Lentamente muore…

Lentamente muore...Il post di oggi è una delle mie poesie preferite. Erroneamente attribuita a Pablo Neruda, è in realtà della scrittrice brasiliana Martha Medeiros. In portoghese si intitola A Morte Devagar (Una morte lenta). Un inno al cambiamento, alla trasformazione, al non adagiarsi su quello che si ha, al mutamento che passa attraverso le piccole cose, a tutte quelle curiosità che spingono a mettere in discussione ciò che diamo per acquisito, abitudini che spesso si trasformano in gabbia all’interno della quale ci muoviamo inconsapevoli, bloccati dalla morsa protettiva della routine che rischia di farci, appunto, morire lentamente e inconsapevolmente:

Lentamente muore chi diventa schiavo dell’abitudine,

ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi,

chi non cambia la marcia,

chi non rischia e cambia colore dei vestiti,

chi non parla a chi non conosce.

 Muore lentamente chi evita una passione,

chi preferisce il nero su bianco e i puntini sulle “i”

piuttosto che un insieme di emozioni,

proprio quelle che fanno brillare gli occhi,

quelle che fanno di uno sbadiglio un sorriso,

quelle che fanno battere il cuore

davanti all’errore e ai sentimenti.

Lentamente muore chi non capovolge il tavolo,

chi è infelice sul lavoro, chi non rischia la certezza

per l’incertezza, per inseguire un sogno,

chi non si permette almeno una volta nella vita

di fuggire i consigli sensati.

 Lentamente muore chi non viaggia, chi non legge,

chi non ascolta musica, chi non trova grazia in se stesso.

 Muore lentamente chi distrugge l’amor proprio,

chi non si lascia aiutare; chi passa i giorni a lamentarsi

della propria sfortuna o della pioggia incessante.

 Lentamente muore chi abbandona

un progetto prima di iniziarlo,

chi non fa domande sugli argomenti che non conosce,

chi non risponde quando gli chiedono

qualcosa che conosce.

Evitiamo la morte a piccole dosi,

ricordando sempre che essere vivo

richiede uno sforzo di gran lunga maggiore

del semplice fatto di respirare.

Soltanto l’ardente pazienza porterà al raggiungimento

di una splendida felicità. 

Spero sia stata una piccola scoperta!

A presto…

Fabrizio

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Travestiti che usciamo (2)

Travestiti che usciamo (2)Temo di non essere del tutto d’accordo su alcune parti di questa citazione. Tanto per cominciare vorrei porre l’accento sulla velata colpevolizzazione della figura materna nello sviluppare il terreno fertile in cui crescerebbe, poi, il transessualismo. La stessa critica che mi sentirei di rivolgere alla definizione di madre frigorifero dello psicoanalista Bruno Bettelheim (per intendere una donna affettivamente fredda) per spiegare le cause dell’autismo infantile. Queste definizioni sono perfette per essere ricordate ma, a mio parere, estremamente riduttive. Tanto riduttive che non se ne coglie la possibilità d’uso. Da un punto di vista sistemico, poi, sono ancora più incomprensibili dal momento che non si capisce come una sola persona, sebbene stiamo parlando della madre, possa essere così influente. Verrebbe da chiedersi dove sia il padre di questo bambino. E poi, dobbiamo sempre ipotizzare che madre e figlio vivano isolati, soli, in un bunker? Nessun gruppo sociale ha altre influenze su questo bimbo? Non ha altri modelli?

Sempre in tema, non sono d’accordo nel puntare l’indice su una supposta responsabilità nello sviluppo del transessualismo. Ditemi voi chi può simpatizzare per la figura materna sopra descritta: prima vezzeggia la parte femminile del figlio, la sua sensibilità (e anche qua ci sarebbe da aprire una parentesi: ma la sensibilità è solo prerogativa femminile?) poi, nel momento in cui ha sviluppato ‘il mostro’ lo tradisce perché socialmente inaccettabile. Credo che questo tipo di spiegazioni sia non solo forzata quanto poco rispondente al vero. Se conoscessi questa madre al massimo potrei chiederle che senso può avere per lei vezzeggiare le parti femminili in un figlio maschio. Ampliare il discorso, non chiuderlo in soluzioni così standardizzate. Insomma, non credo che questo tipo di generalizzazione possa essere d’aiuto nella comprensione di una questione così delicata.

E ancora, perché si da ad intendere che l’unico sbocco del transessualismo sia la prostituzione? Suppongo sia uno degli inevitabili sbocchi di queste scelte ma perché farne l’unico? Abbiamo anche delle descrizioni che sono involontariamente comiche:il travestito è un simbolo sessuale, attraente e sicuro. Sicuro? Non comprendo in cosa il travestito possa essere sicuro. Anzi. Credo sia proprio l’ambiguità, i possibili passaggi a cavallo tra i due sessi, l’essere fisicamente un uomo che usa armi di seduzione femminile, possono giocare un ruolo importante per il loro ‘successo’. E non mi piace molto neanche la frase povero di strumenti alternativi come tutti i diversi. Cosa significa povero di strumenti alternativi? Alternativi a cosa? Al transessualismo? Quest’ottica si pone nei confronti del transessualismo come un’ottica per cui sia una scelta ingiusta, da correggere. Certo, sarebbe meglio se la persona avesse strumenti alternativi tra i quali scegliere. Forse sarebbe più libero. Ma perché costruire artificiosamente la categoria dei diversi poveri di strumenti? Quasi fosse una certezza.

Credo sia convincente, invece l’analisi dei possibili ‘punti di sbocco’: una scelta definitiva di cambio di sesso, una diversità meno esibita, possibili condotte di tipo deviante.

Forse vi starete chiedendo perché vi abbia segnalato questo articolo se non lo condividevo molto. Ho considerato potesse essere spunto di riflessione su un tema di cui non si parla molto, se non in relazione a scandali che possano coinvolgere persone famose. Chi si sentisse di dire qualcosa in proposito può, ovviamente, farlo anche privatamente alla mia email. Spero anzi che ci siano testimonianze che possano smentire l’equazione travestito=prostituzione. Sarebbe un bel passo avanti per smontare un cliché forse troppo ricorrente. 

 

A presto…

Fabrizio

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Travestiti che usciamo (1)

Travestiti che usciamo (1)Il post di oggi ha come tema il travestitismo, persone che indossano indumenti propri del sesso opposto. Il termine non è da confondere con transessualismo, termine che indica persone la cui identità psicologica non corrisponde all’identità fisica e che, per questo, si atteggiano, vestono, comportano sempre come persone del sesso opposto. Spesso, queste persone hanno come obiettivo il cambiamento chirurgico del sesso. Fatta questa piccola premessa, leggevo in un libro un passo riguardante i travestiti che vi riporto integralmente. Credo che nel brano il termine travestitismo sia usato con accezione più ampia rispetto a come l’ho esemplificata io, e coinvolga anche il transessualismo.

Il brano: un esempio recente e particolarmente drammatico di interazione fra fattori di ordine personale, familiare e sociale nello sviluppo sociopatico è quello proposto dalla vita e dalla storia dei travestiti che si prostituiscono sui marciapiedi delle grandi città dell’Occidente. Una ricostruzione attenta della loro vita familiare permette di collegare, in alcuni casi, le incertezze del loro orientamento sessuale alla valorizzazione delle loro tendenze femminili da parte, in particolare, della madre (che li vestiva da donna quando erano piccoli, che sottolineava la loro sensibilità, dolcezza, attitudine alle faccende di casa e che insisteva comunque sul significato affettivo per lei di questi comportamenti). “Traditi” dalla madre nel momento in cui la loro problematica e il loro comportamento diventano socialmente ed emotivamente insostenibile, molti di questi giovani affrontano situazioni conflittuali gravi all’interno di una famiglia che non accetta la loro diversità e si sentono costretti ad andarsene di casa. L’attrazione e il rifiuto che essi determinano negli uomini con l’ambiguità della loro presenza sessuale diventano a questo punto la loro forza e la loro debolezza, condizionando in modo spesso definitivo le loro scelte successive. Per strada, di sera, il travestito è un simbolo sessuale, attraente e sicuro. Di giorno, nei luoghi della vita comune, è un diverso di cui ci si vergogna. Povero di strumenti alternativi come tutti i diversi la cui crisi si esprime in fasi decisive per la formazione e per l’acquisizione degli strumenti  culturali necessari  al lavoro, egli si sente respinto irresistibilmente (come accade appunto nello ‘sviluppo’) verso la prostituzione: un comportamento riprovato (la polizia) e sollecitato (i clienti, fra cui bisogna valutare ovviamente, a volte anche i  poliziotti) da un sistema sociale che utilizza fino in fondo la loro diversità.

Interessante, anche nel caso dei travestiti, l’osservazione relativa al decorso naturale della loro condizione di sofferenza. In mancanza di casi documentati di “guarigioni” ottenute con interventi basati sul tentativo di farli desistere dal loro comportamento, quelle che è possibile documentare sono infatti:

  • evoluzioni integrative attraverso il cambiamento definitivo, anagrafico e anatomico, del sesso; 
  • evoluzioni positive verso l’accettazione di una diversità meno esibita e progressivamente più integrata nelle comunità omosessuali;
  • evoluzioni di tipo psicopatico con lo stabilizzarsi di una prostituzione sempre più esibita, aggressiva e conflittuale e con il sopravvenire di disturbi comportamentali di secondo livello (alcool e droga). [1]
– Continua –
 
[1] Cancrini, L., et al., Il transessualismo e il cambiamento di sesso, in Cancrini, L., La Rosa, C. (1991), Il vaso di Pandora, Carocci, Roma, pp. 227-228
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La felicità? Arriva dopo i 40 anni!

La felicità Arriva dopo i 40 anniCercando di riequilibrare il post che affrontava il tema della depressione a 40 anni (La depressione? Arriva a 40 anni! pubblicato il 02.07.12), vi segnalo l’articolo del Corriere della Sera che invece sostiene la tesi contraria: la felicità sarebbe al picco nella fascia d’età tra i 40 e i 60 anni. Secondo l’autore David Bainbridge, autore del libro Middle Age (Mezza età) le persone che si trovano tra i 40 e i 60 anni sarebbero più stabili emotivamente, più felici e più intelligenti che in ogni altro periodo della vita. All’interno di questo range d’età le persone, prese nel mezzo delle loro molteplici incombenze di vita, sarebbero più resistenti e portate ad utilizzare al massimo le risorse che sentono di avere a disposizione. Insomma, altro che depressione. Si avrebbe in questo periodo, complice anche quella sensazione di essere ‘formati’, di essere adulti che si dovrebbe acquisire in quegli anni, una sorta di picco di autoconsapevolezza che sarebbe del tutto diversa da quella che si può ottenere prima dei 40 (in cui si è giovani e si risente dei saliscendi emotivi e di autostima propri della giovinezza) o dopo i 60 (anni nei quali si può invece riverberare sulla nostra vita lo spettro della fine, dell’inutilità che spesso accompagna, ingiustamente, la terza età).

Naturalmente la mia opinione è quella che andrebbero vagliate le singole storie personali piuttosto che ragionare in termini di età. Se è vero che questi studi possono favorire la descrizione di tendenze generali, è anche vero che non tutti raggiungono un grado di maturità tale a quell’età e che molti sono i maturi o gli immaturi prima della fatidica soglia dei 40. Vero altrettanto è che, probabilmente, una persona arrivata in quella fascia d’età tracci i primi bilanci sulla sua vita, ma questi, come abbiamo visto nell’altro post, potrebbero non corrispondere con quello che una persona si era immaginata nella sua vita e quindi ingenerare un senso di frustrazione o di delusione. Insomma un terreno ben più insidioso e mobile che non so quanti aiuti classificare per categorie così ampie ed eterogenee. 

Questo il link di riferimento se voleste leggere l’articolo:

http://www.corriere.it/cronache/12_marzo_19/agnese-felicita-quaranta-anni_7bc16b5e-7195-11e1-b597-5e4ce0cb380b.shtml 

L’articolo è della giornalista Maria Luisa Agnese.

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio

P.s. Non ho aggiunto un particolare. L’autore del libro è un veterinario che, credo in base alla sua esperienza acquisita sul campo, ha esteso le sue osservazioni al mondo degli umani. Mi ha molto incuriosito questo dettaglio. Forse il suo punto di vista privilegiato gli ha permesso di scorgere aspetti che noi, evoluti, non riusciamo a scorgere più in noi. Non so. Spero, comunque, che questo dettaglio non influenzi la vostra riflessione!

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L’ansia è un cortocircuito cerebrale?

L'ansia è un cortocircuito cerebraleVi segnalo un interessante articolo che tratta il tema dell’ansia (Repubblica, 02.08.2011). Secondo lo studio, condotto dall’Irccs Medea di San Vito al Tagliamento, in collaborazione con le università di Udine e di Verona alla base del disturbo ci sarebbe un deficit di collegamento comunicazionale tra due aree del cervello che non dialogherebbero appunto, tra di loro. nel momento in cui avviene questo si ingenererebbe nel cervello una sorta di panico che farebbe entrare in crisi il cervello. E noi di conseguenza! Le aree che si troverebbero implicate in questo processo sono le aree parietali e callosali posteriori dell’emisfero destro che sarebbero implicate nella percezione sociale e al riconoscimento del proprio corpo nello spazio. Non vi nascondo quanto mi affascinino queste scoperte, quanto mi piacciano queste infinite porte che stiamo aprendo nel cervello umano.

Credo, naturalmente, che questo tipo di spiegazioni sia del tutto insufficiente per spiegare un fenomeno più complesso e, per sua natura stessa, sociale. Nel momento stesso in cui una realtà è dotata della capacità di auto-osservarsi, entra in gioco una complessità di fattori, una molteplicità di combinazioni che rendono queste spiegazioni deficitarie da vari punti di vista. Tralascia, soprattutto, il valore che quel malessere provoca all’individuo. E questo rende necessariamente lo sguardo dell’ansia dal punto di vista ‘chimico’ uno sguardo parziale. Certo, se questo tipo di conoscenze potessero permettere passi avanti nella conoscenza dei meccanismi che sottostanno al nostro funzionamento non potrebbero che essere salutate con entusiasmo. Il rischio è che, però, si cerchi più una disfunzione e una cura corrispondente che ignorano, come detto, il senso che il malessere ha nella vita dell’individuo che ne soffre. Sono piani paralleli di indagine e per entrambi una polarizzazione eccessiva verso i rispettivi estremi non possono giovare alla comprensione della complessità di una realtà così sfaccettata. 

Intanto, eccovi il link.

L’articolo è a firma di Flavio Bini.

A presto…

Fabrizio

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Bianca come il latte, rossa come il sangue

Bianca come il latte, rossa come il sangueIl post di oggi è dedicato ad un libro che mi ha colpito molto. Si intitola Bianca come il latte, rossa come il sangue è stato scritto da Alessandro D’Avenia (2010). Il libro narra la storia di Leo un sedicenne come tanti altri calato nella tipica realtà di un sedicenne di oggi: lo sport, le amicizie, i primi amori, la scuola. Leo, come apprendiamo fin dall’inizio del libro, ha una idiosincrasia per alcuni colori e ne ama altri: odia il bianco che per lui significa l’assenza e la perdita e ama invece il rosso che per lui ha come valenza quella legata alla vita, alla passione. E  rossi sono i capelli della persona che suscita la sua passione: Beatrice. Beatrice viene conosciuta e avvicinata tramite l’amica Silvia, che costiutisce un porto sereno nella vita di Leo e che appunto fa da tramite tra i due. Silvia è innamorata di Leo, in un gioco di intrecci e rimandi amorosi per cui spesso ci si innamora delle persone più lontane e non ci si accorge di quelle persone che sono a noi più vicine. Beatrice viene conosciuta con lentezza e rispetto e molte delle cose che la caratterizzano sembrano per lo meno strane. Solo con la frequenza Leo si accorge del fatto che sia malata: questa consapevolezza rende il loro rapporto splendidamente tenero, vivo e vero e permette loro di conoscersi e di fidarsi l’uno dell’altro. Tanto Beatrice quanto Leo iniziano ad imparare delle cose l’uno dell’altra, ma è la malattia di Beatrice che sembra dettare i tempi della loro conoscenza. In questo, Leo soprattutto, inizia ad cambiare percezione della vita, passando da una sequela di avvenimenti poco coinvolgenti emotivamente, nel quale l’unica cosa che sembra dare piacere è pensare a come infastidire il nuovo proefessore di filosofia, ad una percezione basata sul confronto con l’altro, i suoi tempi, e le sue prerogative. Questo passaggio è molto coinvolgente e porta ad una ristrutturazione della vita stessa di Leo e delle sue priorità. Questo è uno dei momenti più importanti nel libro, secondo me, e porta ad affrontare un tema di solito tabù per questo tipo di libri: la morte. La morte non è più solo la fine di tutto, diventa un passaggio tramite il quale maturare, potersi specchiare nelle proprie paure e poter in qualche modo riuscire a ricavare una forza o una nuova prospettiva in grado di cambiare la percezione della vita stessa. Leo in questa fase di passaggio sembra apparentemente solo rispetto a quello che gli sta capitando. Lo è nel momento in cui, solo, è obbligato a confrontarsi con se stesso, con i suoi timori soprattutto quella della perdita e con la morte, non solo quella fisica ma soprattutto quella simbolica del suo mondo, un mondo nel quale tutto sembrava permesso, nel quale esistevano dei riti saldi e conosciuti (il calcetto, la scuola…) e aveva dei tempi che lui dettava. Tutto cambia dopo, nella percezione del protagonista. Nella nuova percezione del tempo, la vita va avanti e Leo può apprendere che, per affrontare il cambiamento, dovrà restaurare la stessa idea che aveva della sua vita.  Allora tutti i riti conosciuti acquistano un nuovo valore e anche con gli adulti è possibile costruire rapporti che neanche avrebbe immaginato. E il professore di filosofia diventerà non solo la persona da infastidire ma una delle persone più vicine al quale confidare i propri patemi. 

lnsomma, un libro molto bello e delicato sull’adolescenza. Ma in  generale sulla vita. Un libro che può costituire un ottimo spunto di discussione se condiviso tra genitori e figli. Un libro che consiglio anche agli adulti che vogliano avvicinarsi al mondo dell’adolescenza per ricordare come possono essere totalizzanti certe esperienze in quella fase della nostra vita. 

A presto…

Fabrizio

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Cos’è la psicoterapia?

Cos'è la psicoterapiaAbbiamo già cercato di delineare cosa sia la psicoanalisi (Cos’è la psicoanalisi? pubblicato il 29.03.12) vediamo ora di cercare di caratterizzare meglio cosa sia la psicoterapia, in cosa si avvicini e in cosa si differenzi dalla psicanalisi.

Essenzialmente possiamo definire la psicoterapia come qualunque tipo di trattamento dei disturbi psichici, per via psicologica attraverso l’interazione verbale tra il terapeuta e il paziente. Più in particolare si tende a considerare psicoterapie i trattamenti psicologici alternativi alla psicanalisi. La differenza sostanziale sta nell’obbiettivo: nel corso degli ultimi cinquanta anni, considerato l’aumento di richiesta di trattamento psicoterapico in ampi strati sociali della popolazione, si è passati da una psicoterapia “non mirata” (la psicoanalisi) a psicoterapie “mirate”. Mentre  la psicoanalisi non mira a eliminare il sintomo presentato dal paziente ma a modificare la struttura di fondo, risalendo all’infanzia ed elaborando le “fasi” di evoluzione della personalità, le psicoterapie, attualmente, mirano a eliminare il sintomo o il disturbo di personalità, “elaborandolo” e “spiegandolo con tecniche diverse. Data la maggiore focalità del trattamento la durata di una psicoterapia, di qualsiasi orientamento, è più breve delle terapie analitiche”. [1]

Vediamo di analizzare meglio le somiglianze e le differenze delle due discipline. Innanzitutto il peso principale risiede nel transfert all’interno della relazione. Nella psicoanalisi il transfert ha una valenza che chiamerei più emozionale mentre nella psicoterapia assume un ruolo che definirei più relazionale. Nella psicoanalisi il transfert serve per far si che il paziente trovi presentificati, per così dire oggettivati, non solo le sue esperienze rimosse ma anche i suoi desideri e i suoi fantasmi inconsci. Se per il paziente il transfert si presenta come un sintomo per il terapeuta diviene, invece, il terreno privilegiato della terapia. Nello spazio del transfert, l’analizzato non solo rievoca ma anche rivive il rimosso. [2] Giocano un ruolo di scambio in entrambi gli approcci ma forse con una sfumature diverse. Nella psicoanalisi il transfert serve per rivivere nella psicoterapia per relazionarsi. Altro aspetto che mi preme sottolineare è che la psicoterapia sarebbe mirata mentre la psicoanalisi sarebbe più generale e riguarderebbe l’intera vita dell’individuo non concentrandosi, quindi, esclusivamente sul sintomo. Questa definizione è, secondo me, in parte da stemperare perché se è vero che la psicoterapia ha l’avvio dal trattamento di un determinato simbolo, è anche vero che da questo inizio possono prendere l’avvio terapie più ampie che possono anche durare di più nel tempo. Vero è che, comunque, genericamente la psicoterapia è temporalmente più breve rispetto alla psicoanalisi che può durare anche diversi anni. Un altro aspetto che possiamo prendere i considerazione è il ruolo del terapeuta all’interno della terapia. Nella psicoanalisi classica il terapeuta ha un ruolo di catalizzatore emotivo del paziente, un ruolo se vogliamo, passivo rispetto alla storia del paziente stesso. L’immagine classica è del paziente sdraiato con dietro il terapeuta che lo ascolta quasi in silenzio. Il ruolo del terapeuta all’interno della psicoterapia è più attivo, dal momento che il presupposto è che il terapeuta, entrando a far parte del sistema con il paziente, gioca con lui un ruolo all’interno del processo terapeutico. L’uso dei termini attivo e passivo non denota in nessun modo una differenza di ‘valore’ (è meglio uno rispetto all’altro approccio), quanto una differenziazione sostanziale sia del comportamento che delle premesse concettuali del rapporto tra terapeuta e paziente. Volendo riassumere i punti di differenza avremmo:

  1. L’uso del transfert;
  2. La durata della terapia;
  3. Maggior ampiezza del lavoro psicoanalitico;
  4. Diverso coinvolgimento del terapeuta. 
Come tutte le schematizzazione, anche questa, parziale, è solo esemplificativa. Un ultimo pensiero. Abbiamo sottolineato le differenza ma mi piace pensare che abbiano in comune il benessere della persona che si trova a dovervi ricorrere.
Che ne pensate?

 A presto…

Fabrizio

[1] Cancrini, L., La Rosa, C. (1991), Il vaso di Pandora, Roma, Carocci, pag. 289

[2] Vegetti Finzi, S. (1986), Storia della Psicoanalisi, Mondadori, Milano, pp. 48-49

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Trasloco su Blog Therapy…

Trasloco su Blog Therapy...Vi segnalo e vi invito a leggere l’intervista che il collega Enrico Maria Secci, autore e curatore di BlogTherapy ha pensato di fare a me e ai miei colleghi di blog Carla Sale Musio col suo blog Io non sono normale: IO AMO e Caterina Steri ed il suo Gocce di Psicoterapia. Se cliccate sui nomi dei vari blog, in arancio, sarete reindirizzati sui rispettivi lavori. Con una iniziativa lodevole per l‘intento di includere, Enrico ha pensato di proporre a tutti noi una sorta di intervista nell’ottica di costruire una rete tra coloro che si occupano di psicologia con blog sulla piattaforma di Tiscali. Le nostre risposte permetteranno alle persone che ci seguono così numerose di poterci conoscere meglio e conoscere meglio anche le ragioni che ci hanno spinto a creare, a seguire e a coltivare il nostro spazio virtuale nel quale cerchiamo di far crescere, con voci diverse, una maggiore consapevolezza e una maggiore attenzione verso la nostra professione e verso vari aspetti della vita e delle relazioni di ciascuno di noi. Come detto, ognuno declina il tema con le sue diverse sensibilità e con le sue diverse prospettive ma ciò che colpisce è la possibilità di aggregare queste diverse voci per aumentare una pluralità di pensiero che non solo manca ma che sembra addirittura disincentivata. Per questo l’iniziativa di Enrico mi sembra così importante.

Detto questo, vi segnalo appunto la mia intervista. Non conosco le date di pubblicazione degli altri interventi, quindi se volete conoscere quelle delle mie colleghe, vi invito a prestare attenzione a BlogTherapy. Naturalmente, spero che anche il promotore risponda alle domande e permetta ai suoi numerosi lettori di conoscerlo meglio.

Fatemi sapere che pensate di questa iniziativa!

 

A presto…

Fabrizio

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