Come parlare della morte ai bambini (2)

come parlare della morte ai bambini 2La domanda, allora, sorge spontanea: chi proteggono i genitori con la scelta del silenzio? Abbiamo paura di parlare al bambino dei nostri sentimenti, abbiamo timore di mostrare la nostra fragilità. E soprattutto siamo impreparati a discutere – usando termini che i bambini possono comprendere – e a rispondere alla miriade di domande che hanno da porci.

Sono gli adulti i primi in difficoltà nell’esporre le loro emozioni. I genitori si sentono impreparati a discutere e a confrontarsi su tematiche così vaste. Sono gli adulti a sentirsi in difficoltà nell’immaginare quale tipo di termini possano meglio essere utili per condividere con il bambino l’esperienza della morte. Sono gli adulti che si sentono inadeguati ad avere una conversazione con un bambino su un tema così ostico. Sono gli adulti che sentono la difficoltà di fronteggiare i figli con le loro domande, i dubbi, le paure, le speranze. Quello che gli adulti non si dicono è, in realtà, abbastanza semplice: la morte mette in crisi ognuno di noi. Ci obbliga a riflettere sulla nostra vita e sul suo senso, sul nostro destino, sulle nostre scelte. È questo il confronto che cerchiamo di evitare. Quello con noi stessi, con i nostri dubbi, le nostre paure, le nostre speranze. Quella serie di domande che un bambino, prima di imparare che di certe cose è sempre meglio non parlare, fa ai propri genitori con il desiderio di condividere queste emozioni

Come si può interrompere questa catena di silenzi? Una delle possibilità è quella di accogliere senza giudicare le manifestazioni del dolore: la rabbia, lo scoramento, la delusione, il pianto:

Piangere è uno sfogo utile. Spesso ciò che aiuta davvero è piangere con qualcuno per ricevere appoggio e contenimento affettivo. La condivisione affettuosa di un pianto intenso e non trattenuto è una premessa fondamentale. Essa veicola implicitamente un messaggio strutturante, che dovrà successivamente ed utilmente essere esplicitato: ‘Capisco la tua sofferenza, la trovo legittima, la tua sofferenza e anche la mia, insieme possiamo sostenerla. Il fatto che ci vogliamo bene è anche la risorsa con cui possiamo affrontare le paure, le ansie e le separazioni!’

Questo è un punto particolarmente importante. Il pianto potrebbe essere un momento di condivisione, un momento che accomuna le emozioni del bambino e del genitore, un momento nel quale ognuno può sentire accolto l’altro, ognuno coi propri mezzi. Accogliere e non giudicare o distrarre: frasi come ‘smetti di piangere’, ‘tanto piangere non serve a nulla’, ‘pensa ad altro’, torna a giocare’, ‘non ora’, sono frasi dette talvolta senza prestare troppa attenzione e che, invece di aiutare, possono far sentire soli e isolati. Non accolti appunto. E lascia la manifestazione del dolore incompiuta, incompleta e carente.

Tutti i genitori che mi chiedono cosa fare nel caso la morte entri nell’esperienza di vita di un bambino vengono invitati sul terreno della introspezione e della condivisione, convinto come sono che la cosa più utile sia parlare e con-dividere quello che si sta provando. Magari partendo da se stessi, da quello che si prova e da come ci si sente. Indubbiamente temo sia la scelta più ‘difficile’, più ardua da fare perché opposta a tutto quello che ci hanno insegnato, ma credo anche la più responsabile dal momento che permette di dare un senso, di significare un evento nella storia di vita del bimbo che, altrimenti, rimarrebbe inespresso e sospeso.

Per quanto dolorosa sia la perdita, i bambini non hanno bisogno di distrarsi, non hanno bisogno di pensare ad altro, non hanno bisogno di adulti per i quali quello ‘non è il momento adatto’. I bambini hanno un profondo bisogno di verità, hanno un profondo bisogno di adulti che si assumano la responsabilità di raccontare e condividere con loro questa verità, per quanto dolorosa sia anche per gli adulti

Parlare della morte ai bambini vuoi dire a prepararli a capire la realtà, aiutarli a crescere. Quando muore un nonno, una zia, un genitore, è indispensabile che la verità non venga taciuta o mascherata ai bambini. I bambini sono desiderosi di verità. Se al bambino non è permesso confrontarsi su questo tema cerca di comprenderlo da solo e a volte si crea delle fantasie assurde, il che è molto peggio dell’affrontare la dura realtà della morte. [1]

Verità, non bugie. Avete presente o vi è mai capitato (da genitori o da bambini) che alla morte di una animale domestico lo abbiate (o vi abbiano) semplicemente sostituito l’animale morto con un altro? L’intento è sempre lo stesso: cercare di non (far) vivere l’esperienza dolorosa della morte. Questa apparentemente innocua bugia è la rappresentazione di come affrontiamo la morte: sostituendo l’oggetto amato per non far soffrire. Se l’intento è comprensibile, non altrettanto comprensibili sono le conseguenze di questo gesto: insegniamo (o impariamo) che di alcune cose non si parla, che sono brutte, che sono da dimenticare. Vi invito a fare il contrario: fare una profonda dichiarazione di verità può essere doloroso, ma insegna una grande lezione: non c’è nulla che provo del quale mi debba sentire colpevole di parlare

Come sempre chi volesse/potesse condividere la sua esperienza può farlo contattandomi per mail (fabrizioboninu@gmail.com) oppure per telefono (3920008369). 

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

[1] Bolognini, N. (2010), Come parlare della morte ai bambiniSie Editore, Pinerolo, pp. 16-17

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Come parlare della morte ai bambini (1)

come parlare ai bambini della morteParlare di morte è difficile. All’interno della società che ha fatto dell’eterna giovinezza l’ideale più alto, anche solo nominare la sua nemesi mette in difficoltà. Quando ci troviamo ad affrontare l’argomento, stentiamo a trovare le parole adatte, oscillando tra frasi di circostanza e tentativi di rimozione. E sembra ancora più complicato parlare di un tema così complesso con bambini o con adolescenti. Come possiamo parlare di una cosa così dolorosa, così ineluttabile con persone che stanno appena iniziando a vivere la loro vita?

Eppure, per quanto non ci piaccia, è un’esperienza che entra a far parte della vita, spesso fin dalle prime battute. In terapia assisto a situazioni di questo tipo: genitori, peraltro molto premurosi e attenti alle esigenze dei loro figli, si trovano completamente in difficoltà e spiazzati riguardo al come affrontare un argomento così spinoso coi propri figli. La difficoltà è proporzionale al grado di vicinanza (parentale o emotiva) con la persona deceduta. ‘Non volevo farlo star male parlandogliene‘, mi ripetono spesso. Come se la persona cara potesse semplicemente svanire dalla vita o dai ricordi del bambino senza lasciare traccia. Naturalmente questo non è possibile e serve, allora, trovare un modo per condividere quello che avviene. Per farlo utilizzerò alcuni passi di un libro: trovate tutti i riferimenti bibliografici in fondo al post.

Partiamo da una prima considerazione: Gli adulti creano una rischiosa congiura del silenzio intorno al tema della morte. A volte si rimane in silenzio perché si è convinti che la psiche infantile non sia in grado di confrontarsi senza danni con un’esperienza di lutto. I bambini e gli adolescenti si trovano spesso nell’impossibilità di affrontare ed esprimere il lutto, perché non trovano negli adulti che li circondano e anche nella società stessa, un supporto educativo, psicologico ed emotivo adeguato alla perdita.

Questo punto è molto importante: gli adulti costruiscono una sorta di muro di silenzio intorno ai propri figli per non farli confrontare e per proteggerli da un tema doloroso. L’intento potrebbe essere lodevole, ma ogni muro ha una doppia valenza: se da un lato protegge, dall’altro isola. In questo caso, può proteggere da un dolore manifesto (ci sarebbe da chiedere chi protegga questo silenzio ma ci torneremo più avanti!) d’altro canto, però, isola profondamente il bambino che si trova a comprendere di dover gestire autonomamente i propri dubbi, i propri timori perché gli adulti intorno a lui non sembrano intenzionati a condividere con lui questo. Gli adulti utilizzano spesso questo meccanismo coi piccoli (non ne parlo=non esiste) ritenendo il silenzio una grande risorsa protettiva per i figli. In realtà spesso il silenzio genera mostri. Nel silenzio, nella mancanza di confronto, nell’impossibilità di condivisione, proliferano le paure che non possono essere espresse, e crescono dubbi che difficilmente vengono condivisi ma così imparano (e così riproporranno a loro volta da grandi), che di certe cose non si parla ed è meglio che ognuno le gestisca da solo

Andiamo avanti: Sovente i bambini rimangono esclusi dalle comunicazioni e dai rituali che accompagnano la morte di una persona amata. Tale esclusione riflette la grande difficoltà degli adulti nell’affrontare e nel condividere i sentimenti e le emozioni che seguono la perdita di una persona cara. Erroneamente pensiamo che i bambini debbano essere protetti dal tema della morte perché riteniamo che non possiedano gli strumenti psichici, intellettivi ed emotivi per poterlo sostenere. Crediamo che il dialogo con i nostri bambini arrechi loro un dolore insopportabile. Ma questo dialogo fa più male agli adulti, feriti ed impreparati ad affrontare un simile argomento, che non ai bambini desiderosi di verità e di condivisione. [1] 

I rituali funebri, qualsiasi essi siano e comunque vengano celebrati, hanno come scopo quello di sancire una chiusura, scrivere un nuovo capitolo relazionale tra la persona defunta e le persone legate a lui/lei. Anche per gli adulti ha un’alta valenza simbolica, perché permette ad un’esperienza così misteriosa e dolorosa di avere un senso, di essere ricompresa nella vita stessa delle persone che rimangono. Eppure capita che i genitori mi dicano di non aver fatto assistere i figli al funerale della persona amata. Pur comprendendo la difficoltà, temo che questa strategia ottenga in realtà risultati opposti a quelli sperati. Se l’intento, infatti, è quello di proteggere i propri figli, va presa anche in considerazione l’impossibilità, in caso di non partecipazione al rituale che viene celebrato, di salutare la persona amata. Non far partecipare i bambini a questo rito, non permette loro di chiudere l’esperienza di vita con quella persona. È come se l’evento rimanesse sospeso, non definito, aperto. Il bambino, che magari ha già sentito difficoltà a trovare persone con le quali condividere il dolore per la scomparsa della persona, si ritrova anche nell’impossibilità materiale di potergli dire addio e di poter, così, chiudere simbolicamente il percorso di vita con la persona deceduta

– Continua –

[1] Bolognini, N. (2010), Come parlare della morte ai bambiniSie Editore, Pinerolo, pp. 16-17

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Le mete della terapia: un caso clinico (2)

le mete della terapiaSe torniamo per un momento alle tre regole, possiamo vedere come il sistema familiare sia stato destabilizzato da una versione alternativa del loro racconto e gli sia stato ‘impedito’ di procedere continuando nel mito  condiviso per il quale il figlio costituisse l’unico contrasto all’interno della famiglia. Questa sorta di disvelamento riuscì in qualche modo a far riposizionare tutti gli attori in gioco, padre, madre e figlio, su posizioni diverse rispetto a quelle iniziali. Il forte attrito familiare non era solo del figlio ma, anzi, coinvolgeva molto più il livello genitoriale e di coppia. Il figlio si ritrovava in qualche modo ad agire questa frizione, attuando dei comportamenti che non gli erano propri neanche a detta dei genitori. Le sedute successive servirono per stabilizzare la presa di coscienza di questa situazione, servirono a tutti e tre i protagonisti ad accettare la situazione tra loro, farla emergere e sopratutto potersi confrontare in merito, anziché fingere che non esistesse e che non stesse provocando lacerazioni così forti.  

Il ruolo del terapeuta all’interno di questo processo è quello di agevolare e proporre una visione alternativa di quello che sta succedendo:  il terapista non ricerca l’ipotesi più plausibile, non ritiene di avere ragione nella sua interpunzione dei fatti, si propone di creare e offrire delle ipotesi alternative, delle connessioni diverse tra gli eventi per sbloccare la famiglia da una interpretazione rigida che non permette la risoluzione del problema. È in questo processo di punteggiatura che si fa un ampio uso della ridefinizione [1]. Questo è uno degli elementi maggiormente interessante, perché permette, sia nelle terapie familiari sia nelle terapie individuali, di svincolare la famiglia dal racconto che si è data e che costituisce un blocco e una restrizione nella sua ulteriore evoluzione. Un nuovo racconto condiviso tra i membri permette la ridefinizione di una serie di fattori: ruoli, percezioni, collegamenti, relazioni. Dovendo riassumere tutte queste funzioni in un termine credo potrebbe essere senso. Il senso di quello che succede, il senso di come sia organizzata la famiglia (o la vita dell’individuo!) viene ricostruita a partire da considerazioni diverse rispetto a quelle con le quali la famiglia stessa è arrivata in terapia. Immaginate, nel caso della famiglia raccontata, come possa essere stato liberatorio per il figlio poter scrollarsi di dosso la responsabilità di tutto il malessere che circolava all’interno della famiglia e sentirsi come parte di quello che stava succedendo a livello più ampio e che coinvolgeva elementi che andavano ben oltre le sue frequentazioni o il suo rendimento scolastico oppure a come dev’essere stato importante, per quanto doloroso, per i genitori poter discutere apertamente del nuovo assetto che si stava prospettando per la loro famiglia.

La famiglia viene in terapia con un’ipotesi che organizza il suo rapporto con la realtà; compito del terapista è impedire che questa perseveri nelle premesse. Non si tratta certo di sostituire l’interpunzione della famiglia con un’ altra più ‘corretta’ quanto di proporre varie letture perché la famiglia a prendere a organizzare i dati [1].

Nel nostro caso, non si tratta quindi di dare una ‘versione corretta’ di quello che sta succedendo, quanto di proporre una versione alternativa a quello che viene portato, una nuova visione che permetta loro di uscire dall’unico racconto di senso che si sono autorizzati a vivere. Torniamo a questo punto alla domanda iniziale: abbiamo forse curato la famiglia? L’abbiamo guarita? Curare o guarire sono termini che presuppongono riportare qualcosa o qualcuno da uno stato di malattia ad uno stato di sanità. Possiamo dire di avere fatto questo? Probabilmente no, non si è trattato di curare quanto di agevolare un percorso in un momento evolutivo specifico della famiglia o dell’individuo. Più che di cura, allora, sarebbe necessario parlare di una sorta di processo accompagnatore. Utilizzando un’immagine, mi piace immaginarlo simile al compito che ha un’ostetrica quando aiuta una donna nel parto: non la sta guarendo dalla gravidanza, la sta accompagnando ed aiutando all’interno di un processo che determina l’enorme cambiamento che sta coinvolgendo la sua vita. 

Questo è uno degli enormi obiettivi della terapia: un accompagnamento consapevole, attento e partecipe nel percorso di cambiamento che una famiglia, o un individuo, decidono di affidarti. Un percorso che porta in qualche modo alla ristrutturazione della prospettiva di vita dell’individuo che decide di fidarsi di noi.

Credo sia una meta, un traguardo decisamente più appassionante di quello di voler guarire una famiglia (o una persona).  

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

[1] Boscolo, L., Caille, P., et al. (1983), La terapia sistemica, Editore Astrolabio, Roma, pp. 46-47

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Le mete della terapia: un caso clinico (1)

le mete della terapiaUno degli interrogativi più importanti, che spesso le persone con le quali lavoro mi chiedono, è quali possano essere considerate le mete, gli obiettivi della terapia. Qual è l’obiettivo che si dovrebbe raggiungere in terapia, quali sono gli scopi, e verso cosa sarebbe necessario tendere nel lavoro? All’interno della cornice sistemica, orientamento psicoterapeutico nel quale sono specializzato, il concetto stesso di malattia è messo in discussione, sostituito dal concetto di significato: un comportamento che sembra ‘malato’ dall’esterno, spesso acquista un senso nel momento in cui ci si rende conto che ha un’utilità all’interno del sistema familiare nel quale viene portato avanti. In quest’ottica epistemologica, questa premessa ha, come necessaria conseguenza, considerare come l’obiettivo della terapia non possa essere la ‘guarigione’, dal momento che non c’è nessuna guarigione da perseguire. L’obiettivo può allora diventare la consapevolezza dei meccanismi che, diventati automatici, sono talmente radicati e istintivi da diventare del tutto inconsapevoli. L’obiettivo può essere quello di una risignificazione, costruire un nuovo significato a ciò che definiamo ‘malato’. Questa presa di coscienza presuppone un cambiamento? Non necessariamente, dal momento che, data maggiore consapevolezza al sistema familiare che lo persegue, la famiglia stessa potrebbe decidere comunque di portare avanti quel tipo di comportamento. Ma allo stesso tempo è vero che qualunque presa di consapevolezza, qualunque riflessione sui modi che sottostanno al comportamento stesso costituisce già di per  un cambiamento perché porta quel comportamento da uno stato di automatismo ad uno stato di maggiore consapevolezza.

Come si ottiene che si dia l’avvio ad un processo terapeutico?

Tre sono i momenti (…):
1) destabilizzare il sistema ponendosi come campo di forza esterno in grado di provocare o amplificare una fluttuazione, offrendo informazioni alternative e una lettura differente degli accadimenti;
2) impedire che la famiglia proceda nel solito percorso e favorire l’introduzione di informazioni che facilitino il processo di riorganizzazione introducendo una costante;
3)  sapersi separare al momento in cui si innesta il processo di riorganizzazione (Fivaz, 1980)[1]

Va fatta una premessa: l’autore fa questo lavoro riferendosi specificamente alla terapia familiare ma credo che il senso sia estendibile anche alle terapie individuali. Il terapeuta, all’interno della terapia familiare, può dunque dare vita a tre momenti diversi: può destabilizzare il sistema offrendo un racconto diverso rispetto a quello che si da la stessa famiglia. Proporre una lettura alternativa a quello che è il racconto della famiglia, può impedire che essa torni o tenda al solito percorso, introducendo in questo modo una costante nuova, una variabile, che possa modificare la visione. Il terapeuta dovrebbe, infine, comprendere quando questo processo è avviato e riuscire a separarsi, favorendo l’autonomia, l’individuazione e l’indipendenza della famiglia.

Un esempio concreto renderà questo discorso più facilmente comprensibile: tempo fa avevo in terapia la famiglia Bianchi, composta da padre, madre e un figlio di 16 anni. Vennero perché il figlio, a loro dire, era particolarmente indisponente, non faceva più nulla di quello che doveva fare, andava male a scuola, frequentava persone che non piacevano ai genitori, aveva iniziato a fumare e così via. Volevano che lo curassi, che lo facessi tornare ‘normale’. Accolsi questa loro richiesta e proposi loro qualche incontro col ragazzo. Il ragazzo che mi si presentò era molto diverso dalla descrizione che me ne era stata data: era un ragazzo disponibile, aperto, molto educato e faticai a riconoscere in lui il ‘mostro’ che mi era stato dipinto.

Pensai, allora, che un incontro con tutti e tre i membri della famiglia assieme potesse far incontrare le diverse visioni che avevano sulla loro stessa famiglia. Nell’appuntamento successivo vennero, dunque, tutti e tre e, per lo meno inizialmente, la seduta si concentrò su quanto il comportamento del figlio fosse l’unica causa del malessere in famiglia. Con tutti i membri del nucleo familiare presenti era però possibile rendere loro l’idea che questo focus così forte sul comportamento del figlio, potesse anche essere un modo per ‘occultare’ qualunque altro movimento all’interno della famiglia. Concentrarsi esclusivamente sul comportamento del figlio rendeva completamente invisibile tutto il resto che riguardava la famiglia e non lasciava molto spazio per i malesseri dei singoli membri. Tentai di passare loro la mia idea che il comportamento del figlio costituisse una sorta di grande distrattore familiare che non permetteva di vedere altro. Cos’altro accadeva in famiglia? Spostando il comportamento del ragazzo dal centro dell’attenzione, vennero fuori aspetti particolarmente interessanti. Il padre era completamente insoddisfatto della sua vita lavorativa e meditava, avendolo di fatto già deciso, di partire all’estero per cercare di fare qualcosa di più interessante oltreché più remunerativo. D’altro lato la madre era completamente insoddisfatta (e spaventata) da questa prospettiva, ed era altrettanto insoddisfatta della piega che stava prendendo la sua vita familiare, dal momento che si apprestava a diventare una madre sola con un figlio adolescente, con un marito lontano per molti mesi all’anno che non avrebbe più potuto occuparsi attivamente dell’educazione del figlio. Al figlio non era stato detto nulla dell’enorme cambiamento che si andava prospettando ma, come tutti voi avrete avuto modo di sperimentare in famiglia, le cose le aveva in qualche modo intuite anche se nulla era stato apertamente ammesso (potremmo aprire una parentesi enorme sulla gestione del dialogo in questa famiglia, soprattutto nei confronti del figlio, ma il tema ci porterebbe troppo lontano dall’idea centrale di questo post). Insomma, una serie di movimenti, dei quali non si poteva neanche parlare, stavano interessando tutto il nucleo familiare. Ecco allora che il comportamento del figlio, concomitante con questa fase di vita familiare, acquista un significato del tutto diverso. Il comportamento del ragazzo ha un senso contrario rispetto al valore che ne veniva dato nella descrizione iniziale: anziché disturbatore della pace familiare, il ragazzo catalizza le attenzioni dei genitori, permettendo a tutti loro di non concentrarsi su un divario ben più pericoloso e consistente.

– CONTINUA –

[1] Boscolo, L., Caille, P., et al. (1983), La terapia sistemica, Editore Astrolabio, Roma, pp. 46-47

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La persecuzione del bambino

violenza sui bambini

Tra i temi dei quali amo scrivere e occuparmi, una menzione particolare andrebbe fatta per i bambini e gli adolescenti. Il lavoro in loro compagnia è fonte di continue scoperte ed è spesso grazie all’incontro con le loro esigenze che le mie opinioni si affinano e migliorano.

Non sempre è stato così e, soprattutto all’inizio, mi sono trovato imprigionato all’interno di un’ideologia ‘adultocentrica’ che mi ha messo in difficoltà rispetto al confronto con i bambini e con i ragazzi. Rimuovendo tutto ciò che siamo stati e tutto ciò che abbiamo subito da bambini, una volta cresciuti costruiamo un modo di pensare che colloca l’adulto in una posizione privilegiata: questo ostacola la comunicazione e l’ascolto e fa si che idee quali superiorità, durezza, insensibilità, violenza, maltrattamento e costrizione si frappongano all’ascolto aperto e autentico della loro verità.

In questo senso, mi ha impressionato il libro dal quale ho tratto il brano che vi riporto. Scritto da Alice Miller, psicologa e psicoterapeuta svizzera, la quale si occupò, in quasi tutte le sue opere, della relazione tra i maltrattamenti subiti da bambini e i successivi maltrattamenti inflitti, una volta che questi bambini sono diventati adulti, alla generazione successiva. Nei suoi scritti la Miller arrivò a criticare pesantemente la psicoanalisi freudiana che, secondo l’autrice, costituisce un’ulteriore rimozione rispetto alle violenze subite dai bimbi in nome di alti principi come l’educazione. Il brano, riportato integramente, è tratto dall’opera La persecuzione del bambino (trovate tutti i riferimenti bibliografici alla fine del post) e costituisce una sorta di manifesto del processo che, partendo dall’infanzia, fa di ognuno di noi le vittime delle coercizioni subite da bambini che si perpetuano una volta che quel bambino sia diventato, a sua volta, adulto. Solo partendo da questa consapevolezza è possibile avvicinare, guardando con occhi diversi, il mondo dell’infanzia di oggi. Personalmente, soprattutto nel mio lavoro, reputo questa attenzione e questa consapevolezza la rappresentazione di ciò che un terapeuta attento dovrebbe avere in mente nel momento in cui ha la fortuna di lavorare con un bambino o con un ragazzo:

1) Ogni bambino viene al mondo per crescere, svilupparsi, vivere, amare ed esprimere i propri bisogni e sentimenti, allo scopo di meglio tutelare la propria persona.

2) Per potersi sviluppare armoniosamente, il bambino ha bisogno di ricevere attenzione e protezione da parte di adulti che lo prendano sul serio, gli vogliano bene e lo aiutino onestamente a orientarsi nella vita.

3) Nel caso in cui questi bisogni vitali del bambino vengano frustrati, egli viene allora sfruttato per soddisfare i bisogni degli adulti, picchiato, punito, maltrattato, manipolato, trascurato, ingannato, senza che in suo aiuto intervenga alcun testimone di tali violenze. In tale modo l’integrità del bambino viene lesa in maniera irreparabile.

4) La normale reazione a tali lesioni dell’integrità sarebbe di ira e dolore, ma poiché in un ambiente simile l’ira rimane un sentimento proibito per il bambino e poiché l’esperienza del dolore sarebbe insopportabile nella solitudine, egli deve reprimere tali sentimenti, rimuovere il ricordo del trauma e idealizzare i suoi aggressori. In seguito non sarà più consapevole di ciò che è stato fatto.

5) I sentimenti di ira, disperazione, desiderio struggente, paura e dolore – ormai scissi dallo sfondo che li aveva motivati – continuano tuttavia a esprimersi in atti distruttivi rivolte contro gli altri (criminalità e stermini) o contro se stessi (tossicomania, alcolismo, prostituzione, disturbi psichici, suicidio).

6) Vittime di tali atti vendicativi sono assai spesso i propri figli, che hanno la funzione di capri espiatori e la cui persecuzione è ancora sempre pienamente legittimata nella nostra società, anzi gode persino di alta considerazione, non appena si autodefinisca ‘educazione’. Il tragico è che si picchiano i propri figli per non prendere atto di ciò che ci hanno fatto i nostri genitori.

7) Perché un bambino maltrattato non divenga un delinquente o un malato mentale, è necessario che egli, perlomeno una volta nella vita, incontri una persona la quale sappia per certo che ‘deviante’ non è il bambino picchiato e smarrito, bensì l’ambiente che lo circonda. La consapevolezza o l’ignoranza della società aiutano, in tal senso, a salvare una vita o contribuiscono a distruggerla. Di qui la grande opportunità che viene offerta a parenti, avvocati, giudici, medici e assistenti sociali di stare, senza mezzi termini, dalla parte del bambino e di dargli la loro fiducia.

8) Finora la società proteggeva gli adulti e colpevolizzava le vittime. Nel suo accecamento, essa si appoggiava a teorie che, corrispondendo ancora interamente al modello educativo dei nostri nonni, vedevano nel bambino una creatura astuta, un essere dominato da impulsi malvagi, che racconta storie non vere e critica i poveri genitori innocenti, oppure li desidera sessualmente. In realtà, invece, non v’è bambino che non sia pronto ad addossarsi lui stesso la colpa della crudeltà dei genitori, al fine di scaricare da loro, che egli continua pur sempre ad amare, ogni responsabilità.

9) Solo da alcuni anni, grazie all’impiego di nuovi metodi terapeutici, si può dimostrare che le esperienze traumatiche rimosse nell’infanzia vengono immagazzinate nella memoria corporea e che esse, rimaste a livello inconscio, continuano a esercitare la loro influenza sulla vita dell’individuo ormai adulto. I rilevamenti elettronici compiuti sul feto hanno inoltre rivelato una realtà che finora non era stata percepita dalla maggior parte degli adulti: e cioè che sin dai primi attimi di vita il bambino è in grado di recepire e di apprendere atteggiamenti sia di tenerezza che di crudeltà.

10) Grazie a queste nuove conoscenze, ogni comportamento assurdo rivela la sua logica sino a quel momento nascosta, non appena l’esperienza traumatica subita nell’infanzia non debbano più rimanere nell’ombra.

11) L’aver acquisito sensibilità per le crudeltà commesse verso i bambini, che sinora venivano generalmente negate, e per le loro conseguenze arresterà il riprodursi della violenza di generazione in generazione.

12) Individui che nell’infanzia non hanno dovuto subire violazioni alla loro integrità, e a cui è stato consentito di sperimentare protezione, rispetto e lealtà da parte dei loro genitori, da giovani e anche in seguito saranno intelligenti, ricettivi, capaci di immedesimarsi negli altri e molto sensibili. Godranno della gioia di vivere e non avranno affatto bisogno di far del male agli altri o a se stessi né addirittura di uccidere. Useranno il proprio potere per difendersi, e non per aggredire gli altri. Non potranno fare a meno di rispettare e proteggere più deboli, ossia anche i propri figli, dal momento che essi stessi, un tempo, hanno compiuto tale esperienza, e dal momento che fin dall’inizio in loro è stato memorizzato proprio questo sapere (e non la crudeltà). Questi individui non saranno mai nella condizione di capire come mai i loro avi nel passato abbiano dovuto impiantare una mastodontica industria bellica per sentirsi a loro agio e sicuri nel mondo. Dal momento che il compito inconscio della loro vita non consisterà più nel difendersi dalle minacce subite nell’infanzia, essi saranno in grado di affrontare in maniera più razionale e creativa le minacce presenti nella realtà.[1]

 

 Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

[1] Miller, A., La persecuzione del bambino, Bollati Boringhieri, Torino, 1987, pag. XII e seg.

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Educhiamoci ad educare

educazioneCi siamo occupati altre volte di cosa voglia dire educare: educare, secondo la definizione comune, è dato da quella serie di attività che servono e sono finalizzate a favorire lo sviluppo di una persona. Questa definizione è molto generica, dal momento che mette l’accento sulle attività consapevoli che vengono svolte per educare un individuo, ma non tiene conto della molteplicità di attività che sono educative senza che l’educatore ne sia consapevole. Il modo in cui mi comporto è educativo, perché funge da esempio, da paradigma al quale l’altro può rifarsi prendendolo a modello, ed è un modello educativo espresso spesso senza che, appunto, se ne sia consapevoli.

Nell’immagine comune del termine poi, è sempre l’adulto che educa il minore. Quasi mai viene preso in considerazione come un minore possa educare un adulto e anzi sembra una sorta di controsenso considerare che un minore possa farlo. Diversi altri aspetti dovrebbero essere presi in considerazione in una riflessione su cosa significhi educare: uno dei più rilevanti riguarda il fatto che nella relazione educativa è implicita una condizione di disparità tra chi educa (e sa) e chi deve essere educato (e non sa). L’educatore, soprattutto se il suo ruolo è riconosciuto e accettato a livello sociale, ha più potere di chi viene educato, e spesso si serve di questo potere nell’atto stesso di educare. Interessanti, a mio avviso, i passaggi che vi riporto:

Prima riflessione: chi educa rischia perché nella relazione educativa mette a confronto due soggetti, che non hanno una posizione paritaria: ce n’è uno più forte ed uno più debole e c’è sempre il rischio che il soggetto che ha più esperienza, più competenza, più capacità di parola sia tentato di usare questo potere non per far crescere il soggetto più inesperto e più facile, ma per approfittarne. È un rischio che si ritrova nella relazione educativa, nella relazione parentale, nella stessa relazione terapeutica: in queste situazioni si struttura un piano inclinato, dove il rischio è la distorsione strumentale della relazione a fini di potere da parte del soggetto più forte. Chi educa rischia, perché c’è sempre la tentazione da parte del genitore, dell’educatore, il terapeuta stesso di utilizzare la relazione interpersonale Per sostenere le proprie difese e imporre in qualche modo i propri bisogni.

Credo sia necessario prestare particolare attenzione a questo potere ed esserne consapevoli dal momento che, se non riconosciuto, può portare, nella relazione educativa, verso l’imposizione piuttosto che verso la proposizione di un modello. Anche nella relazione terapeutica questo rischio è particolarmente forte e rischia di far deragliare la relazione stessa nel momento in cui il terapeuta invece di sollecitare l’autonomia e le risorse del paziente, si sostituisce a lui con suggerimenti e consigli, perché ‘sa che cosa sia giusto fare’.

Seconda riflessione: chi educa rischia e chi non rischia non educa. Il rischio inevitabile, necessario che non si può eludere nella relazione educativa è quello di avvicinarsi alle emozioni. Non educa chi non vuole rischiare di mettere in discussione la propria immagine narcisistica di soggetto razionale, sempre è comunque capace di controllare le emozioni e le situazioni. Non educa che non scende dal piedistallo della propria competenza educativa auto rassicurante, raggiunta presunta mente una volta per tutte. Non educa chi evita di avvicinarsi al mondo fluido, sofferto, conflittuale delle emozioni. Non educa chi non è disponibile a sviluppare l’intelligenza emotiva, l’intelligenza del cuore.[1]

Questo secondo punto è facilmente fraintendibile. Se è vero che chi educa rischia e chi non rischia non educa, nel senso che chi educa deve mettere in gioco se stesso, è altrettanto vero che spesso chi educa cerca di non rischiare per niente perché si difende, dall’alto della sua posizione privilegiata di potere, dal mettersi in gioco, dal condividere, dal rendere la relazione più paritaria e non basata sostanzialmente sul gioco di potere nascosto per cui tu fai ciò che dico io perché io so che cosa sia giusto per te. Se questo non avviene è lecito ricorrere a qualunque strumento per ottenere i risultati voluti. L’incognita è che ciò sfoci nell’autoritarismo, rischio al quale ci si può opporre coltivando l’autorevolezza. Diverso è infatti essere autoritari, fare leva sulla forza o sul proprio potere per imporre la propria volontà, tutt’altra cosa è essere autorevoli, avere cioè un’autorità educativa riconosciuta per le proprie capacità e non per la propria forza. Nel primo caso è necessario fare qualcosa (farsi obbedire, sgridare, punire…) nel secondo, ben più difficile, è necessario essere (essere coerenti, credibili, contenitivi…).

La differenza come sempre la costruiamo noi. Sono sempre più convinto che educare sia fornire un esempio, coerente e centrato a partire da quello che siamo. Questo non vuol dire non dover porre delle regole o non farle rispettare. Significa non ritenersi  dei dispensatori di regole ma cercare di partecipare attivamente alla costruzione della relazione con l’altro.

E, soprattutto, iniziare a non ritenere che il processo educativo sia a senso unico.

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

 

[1] Foti C., La mente abbraccia il cuore, Edizioni GruppoAbele, Torino, 2012, pag. 74.

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Conosci te stesso (per conoscere gli altri!)

guardare se stessiC’è in realtà un solo modo per ‘capire’ il mondo complesso di impulsi e simboli; si deve guardare in se stessi. Solo quando sappiamo veramente identificare un certo impulso basilare in noi stessi siamo sicuri che esiste. Solo quel punto diventa reale; fino ad allora era soltanto un buon concetto o teoria, di ben poca utilità. Credo che la formula funzioni anche all’inverso: se non riusciamo a trovarlo in noi stessi, esso non esiste a fini pratici. Se non siamo mai stati in grado di identificare e affrontare i nostri impulsi omicidi, non saremo realmente capaci di credere che esistono, comunque non nelle persone ‘normali’. Quindi, per definizione, chiunque ammetta di avere impulsi del genere sarebbe anormale secondo le tue norme interiori nascoste.

Io credo nell’esatto opposto; credo che parte della condizione umana sia l’avere una ricca e spumeggiante vita interiore di impulsi. Tutti abbiamo pulsioni omicide, tutti lottiamo con impulsi suicidi, tutti abbiamo fantasie incestuose, tutti siamo terrificati dal concetto di morte. Non riuscire ad affrontare questi semplici fatti della vita significa tagliar fuori buona parte della nostra umanità.

La consapevolezza del nostro mondo di pulsioni è in effetti il requisito essenziale alla nostra capacità di vedere, e ancora di più di capire, il mondo simbolico degli altri. Nella misura in cui possiamo affrontare le molteplici manifestazioni simboliche dei nostri stessi impulsi saremo liberi di utilizzare questa capacità nei rapporti con gli altri. [1]

La citazione è di uno degli autori più interessanti che ho avuto modo di leggere in questi anni. Carl Whitaker, psicoterapeuta statunitense, pioniere della terapia familiare, sostiene quella che per me, dopo tanto lavoro personale, è diventata una realtà effettiva: solo partendo da noi stessi possiamo arrivare a comprendere gli altri. Il modo unico per arrivare alla realtà simbolica degli altri è quello di partire dalla propria. Solo quando posso fare i conti con la verità dei miei impulsi, solo quando riesco a comprendere e ad accogliere la verità della mia paura della morte, solo quando posso vedere ed accogliere quelle che sono le mie realtà personali più reconditi e spaventose, posso pensare di conoscere, comprendere e accogliere queste verità nell’altro.

Non riconoscerlo in sè stessi significa tagliare fuori la possibilità di contatto e di comprensione dell’altro. Un lavoro di integrazione non parte dall’accoglienza dell’altro, parte dall’accoglienza di noi stessi, delle nostre verità, anche quelle più scabrose e che ci spaventano di più. Il punto di vista sostenuto da Whitaker è sostanzialmente focalizzato sulla realtà della terapia, ma credo sia estendibile alla considerazione di qualsiasi rapporto umano. Se manca il contatto e l’accoglienza di queste emozioni, di questi pensieri in noi, difficilmente potremmo contattare le stesse emozioni e gli stessi pensieri nell’altro.

Arriva da me Angela, una ragazza di 16 anni che ha una fortissima paura del rifiuto degli altri e di essere scartata nel rapporto con i suoi coetanei. Ragazza modello fino all’età di 12 anni inizia con l’adolescenza, come in tante altre storie, a fare cose apparentemente inconciliabili con il suo essere brava ragazza: utilizza droghe di vario tipo, frequenta compagnie poco raccomandabili e questo è il motivo della richiesta di terapia. Qual è il primo passo da compiere per comprendere le ragioni di Angela? Credo che il punto sia partire da se stessi, contattare la propria parte interna nella quale ha dominato la paura dell’esclusione, la paura di non essere accettato, la paura di discostarsi dalle attese degli adulti che mi hanno circondato quando ero adolescente. Non avendo questo passaggio, come avrei potuto capire comprendere ed accogliere quella che è la paura di Angela?

In caso contrario, il pericolo è precipitare nel giudizio aprioristico, arrivare cioè a giudicare quelle che sono le scelte e le difese (ma ovviamente giudicare anche le proprie difese e le proprie resistenze) che l’altro tenta di mettere in campo per affrontare la vita. Una maggiore conoscenza di sé stessi non può che aiutare una facilitazione di contatto con gli altri. 

Questo discorso è focalizzato sulle modalità di incontro in terapia, ma sono convinto possa essere applicato all’accoglienza di qualsiasi rapporto umano. Il giudizio sull’altro può essere sconfitto proprio con un maggiore contatto di se stessi, con una maggiore vicinanza e ascolto di noi stessi e delle nostre emozioni più profonde e spaventose. Questo è il contatto che permette il contatto con le stesse emozioni dell’altro, assottigliando così il peso che il giudizio può avere sull’ascolto e l’accoglienza.

Come sempre chi volesse/potesse condividere la sua esperienza può farlo contattandomi per mail (fabrizioboninu@gmail.com) oppure per telefono (3920008369). 

 

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

[1] Whitaker, C. (1989), Danzando con la famiglia, Astrolabio, Roma, pag. 63

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La paura

pauraQual è l’emozione tra tutte più temuta? Molti di noi a questa domanda risponderebbero quasi sicuramente la paura, forse tra tutte la più vituperata. La paura è essenzialmente l’emozione che si attiva quando sentiamo di essere in pericolo. Il pericolo può essere reale o immaginato: la differenza non è importante a livello di attivazione perché anche un pericolo immaginato può avviare una serie di reazioni, sia fisiche che psicologiche, molto importanti. La paura è un meccanismo atavico, antico quanto condiviso tra specie diverse, portato avanti nella catena evolutiva come meccanismo indispensabile alla vita stessa perché, proprio la sua attivazione, permette all’individuo di salvarsi dai pericoli che incombono. E, come accennavamo, la paura è anche una delle emozioni più detestate perché associata all’ansia, al senso incombente di minaccia e di pericolo. A livello fisico tra le manifestazioni che possono segnalare la presenza in noi di paura sono:

  • aumento della percezione di pericolo;
  • aumento del battito cardiaco;
  • aumento della sudorazione;
  • maggiore attivazione di funzioni fisiche e intellettive;
  • aumento dei livelli di adrenalina;
  • fuga.

I sintomi della paura non si esauriscono in questa lista e, spesso, ognuno di noi riesce a declinare la paura con un proprio comportamento personale. Ci sono persone che si agitano visibilmente, altre diventano apatiche rasentando l’immobilismo. Possiamo dire che uno dei due ha più paura dell’altro? No, possiamo solamente dire che lo esprimono in maniera differente. Una delle reazioni più comuni ad emozioni così intense è quella di evitamento: sfuggire quell’emozione, cercare di farla andare via, non pensarci o distrarci, è una della cose che più spesso facciamo per cercare di superare la paura. Questa strategia è funzionale solo sul breve periodo, perché ci consente di non affrontare la paura in un dato momento ma non ci da indicazioni su cosa l’abbia causata. Se, per esempio, ci incute timore il fatto di parlare in pubblico, per superare la paura metteremo in atto una serie di strategie che ci consentano di affrontarla (mi vestirò in un modo che mi faccia sentire bene, farò una presentazione che riduca la possibilità di fare errori, ecc) ma, passata quell’occasione, magari non rifletterò più sul perché parlare in pubblico mi dia questo tipo di emozione. Non avrò fatto mia l’emozione accogliendola e facendola diventare parte del mio vissuto. Questa attenzione è molto difficile perché prevede un riconoscimento e un accoglimento dell’emozione. Non mi focalizzo sul singolo atto che mi provoca quell’emozione (il parlare in pubblico), ma cerco di capire cosa sia quell’emozione per me. 

La nostra esperienza ci dice che la più grande barriera al riprendersi dalle esperienze di abbandono e deprivazione non sono il dolore e il dispiacere, ma la paura e la lotta contro il dolore. Dentro di noi abbiamo infinite risorse per affrontare la perdita e la frustrazione, ma questo è difficile se non comprendiamo cosa sta succedendo e perché sta succedendo. Questa mancanza di comprensione e consapevolezza provoca la paura. Inoltre nessuno ci ha mai insegnato che il dolore ha un valore. Non abbiamo imparato che possiamo maturare solo permettendo al dolore di essere parte integrante della nostra vita. Attraverso il dolore cresciamo, ma di solito lo combattiamo anziché accoglierlo e la lotta lo fa diventare una sofferenza che si trascina più a lungo di quanto invece durerebbe se fosse accettato, sentito e lasciato fluire attraverso di noi.

Se smettiamo di resistere e riconosciamo che ciò che accade è parte di un inevitabile viaggio dentro l’anima, allora possiamo rilassarci.

Un aspetto di questa comprensione è il semplice fatto che l’amore comporta la perdita: ciò è parte dell’esperienza dell’amore. Se apriamo il nostro cuore, molte volte verrà ferito. Se siamo vicini a qualcuno, sentiremo spesso dei piccoli abbandoni. E quanto più siamo intimi con questa persona, tanto più intense saranno le emozioni.

Quando stiamo per tanto tempo lontani l’uno dall’altro attraversiamo sempre momenti in cui sentiamo intensamente la mancanza dell’altro.

Un’altra comprensione è che le esperienze di deprivazione e abbandono aprono spazi nascosti nell’inconscio che possono guarire appunto solo se vengono aperti. Il terrore e il dolore dell’abbandono che abbiamo sperimentato da bambini giacciono addormentati dentro di noi e vengono stimolati solo quando esperienze simili accadono nella nostra vita attuale. Non guariranno se non vengono aperti e sentiti. E infine, la sensazione di paura e di dolore passeranno solo se ci permetteremo di sentirle senza opporvi resistenza. Allora la confusione e lo choc, la collera e il risentimento, il dolore e l’angoscia si calmeranno. Accogliendo la deprivazione e l’abbandono ci apriamo a una profonda pace interiore. La maggior parte della lotta con la vita è dovuta proprio al nostro resistere alle emozione connesse col sentirci soli e indifesi. [1] 

La paura insomma, come le altre emozioni, non andrebbe espulsa dalle nostre esperienze ne evitata. Per quanto possa apparirci difficile, andrebbe accolta e sentita come parte integrante della nostra esperienza di vita. Solo così potremmo non solo ricomprenderla in noi ma anche depotenziare quegli effetti che percepiamo spesso come problematici. 

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

 

Sullo stesso tema leggi anche:

LA PAURA DI AVER PAURA

[1] Trobe, T., Trobe Demant G. (2008), Fiducia e sfiducia, Feltrinelli, Milano, pp. 116-117

 

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Crescere un figlio da soli

come-comportarsi-con-un-figlio-adolescente_2fdc5e3c0fd3437e64f4423bdefd8742Accade sempre più spesso, soprattutto a causa di separazioni, (ma non solo, penso per esempio a famiglie immigrate), che le famiglie siano composte da un solo genitore con figli. Molti genitori avvertono la difficoltà di questa situazione, il ‘peso’ della famiglia tutto sulle proprie spalle, la difficoltà di essere e di dover fare, contemporaneamente da padre e da madre per i propri figli. La difficoltà viene percepita in maniera più netta quando il figlio o i figli diventano adolescenti, quando entrano in quella fase di vita che spesso provoca frizioni e contrasti con i propri genitori e che, in caso di famiglia monogenitoriale, viene percepita come ancora più ardua. Da questa premessa nasce la riflessione: cosa comporta essere un genitore solo? Cosa può comportare non essere supportati da un altro genitore?

Uno dei primi aspetti al quale prestare attenzione riguarda, sicuramente, il poter fornire informazioni chiare e precise sul perché questa sia la situazione nella quale si trova la famiglia. Il bambino probabilmente si chiederà come mai ha un solo genitore ed è indispensabile che in questo passaggio possa contare sulla correttezza di un racconto che possa esplicitare i motivi per i quali la sua famiglia sia così composta, quale sia la storia e quale ne siano le cause. Solo così il suo racconto di vita potrà essere integrato e non disgregato in frammenti dei quali, magari, non riesce a comprendere il senso:

Sia che la condizione di genitore single sia stata subita oppure voluta, non si può trascurare il fatto che tutti i figli vogliono fare una conoscenza, il più precisa possibile, delle proprie radici e delle proprie origini, con domande pressanti sul perché la loro crescita sia avvenuta senza poter contare sull’appoggio di due adulti. Naturalmente questo non vale per i figli rimasti orfani, per i quali, però, il genitore rimasto dovrà costantemente preoccuparsi di mantenere viva la memoria del padre o della madre che non è più lì al loro fianco a sostenerne il percorso di crescita[1] 

Altre importanti capacità che vengono richieste ai genitori soli, sono quelle di saper contemporaneamente rivestire il ruolo materno e paterno, e di riuscire ad alternare velocemente le due diverse funzioni:

La fatica doppia di un genitore single sta principalmente nell’imparare a coniugare ruolo materno e paterno nella stessa persona: essere materni comporta il saper offrire una solida sponda affettiva che faccia sentire un figlio amato, protetto e sostenuto per come è e non per cosa fa. Saper essere invece paterni significa far sentire un figlio contenuto, normato e regolato, in modo che i suoi processi esplorativi, trasgressivi o di individuazione possano sempre compiersi in modo tale da non essere autolesivi e soprattutto da essere funzionali al percorso di crescita, con la capacità di acquisire competenze di autocontrollo, autoconoscenza e buone relazioni con gli altri.

Il problema, tra l’altro, non consiste solo nel dover rivestire le due funzioni, ma anche nel saperle rendere velocemente alternative, intercambiabili, flessibili. Un genitore single deve saper prontamente assumere la funzione paterna che, per esempio, vieta a un figlio l’uscita non concordata e programmata durante il weekend e poi, in tempi rapidissimi, essere in grado di diventare sponda affettiva pronta a consolare la sensazione di solitudine e di isolamento dello stesso figlio, rimasto in casa e rinchiuso nella sua stanza, afflitto dalla percezione che tutti rideranno di lui per non essersi presentato all’appuntamento con il gruppo. C’è bisogno di così tanta forza interiore e, a volte, ci si sente così soli nel dover fronteggiare questa complessità, che non a tutti genitori single riesce possibile o anche solo pensabile questo veloce cambio d’abito. E proprio questa incapacità di muoversi con flessibilità e accortezza da un ruolo all’altro, mettendo in gioco funzioni così diverse, spesso porta il genitore single a cristallizzarsi solo su una posizione: così, o diventa ultraprotettivo e sempre accondiscendente, o al contrario ultrarigido e sempre in posizione di divieto. Inutile dire che è proprio questa ‘non mobilità’ a mettere maggiormente a rischio la crescita dell’adolescente. È per questo che al genitore che affronta da solo l’ingresso in adolescenza dei propri figli occorre una forte auto-consapevolezza ed eventualmente la capacità di saper chiedere aiuto, convinto che se la fatica educativa è al di sopra delle proprie forze è necessario essere presi per mano e accompagnati nel viaggio. [1] 

Quest’ultimo aspetto è, per un genitore, uno degli aspetti più difficili dei quali prendere consapevolezza: cogliere l’impossibilità di fare autonomamente e comprendere che la difficoltà può essere tale che si abbia bisogno di un aiuto. Intendiamoci: questo non vuole dire necessariamente rivolgersi ad uno psicologo: significa piuttosto avere idea dei propri limiti e delle proprie difficoltà, significa avere consapevolezza di dove si possa arrivare da soli e dove, invece, sia necessario appoggiarsi a qualcuno per avere aiuto. Chi possa essere il dispensatore di questo aiuto, poi, è la famiglia stessa a decidere: potrebbe essere un adulto competente col quale il figlio/figlia abbiano una buona relazione, potrebbe essere un insegnante, un amico di famiglia o, in caso di assenza di una figura di riferimento, un professionista qualificato. Questo supporto potrebbe garantire due diversi risultati: da una parte sarebbe un buon ‘ponte comunicativo esterno’ per il figlio, costituendo la premessa di un’ulteriore possibilità relazionale tra genitore e figlio; dall’altra potrebbe alleviare il genitore dal peso di sentirsi solo, essendo supportato dall’aiuto di un’altra persona.  

Come sempre chi volesse/potesse condividere la sua esperienza può farlo contattandomi per mail (fabrizioboninu@gmail.com) oppure per telefono (3920008369). 

 

A presto…

Fabrizio Boninu

[1] Pellai, A. (2012), Questa casa non è un albergo!Feltrinelli, Milano, pp. 142-143

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L’ascolto recettivo

ascoltare le emozioniCapita che le persone che mi chiedono che lavoro faccio abbiano molte curiosità su come si svolge il lavoro. Da questa curiosità fioccano moltissime domande alcune delle quali ricorrenti. Una delle curiosità riguarda l’uso del lettino: ho il lettino in studio? I miei pazienti si sdraiano sul lettino e iniziano a raccontare le loro cose? Altra curiosità ricorrente è il modo in cui si parla: sono uno di quegli psicologi che non dicono nulla per tutta la durata della seduta oppure uno di quelli che fa molte domande? Che genere di domande faccio? Le mie domande possono riguardare anche i genitori del mio paziente? E ancora: la ‘colpa’ dei problemi dei figli può essere imputata più alla mamma o al papà?

Nella rassegna degli stereotipi non può mai mancare la battuta sul fatto che faccio un lavoro molto facile dal momento che devo fare ‘una chiacchierata’ con un’altra persona. Non entrando neanche nel merito sul fatto che mi limiti a fare ‘una chiacchierata’ con i miei pazienti, mi colpisce, invece, un altro punto che è legato all’idea di ciò che succede in seduta. In seduta, questa è l’immagine che hanno molti, quello che avviene è che si parli.

Le persone vengono da me per parlare dei loro problemi, per parlare delle loro relazioni, per parlare dei loro figli. Per parlare della loro Vita. Io, a mia volta, parlo con loro di quello che mi portano e cerco di comprendere e restituire loro una visione spesso diversa da quella con la quale vengono. Naturalmente tutto questo è vero. Ma solo in parte.

Durante una seduta capita qualcosa che non sempre viene notato dal momento che non fa rumore: si ascolta.

Si ascolta l’altro, la persona che ci ha cercato e che sente di avere il bisogno di un confronto, si ascoltano le sue storie, si ascoltano le sue gioie, le sue paure, le sua ansie, le sue emozioni, le sue angosce. Si ascolta il racconto che la persona da di se stesso. Se si riesce ad essere attenti, ascoltando l’altro ci si ascolta, si ascoltano le proprie emozioni, le proprie risonanze, le proprie ansie, le proprie paure, le proprie gioie, le proprie impotenze e le proprie forze, le proprie inadeguatezze e le proprie risorse.

Se si è ancora più attenti, si riesce a costruire la condivisione di queste storie, quella vera e propria magia che avviene in terapia. Se si è bravissimi nel prestare attenzione a come restituire all’altro, capita anche che si venga ascoltati, quando si cerca di dare una nuova luce, una nuova prospettiva alla storia che il nostri paziente ci ha appena raccontato. L’ascolto è la chiave di volta di ciò che succede in terapia.

Ascoltare non è sentire, ascoltare è prendere atto, partecipando di quello che viene condiviso. Non è facile, non è immediato, non è automatico. Altri fattori entrano in gioco nel disturbare questo ascolto: il giudizio spesso è l’elemento che porta lontano il cuore, che fa perdere il contatto con l’emozione che l’altro ha scelto di condividere con noi. La superficialità è nemica dell’ascolto, nel momento in cui ci mantiene lontani da un’autentica curiosità per quello che ci stanno dicendo. L’egoismo è profondamente divisore nella costruzione di questo contatto, perché ci fa concentrare più sulle nostre prospettive che su quelle dell’altro.

Il rimedio a questi aspetti è un ascolto partecipe, riflessivo e, come lo definisce Claudio Foti, recettivo:

Nell’ascolto recettivo l’ascoltatore si dispone a recepire con sensibilità ed intelligenza i dati, i problemi, i vissuti emotivi così come vengono espressi nella comunicazione del soggetto che chiede di essere ascoltato, senza attivare immediatamente interventi tesi a consolare, consigliare, giudicare, ammonire, interrogare o interpretare. Nell’ascolto recettivo sono chiamato a prendere atto e a tentare di condividere qualcosa che esiste o che è esistito indipendentemente dalla mia volontà, indipendentemente dal mio controllo. L’ascolto di sé e dell’altro, la consapevolezza di sé e della realtà implicano l’accettazione soprattutto delle informazioni, delle situazioni, delle emozioni meno piacevoli, meno previste, meno gratificanti. Ad ascoltare buone notizie dai nostri figli, a riconoscere sentimenti positivi ed armonici dentro noi stessi, a percepire riscontri emotivi favorevoli nel mondo circostante, sono capaci tutti! Il banco di prova delle potenzialità di contenimento e di cambiamento dell’ascolto e della consapevolezza è dato dal confronto con le informazioni, con le situazioni, con le emozioni più inattese, più frustranti, più dolorose

E dunque l’ascolto e la consapevolezza possono sprigionare la loro efficacia tanto più quanto prendono le distanze dalle aspettative del controllo onnipotente e prendono forza dalla capacità di accettare la realtà a trecentosessanta gradi in tutte le sue varianti e possibilità, positive o negative, piacevoli o spiacevoli. [1]
 
La prossima volta che pensate ad una psicoterapia, provate a prendete in considerazione, oltre il lettino e la ‘chiaccherata’ l’aspetto che, per quanto poco visibile, gioca un ruolo fondamentale nella riuscita della stessa: l’ascolto.
Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

[1] Foti, C. (2012), La mente abbraccia il cuore, Edizioni Gruppo Abele, Torino, pp. 52-55    

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La tanto agognata sanità mentale

folliaNella quotidianità del mio lavoro, capita spesso di parlare con persone che non si definiscono sane, che hanno paura di sentirsi e di essere considerate strane, non comuni, non a posto. ‘Sono sicuro che sono la persona più strana che ha sentito’, ‘Non saranno in tanti messi male come me’, ‘I miei racconti ti hanno spaventato?’ sono solo alcune delle frasi che sento ripetere. Tutto questo ha avuto come conseguenza l’interrogarmi sul perché del bisogno di questa categorizzazione. Cosa significa essere sani? Chi di noi può definirsi tale?  

Prima di affrontare questo tema, ho bisogno di una piccola premessa. Da una parte temiamo profondamente che i nostri comportamenti o le nostre emozioni non siano sane, che siano strane. Di contro, invece, ci troviamo in un contesto sociale che spinge, almeno apparentemente, a considerarci e a percepirci come unici e diversi l’uno dall’altro. Ci troviamo in una sorta di dilemma: da un lato la società incoraggia la nostra originalità, dall’altro noi stessi temiamo questa originalità e cerchiamo di non apparire come troppo diversi dagli altri, di non scostarci troppo dalla norma.

Andando a scavare più a fondo, si scopre che la presunta spinta sociale ad essere diversi, unici, in realtà non è così ben accetta e che, anzi, la società spinga al conformismo e alla stereotipia, ad una omologazione, soprattutto emotiva, sempre più ampia. L’unicità che viene accettata sembra, infatti, poter riguardare solo aspetti marginali della nostra vita, legati più che altro al consumismo. Mi viene in mente un fenomeno tipicamente contemporaneo. Le nostre auto, oggi considerate un’emanazione della persona che le possiede, possono essere personalizzate all’eccesso, di modo che nessun altro abbia una vettura uguale alla nostra. Sarà UNICA. In questo caso l’anticonvenzionalità viene incentivata e sviluppata. Ma di cosa stiamo parlando? Di prodotti. Di cose. Paradossalmente non possiamo godere dello status del quale possono godere le nostre auto.

Stavamo, però, parlando di sanità: perché ora stiamo parlando di unicità? Credo che le due cose siano strettamente legate e che la nostra paura di non essere sani, o che qualcuno possa giudicarci tali, derivi dalla pressione sociale ad essere omologati e ad essere simili. Il punto importante è che finiamo per credere a questa omologazione e che, di conseguenza, facciamo di tutto per non essere diversi, diventando in questo modo i nostri primi censori, giudici inflessibili che non accettano le nostre stesse unicità.

La paura di essere giudicati e di essere esclusi, parte dallo stesso giudizio e dalla stessa esclusione che noi perpetriamo nei confronti di noi stessi. Se ognuno di noi dovesse realmente coltivarsi, a discapito di quello che può essere l’interesse dominante, verrebbe bollato come strano, diverso, difforme, ribadendo come la nostra unicità possa essere applicata solo ai dettagli della nostra vita, non alla sua interezza. E sappiamo come questo marchio di stranezza, diversità, difformità serva ad escludere l’altro. Ma è un marchio che noi stessi ci premuriamo di coltivare, perché primi a non accettare parti di noi che definiamo strane, o ‘non sane’. E questo processo di esclusione, partito da noi, sembra ormai più automatico del processo inverso, quello inclusivo. Siamo noi ad avere difficoltà ad integrare questa parti di noi stessi e, spaventati da quello che sentiamo o proviamo, ne cerchiamo la legittimazione all’esterno, come se il fatto che quelle emozioni le sentano anche gli altri ci rassereni e ci faccia sentire più ‘normali e sani’ di quello che saremmo disposti a concedere a noi stessi

Come possono conciliarsi allora desiderio di unicità e paura di essere diversi? Semplicemente non possono. Non lo fanno. Si vive con il disagio, con la paura di non sapere aderire ai dettami principali. ‘Non pensare a te pensa ad essere socialmente accettato’ sembra essere una di queste leggi non scritte. E nel non pensare a se stessi troviamo tutta la non accettazione della propria vita emotiva, il non occuparsi del proprio sentire. Da questa mancanza di attenzione per  stessi deriva, in seguito, la mancanza di attenzione per quelle che sono le emozioni dell’altro, in un circolo vizioso continuo che si perpetua. 

Questa non accettazione delle proprie emozioni genera, alla lunga, una grande sofferenza e un grande disagio, perché comunichiamo a noi stessi la nostra incapacità ad accogliere e a supportare quella che è la nostra unicità, e il disagio psichico è, in quest’ottica, la conseguenza di un non sentire emotivo molto costoso da raggiungere, frutto di uno scarto tra un sentire giudicato inammissibile e un “non ascoltarsi” socialmente accettato.

Ed è questa distanza, dagli altri ma soprattutto da noi stessi, che può portare a sviluppare un malessere vero e proprio che non ci fa stare bene né con noi stessi né con gli altri. Spezzare questo circolo è possibile e penso dipenda dalla capacità di recuperare il nostro senso di unicità, nel senso più pieno del termine. Non mi riferisco a scelte egoistiche che prescindano dagli interessi degli altri quanto alla riscoperta delle proprie peculiarità, delle proprie passioni, delle proprie ragioni. Ed è necessario, in questo lavoro, partire da se stessi, da ciò che più si sente autenticamente proprio, riportando l’attenzione su quegli aspetti di sé che spesso vengono sacrificati sull’altare dell’accettazione.

L’insensibilità emotiva verso se stessi diventa causa di malessere e di disagio profondo. Solo riprendendo il contatto con la nostra realtà intima, recuperando l’amore per quella nostra parte originale che spesso tendiamo non solo a non mostrare agli altri ma anche e soprattutto a noi stessi, riconoscendola e legittimandola come nostra, riusciremo a smettere di chiedere se siamo sani, non avendo paura di essere bollati dall’esterno come malati o ‘strani’.

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

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Il pensiero divergente e la creatività

pensiero (1)Il post di oggi ha a che fare con la creatività ma soprattutto con una delle sue componenti principali: la possibilità di avere e di utilizzare il pensiero divergente. Andiamo con ordine, cercando di illustrare in parole semplici cosa sia la creatività e che cosa si intenda con questo termine. Il termine creatività è un termine che indica qualcosa di familiare eppure, quando si cerca di darne una definizione più circostanziata, diventa un termine di difficile spiegazione, sfuggente e molto ambiguo. Wikipedia la definisce come l’arte o la capacità cognitiva della mente di creare e inventare. Considerando quanto è complicata la definizione, molti per specificarla, ma rendendola in realtà un concetto ancora più nebuloso, introducono concetti di capacità personali, cuore, realtà personale, ecc. Insomma cosa sia lo intuiamo tutti, definirlo è un altro discorso. La creatività è quella capacità, non solo umana, di inventare e di creare qualcosa dal nulla o partendo da elementi dati, utilizzandoli talvolta in maniera diversa rispetto a quello per cui sono stati inventati. Si può essere creativi in ogni ambito, è una capacità che si può affinare e incrementare. Anche se ci sono persone che dicono con forza di non essere per niente creative, credo sia solo perché poco abituate ad utilizzare e a mettere in gioco questa capacità. Mi piace immaginarla come un muscolo: l’esercizio e l’uso non possono fare altro che renderla più tonica ed elastica. Viceversa la volontà di non utilizzarla la rendono sempre più rigida e impossibilitata ad esprimersi.

All’interno della definizione di creatività gioca un ruolo fondamentale quello che è stato definito come pensiero divergente. Il termine pensiero divergente fu coniato da J.P.Guilford, psicologo statunitense, che propose di considerare la creatività come realtà basata su questo concetto. Il pensiero divergente è sostanzialmente legato alla capacità di ristrutturare i termini del problema o della realtà in un modo completamente nuovo e non previsto prima dagli elementi che avevamo a disposizione. L’espressione ‘pensiero’ non ha specificamente a che fare con un atto legato all’intelligenza quanto ad una capacità ristrutturattiva che, partendo dagli elementi dati, riesce a combinare questi elementi in una soluzione nuova. Ipotizzando l’esistenza di un pensiero divergente, l’autore teorizzò, però, anche l’esistenza di un pensiero convergente, caratterizzato da peculiarità opposte a quelle del pensiero divergente. Il pensiero convergente è infatti quel pensiero nel quale le persone immaginano soluzioni che si concentrino sulla via più facile o più immediata, o non riuscirebbero ad utilizzare in maniera alternativa gli elementi proposti. Questi due tipi di pensieri sarebbero alla base rispettivamente della creatività o dell’assenza di questa caratteristica. Sarebbe necessario quindi, come per l’allenamento di un muscolo, cercare di investire risorse e attenzioni sull’allenamento del pensiero divergente cercando di stimolare nuovi punti di vista e nuove possibilità riguardo a quello che è un problema dato.

Naturalmente, come vi ho già accennato, la creatività è qualcosa di più complesso che non ha a che fare semplicemente con il pensiero quanto con un insieme e con un intrico di pensieri ed emozioni. Un fattore ostacolante o facilitante può essere il contesto. Se, per esempio, il contesto è facilitante e permette l’esplorazione di soluzioni creative e nuove, la persona che queste soluzioni prova si sente agevolata nell’andare avanti e ricerca attivamente nuove prospettive e nuove possibilità. Se invece il contesto è frenante rispetto a soluzioni creative e tende all’omologazione, necessariamente castra le soluzioni che si discostino da quelle attese portando la persona a favorire soluzioni più tradizionali piuttosto che quelle più originali e nuove. Nel primo caso è più probabile che il pensiero divergente venga stimolato ed allenato nel secondo caso il contrario. Il contesto influenza anche le emozioni che si accompagnano al processo creativo stesso: se il contesto è facilitante è molto probabile che la persona si sentirà incentivata e sempre più sicura di sé nella ricerca di una soluzione originale o nuova, percependosi come valido e creatore. Se, viceversa, il contesto è disincentivante, aumenteranno le probabilità di essere ostracizzati e porterà le persone a sentirsi non efficaci o non adeguati rispetto a quello che il contesto stesso richiede.

Qual è la vostra esperienza? Tendete al pensiero divergente o a quello convergente? Com’è lo spazio nel quale vi muovete: facilitante od ostacolante? Se voleste condividere la vostra esperienza, avete lo spazio per farlo!

A presto…

Fabrizio Boninu

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#Iononriparo (2)

just-love

–  Attaccare continuamente l’autoconsapevolezza del reprobo, tramite l’istigazione alla confusione, all’incertezza e all’insicurezza, la promozione di ogni dinamica di autosqualifica e l’imposizione di immagini degradate precostituite. Si lede in questo modo nelle persone omosessuali un diritto umano cruciale: quello di potersi valorizzare nelle forme affettive amorose che più corrispondono alla propria autenticità. Si impedisce al diverso di esprimersi alla pari con gli altri: è la strada maestra per raggiungere anche tutti gli altri obiettivi. In questo modo si impedisce al deviante – e ai suoi familiari – ogni alternativa esistenziale, sociale, etica e prima ancora psicologica. Egli deve vedere davanti a sé solo la distruzione di ogni prospettiva e del futuro, una completa mancanza di speranza e di senso, perdendo ogni sfiducia e aspettativa di bene.

–  Impedire in tutti modi che il soggetto elabori una visione alternativa positiva di sé e della propria affettività: ogni tecnica deve essere impiegata per rendere il soggetto incapace di operare un distacco dalla visione negativa in cui è cresciuto. Egli deve trovarsi così senza punti di riferimento, bandito e disprezzato dalla comunità di appartenenza, squalificato eticamente e psicologicamente e dunque leso nel proprio Sé. Deve arrivare ad autoaccusarsi di negare i valori di correttezza, di seguire le leggi di Dio, della natura, dell’ordine fecondo del mondo.

– Sottoporre le persone omosessuali – e la loro famiglie – a predizioni negative catastrofiche, imputando loro un destino maligno e infelice; e lanciare profezie di sventura perché fatalmente sia avverino. D’altronde, è facile fare profezie negative sul triste destino degli oppressi, perché distruggere le possibilità è assai più facile che costruirne. Ecco perché in questi testi c’è un’insistenza drammatica sulla disperazione e la negatività di ogni cosa che riguarda il gay, così come una massificazione deterministica. Perché se venisse fuori che tante sono le possibilità e le forme di vita, allora vorrebbe dire che differenti sono i destini che le persone omosessuali possono avere. E, dunque, è possibile sottrarsi al percorso nefasto che si vorrebbe loro imporre come destino. Addirittura, è possibile vivere serenamente. Che fine farebbero, allora, le minacce alle profezie apocalittiche così facilmente sollecitate? [1]

Divisione, contrapposizione, espulsione, istigazione, patologizzazione sono solo alcune delle caratteristiche di questo tipo di teorie che basano il loro successo sulla divisione tra una (presunta) normalità da perseguire e un’anormalità da colpire e ostracizzare. Questo bisogno di etichettamento porta a non considerare la storia dell’individuo, le sofferenze che, spesso per la colpevole repressione sociale che ancora circonda le scelte sessuali individuali, caratterizzano la sua vita e anzi, approfittando di questa debolezza e di questo bisogno di (presunta) normalità, cerca di instillare il bisogno di accettazione nel paziente insistendo su quanto potrebbe essere migliore una scelta sessuale che sia socialmente approvata e non repressa ed ostacolata e come questo potrebbe significare minore sofferenza per il soggetto stesso. Quest’ultimo, affidandosi e fidandosi del suo terapeuta, ritiene che una scelta di questo tipo possa essere preferibile e possa evitare alcune sofferenze sebbene sia una scelta che  si accompagna alla repressione e al rinnegare i propri istinti più naturali, più ‘normali’ proprio perché innati

É contro questo tipo di deriva patologizzante che ci siamo impegnati, mettendoci anche la faccia, per ribadire la scorrettezza di questo tipo di pratiche. Pressioni di questo tipo sono profondamente scorrette qualunque sia il tema, dal momento che il terapeuta non ha il compito di dire al suo paziente cosa debba fare/essere, quanto di cercare di capire con lui quali scelte siano più adatte nella sua vita.  E, non dimentichiamolo, costituisce una violazione profonda del Codice Deontologico degli Psicologi il quale, all’articolo 3, sancisce come lo psicologo è consapevole della responsabilità sociale derivante dal fatto che, nell’esercizio professionale, può intervenire significativamente nella vita degli altri; pertanto deve prestare particolare attenzione ai fattori personali, sociali, organizzativi, finanziari e politici, al fine di evitare l’uso non appropriato della sua influenza, e non utilizza indebitamente la fiducia e le eventuali situazioni di dipendenza dei committenti e degli utenti destinatari della sua prestazione professionale.

Insomma ancora una volta il rispetto della persona che ci si siede davanti dovrebbe venire prima di tutte le nostre considerazioni personali, morali o religiose che siano. Questa attenzione è premessa per me indispensabile per svolgere con correttezza e attenzione il delicato lavoro che abbiamo scelto di portare avanti. 

Come sempre chi volesse/potesse condividere la sua esperienza può farlo contattandomi per mail (fabrizioboninu@gmail.com) oppure commentando il post.  

A presto…

Fabrizio Boninu

[1] Rigliano, P., Ciliberto, J., Ferrari, F. (2012), Curare i gay?, Raffaello Cortina Editore, Milano, pp. 170-172

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#Iononriparo (1)

just-loveQualche tempo fa io e la mia collega Carla Sale Musio, aderendo alla campagna nazionale di sensibilizzazione sul tema, abbiamo pubblicato la foto con la scritta #iononriparo. Molti contatti ci hanno chiesto cosa volesse dire quel cartello, a cosa si riferisse e cosa non riparassimo. La maggior parte delle persone pensava fosse legato al fatto che ‘non ripariamo i matti’, e che semplicemente aiutiamo le persone ma non le aggiustiamo. Sicuramente è vero che, nel senso letterale del termine, non ‘ripariamo’ nessuno, ma in realtà il focus di quella campagna era molto più specifico e si riferiva alla netta contrarietà che noi, e moltissimi altri colleghi, nutriamo nei confronti delle cosiddette teorie riparative nei confronti dell’omosessualità. Grazie a questa foto, mi sono reso conto che poche persone conoscono queste posizioni e sarebbe forse il caso di cercare di capire cosa siano e su quali princìpi si basino. Le cosiddette teorie riparative, dette anche terapie di conversione, sono terapie che hanno come finalità la negazione dell’orientamento sessuale dell’individuo e il suo riorientamento verso una sessualità percepita come normale, quindi sostanzialmente ed esclusivamente la sessualità eterosessuale. Le terapie di conversione basano la loro efficacia sulla repressione del proprio desiderio primario per l’assecondamento di un desiderio sessuale considerato più ‘normale’ o socialmente accettato. Gran parte di queste teorie sono sostenute da psicologi o terapeuti fortemente legati ad organizzazioni religiose, ottica che necessariamente altera da principio il lavoro con la persona omosessuale. Queste posizioni sono fortemente osteggiate dalle associazioni di psicologi e psichiatri, sia americani che europei, in quanto forzerebbero la terapia con il paziente verso esiti imposti socialmente e contribuirebbero all’associazione omosessualità=malattia, associazione rinnegata da tempo da tutte le più importanti organizzazioni internazionali di psicologi, nonché dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. 

Quali sono i princìpi sui quali queste teorie si basano? Quali sono le premesse che fondano questa classificazione tra una sessualità ‘accettata’ e una invece inaccettabile e da modificare? Questo lavoro è basato sulla disanima fatta nel testo Curare i gay?(in fondo al post, come sempre, trovate tutti i riferimenti bibliografici) che ha provato a classificare i presupposti metodologici dei quali questo tipo di teorie si fa forte:

– Contrapporre in modo rigido identità maschile e femminile, dentro l’unico ordine naturale possibile, quello eterosessuale. Dunque tutto ciò che si discosta da questo schema binario non può che essere patologia o peccato, più spesso tutti e due.

– Sottoporre l’omosessualità di cui il soggetto è malato a ogni sorta di denigrazione e squalifica – psicologica, etica, religiosa – e precludere al soggetto stesso ogni bene e valore in cui pure il soggetto crede e che gli viene imputato di negare per definizione a priori.

– Contrapporre in modo insanabile il bene e il male, secondo una logica “tutto o nulla”.

– Espellere l’omosessualità dall’Ordine dell’umanità: essa non esiste se non come patologia, chi vuole farne un’identità si contrappone ai principi e alle forme eterne in cui si incarna il progetto di Dio per l’umanità.

– Legittimare, non condannandolo, l’odio sociale, il disprezzo fino all’ostracismo, fino agli attacchi fisici – a partire dalla riprovazione fino all’espulsione da parte della propria famiglia; se il deviante è soggetto all’isolamento e all’emarginazione, che implica la mancanza di ogni supporto, questo è una conseguenza del suo essere. 

– Instaurare un vero e proprio processo di patologizzazione basato sulla disumanizzazione delle persone omosessuali, per arrivare a contestarne l’esistenza. Tale processo si svolge attraverso varie tappe: separare “gli omosessuali” da “i normali”; indicarne le tappe di una progressiva degenerazione; evidenziarne i segni patologici affinché i sani possano esercitare il proprio acume diagnostico; eliminare tutto ciò che contrasta con questa visione, fino a leggerne i segni positivi come contro reazione compensatore fraudolenta; costruire una visione catastrofica deterministica del loro destino; evitare sempre di analizzare il contesto in cui diversi sono costretti a vivere. Viene instaurato un circolo vizioso autogiustificantesi: dal metaforico si passa al corpo e poi al simbolico e quindi al comportamento. Dal disordine del desiderio si passa alla immoralità del comportamento, al danno provocato al proprio fisico, rintracciando in esso i segni che dicono la morbosa malvagità del gay, e poi di nuovo si giunge alla condanna psicologico-morale, stabilita definitivamente in sede etico-religiosa: i gay sono moralmente disonesti perché oggettivamente disordinati.

– Strutturare così un perfetto meccanismo di circolarità paranoica, che genera generalizzazione (“tutti gli omosessuali sono uguali”, cioè malati, ma anche “tutti i gay sono uguali”, cioè perversi), personalizzazione (ciò che vedo dei comportamenti è proprio come la persona è), insensatezza (per essere così devono per forza avere qualcosa di sbagliato), deresponsabilizzazione (se sono così è solo colpa loro). Quando si fa fatica a trovare ciò che si cerca, lo si suppone, e allora scatta il delirio di riferimento e di persecuzione: è il grande complotto della lobby gay, la congiura degli insospettabili corrotti contro gli innocenti.

 

– CONTINUA –

[1] Rigliano, P., Ciliberto, J., Ferrari, F. (2012), Curare i gay?, Raffaello Cortina Editore, Milano, pp. 170-172

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