitano ciò che vedono nell’Hunger Games, compresi gli aspetti più deleteri. Non è quello che succede anche nella nostra società? Anche per noi sembra si privilegino i comportamenti più infimi purché portino ad un qualche risultato, e le cronache politiche di questi tempi testimoniano di quanto quest’uso e costume sia ormai diffuso. Ancora l’assoluta vacuità della società che sta intorno alla costruzione del meccanismo del gioco, interessata solamente ai vestiti e agli abiti e dimentica di quella che sarà la sorte delle persone che si accingono a partecipare al gioco stesso. Non vi suona familiare? Perfino la casa in cui vivono durante il training di allenamento nel film ricorda la casa ipermodaiola, ma sempre terribilmente artificiale, che caratterizza ogni edizione del Grande Fratello. Insomma un mondo che sembra futuro e lontano ma che, se lo si osserva con occhi appena diversi, non sembra molto diverso da quello nel quale, purtroppo, siano pienamente immersi anche noi.

E in tutto questo la frase che mi ha più colpito è quando il presidente Snow, vecchio protagonista, spiega al burattinaio del gioco, Seneca, per quale motivo venga organizzato tutto questo spettacolo anziché prendere semplicemente dei ragazzi e ucciderli per rappresaglia. Lo scopo, spiega il vecchio con disincantato cinismo, è quello di lasciare una speranza, far si che le persone nei vari distretti, tutti apparentemente molto poveri e schiacciati economicamente dalla ricca città (altra analogia col mondo di oggi?) perseguano l’idea che possano cavarsela, possano diventare conosciuti e degli eroi semplicemente per aver partecipato ed essere sopravvissuti ad un gioco. Non è lo stesso meccanismo perverso e voyeuristico che anima i vari reality, nei quali le persone diventano famose per il semplice fatto di esserci? Ed è davvero un peccato che il meccanismo col quale ci sente importanti sia totalmente artefatto e basato sul motto latino mors tua vita mea.

Credo che meritiamo qualcosa di più che pensare che schiacciare l’altro sia l’unico modo per diventare qualcuno nella vita. E credo anche che non  si possano depositare le nostre speranze semplicemente sull’idea di diventare famosi per il semplice fatto di comparire. Tanto meno di diventare famosi a scapito di qualcun altro. E’ necessario riflettere su quanto questo meccanismo apparentemente innocuo e semplice stia stritolando, senza che ce ne accorgiamo, la nostra stessa capacità di pensare le relazioni con gli altri. Insomma, un film che consideravo una semplice operazione commerciale si è, inaspettatamente, rivelato un ottimo spunto di riflessione. 

Nel caso lo vedeste, o lo aveste già visto, fatemi sapere che ne pensate.

A presto…

Fabrizio

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Diario di una schiappa

Diario di una schiappaIl film che vi racconto oggi è una commedia che ci fa entrare direttamente nel ‘magico’mondo della preadolescenza e dei suoi molteplici riti di passaggio. Si intitola Diario di una schiappa(2010), è del regista Thor Freudenthal ed è basato sul libro di Jeff Kinney. Fondamentalmente il film racconta la vita di un ragazzo, Greg, che si trova a dover fronteggiare il passaggio dalle scuole elementari alle scuole medie. Il film tratta con una irresistibile ironia di fondo, tutti i più importanti temi di quell’età: le prime ‘conquiste amorose’, o meglio i primi scontri/incontri con l’altro, le prime consapevolezze sulle funzioni e sull’immagine sociale e, quindi, tutte le tematiche correlate come l’accettazione o l’esclusione, la desiderabilità sociale o il rifiuto, le cose ‘giuste’ e quelle ‘sbagliate’ da fare. Ancora i primi screzi nella famiglia, i primi casini con gli amici, e tutto quello che vorremmo fare per far si che tutte le cose a cui teniamo a quell’età andassero bene ma che, in realtà, si rivelano dei totali disastri. Molte tematiche sono affrontate particolarmente bene sopratutto il clima competitivo che si può instaurare all’interno dell’ambiente scolastico. Le dinamiche di gruppo, con i loro continui capovolgimenti di ruolo e con i continui aggiustamenti, i riti collettivi che tutti condividono e che nessuno sembra essere in grado di sovvertire, le dinamiche di inclusione ed esclusione dai gruppi secondo meccanismi apparentemente indecifrabili. Insomma realtà con le quali a tutti noi, penso, sia capitato in qualche modo di avere a che fare. Credo che, per le tematiche affrontate, possa essere un film molto utile da vedere con i propri figli adolescenti perché, tramite la condivisione, permette di fare delle riflessioni con loro di alcuni degli aspetti che caratterizzano la loro età.

La forza del film sta nella capacità di affrontare questi temi con un’ironia e una leggerezza che riesce a mascherare e, forse a farci dimenticare, quanto questi temi siano, o siano stati importanti, nella nostra formazione. Chi di noi può non identificarsi in qualcuna delle mille peripezie che si svolgono all’interno della scuola? O può non riconoscersi in uno degli aspetti dei protagonisti del film? Insomma, come al solito non vi svelo altro per non rovinarvi la trama ma spero di avervi incuriosito abbastanza per spingervi a vederlo.

Naturalmente, nel caso lo vedeste, fatemi sapere che cosa ne pensate.


A presto…
 
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Bianca come il latte, rossa come il sangue

Bianca come il latte, rossa come il sangueIl post di oggi è dedicato ad un libro che mi ha colpito molto. Si intitola Bianca come il latte, rossa come il sangue è stato scritto da Alessandro D’Avenia (2010). Il libro narra la storia di Leo un sedicenne come tanti altri calato nella tipica realtà di un sedicenne di oggi: lo sport, le amicizie, i primi amori, la scuola. Leo, come apprendiamo fin dall’inizio del libro, ha una idiosincrasia per alcuni colori e ne ama altri: odia il bianco che per lui significa l’assenza e la perdita e ama invece il rosso che per lui ha come valenza quella legata alla vita, alla passione. E  rossi sono i capelli della persona che suscita la sua passione: Beatrice. Beatrice viene conosciuta e avvicinata tramite l’amica Silvia, che costiutisce un porto sereno nella vita di Leo e che appunto fa da tramite tra i due. Silvia è innamorata di Leo, in un gioco di intrecci e rimandi amorosi per cui spesso ci si innamora delle persone più lontane e non ci si accorge di quelle persone che sono a noi più vicine. Beatrice viene conosciuta con lentezza e rispetto e molte delle cose che la caratterizzano sembrano per lo meno strane. Solo con la frequenza Leo si accorge del fatto che sia malata: questa consapevolezza rende il loro rapporto splendidamente tenero, vivo e vero e permette loro di conoscersi e di fidarsi l’uno dell’altro. Tanto Beatrice quanto Leo iniziano ad imparare delle cose l’uno dell’altra, ma è la malattia di Beatrice che sembra dettare i tempi della loro conoscenza. In questo, Leo soprattutto, inizia ad cambiare percezione della vita, passando da una sequela di avvenimenti poco coinvolgenti emotivamente, nel quale l’unica cosa che sembra dare piacere è pensare a come infastidire il nuovo proefessore di filosofia, ad una percezione basata sul confronto con l’altro, i suoi tempi, e le sue prerogative. Questo passaggio è molto coinvolgente e porta ad una ristrutturazione della vita stessa di Leo e delle sue priorità. Questo è uno dei momenti più importanti nel libro, secondo me, e porta ad affrontare un tema di solito tabù per questo tipo di libri: la morte. La morte non è più solo la fine di tutto, diventa un passaggio tramite il quale maturare, potersi specchiare nelle proprie paure e poter in qualche modo riuscire a ricavare una forza o una nuova prospettiva in grado di cambiare la percezione della vita stessa. Leo in questa fase di passaggio sembra apparentemente solo rispetto a quello che gli sta capitando. Lo è nel momento in cui, solo, è obbligato a confrontarsi con se stesso, con i suoi timori soprattutto quella della perdita e con la morte, non solo quella fisica ma soprattutto quella simbolica del suo mondo, un mondo nel quale tutto sembrava permesso, nel quale esistevano dei riti saldi e conosciuti (il calcetto, la scuola…) e aveva dei tempi che lui dettava. Tutto cambia dopo, nella percezione del protagonista. Nella nuova percezione del tempo, la vita va avanti e Leo può apprendere che, per affrontare il cambiamento, dovrà restaurare la stessa idea che aveva della sua vita.  Allora tutti i riti conosciuti acquistano un nuovo valore e anche con gli adulti è possibile costruire rapporti che neanche avrebbe immaginato. E il professore di filosofia diventerà non solo la persona da infastidire ma una delle persone più vicine al quale confidare i propri patemi. 

lnsomma, un libro molto bello e delicato sull’adolescenza. Ma in  generale sulla vita. Un libro che può costituire un ottimo spunto di discussione se condiviso tra genitori e figli. Un libro che consiglio anche agli adulti che vogliano avvicinarsi al mondo dell’adolescenza per ricordare come possono essere totalizzanti certe esperienze in quella fase della nostra vita. 

A presto…

Fabrizio

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