Storia di Francesca (1)

Storia di Francesca (1)Il post di oggi è dedicato alla descrizione di un caso clinico. Naturalmente, come per quelli che vi ho raccontato fino ad adesso il nome e alcuni dettagli sono inventati perché non sia riconoscibile la protagonista, ma la storia è assolutamente autentica e spero possa ottenere il risultato di essere utile per qualcuno che la legge. Come inizia questa storia? Alcuni anni fa venne da me una ragazza che appunto chiameremo Francesca, 27 anni, per un problema molto vago: qualcosa non andava bene nella sua vita. Lo definisco qualcosa perché non sembrava in grado di focalizzare cosa di specifico fosse ‘sbagliato’ nella sua vita. Francesca apparentemente non sembrava neanche troppo infelice, anzi solo che nulla nella sua vita sembrava avere la piega che questa voleva prendesse: la cosa che più mancava sembrava essere una sua progettualità, le cose procedevano in automatico ma non si capiva dove fosse l’intenzione che Francesca voleva dare alla sua stessa vita. Bloccata nella frequenza della laurea triennale, non sembrava per niente consapevole del suo poter essere indipendente, coltivava molte relazioni, apparentemente molto superficiali o comunque non definite. Un altro dei suoi grandi crucci era quello legato al peso e all’alimentazione. Francesca, quando arriva è parecchio sovrappeso ma, come per altri aspetti, della sua vita, neanche questo sembra darle particolare fastidio, sembra quasi un dato di fatto con cui convivere.

In realtà, come molti altri casi prima di lei, le cose iniziano a disvelarsi e ad acquisire un diverso significato mano a mano che compaiono nel racconto che Francesca fa della sua stessa vita. La prima cosa che sembra acquisire rilevanza nel suo racconto è la mancanza di confini che porta chiunque a non essere mai dentro ne fuori rispetto alla sua vita. La prima che sperimenta questa condizione è proprio lei, che non sembra riuscire a dare un ‘ordine’ alle sue priorità, alle sue aspirazioni o alle sue scelte. Tutto sembra uguale, non realmente importante secondo una sua scala di valori. Cosa faceva si che fosse difficile identificare le priorità? La sua storia familiare stessa era confusiva, era una storia nella quale vi erano spesso interscambi tra ruoli: i genitori assumevano funzioni filiali e i figli, e tra i figli molto spesso proprio Francesca, assumeva un ruolo genitoriale nei confronti dei suoi stessi genitori. Questa confusività era portatrice di ulteriore mancanza di confini, sia generazionali che di funzione e portava a considerare spesso un vero e proprio fardello la vita familiare.

Uno dei primi punti qualificanti della sua terapia è stato proprio quello di cercare di fare luce e chiarezza su ciò che succedeva come un automatismo nella sua casa. Lungi dall’essere utile per lei, questo continuo salto di funzione, se da una parte era molto lusinghiero, perché le permetteva di diventare la figura di riferimento all’interno della sua stessa casa, dall’altro era parecchio impegnativo perché la stringeva a doppio filo coi membri della sua famiglia, non permettendole neanche di potersi pensare come indipendente e con un disegno di vita lontano da loro.

Tutto quello che avrebbe potuto portarla lontano o fuori di casa come ci si aspetta da una persona che inizia ad avvicinarsi ai 30 anni, veniva negato o sabotato. Francesca aveva delle relazioni molto sfilacciate con alcuni suoi coetanei, nulla che potesse trasformarsi in un vero e proprio rapporto, nulla che potesse allontanarla dalla famiglia. La famiglia ben tollerava queste storie, perché parecchio protettive per l’equilibrio della famiglia stessa. 

– Continua –

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… e ora parliamo di Kevin

... e ora parliamo di KevinIl film del quale voglio parlarvi oggi è un film molto duro sulla famiglia. Si intitola …e ora parliamo di Kevin (2011)è della regista Lynne Ramsay ed magistralmente interpretato da Tilda Swinton e da John C. Reilly nei panni dei genitori del Kevin del titolo, loro primogenito. Il film, come dicevo è un film sulla famiglia ma non per la tutta la famiglia. Racconta della discesa all’inferno dei protagonisti, del lento sfaldamento di una famiglia alle prese con un dramma che diventa, piano piano, più grande di lei. Il film è spiazzante e spiazzante lo è anche nella sequenza temporale dato che non è lineare nello svolgimento, procede per salti con continui rimandi al passato e altrettanti ritorni al presente. Ci viene, in questo modo, presentata la storia della famiglia fin dalla sua origine, la coppia genitoriale. Le scene iniziali del film sono ambientate nella famosa battaglia della Tomatina, la battaglia dei pomodori, che si svolge in estate nella cittadina di Bunol, in Spagna. La luce delle scene è così particolare da far risaltare il colore rosso dei pomodori e renderlo uguale al colore del sangue. Questa caratteristica mi ha colpito molto perché, fateci caso, un oggetto con lo stesso colore, o comunque lo stesso rosso, compare in quasi tutte le scene del film. E’ come se si volesse sottolineare, anche cromaticamente, come il sangue, inteso anche come legame di sangue, sia presente dall’inizio alla fine della storia rappresentata. 
Sostanzialmente il film ruota attorno al rapporto tra il primogenito e il resto della famiglia. Fin dalla nascita sembra essere la madre il membro più spiazzato dall’arrivo del bimbo. Questo si traduce in un rapporto problematico madre/figlio e in una ridefinizione dei ruoli all’interno della coppia dei genitori: da una parte la madre non riesce ad avere, se non con difficoltà, nessun contatto fisico col bimbo e sembra incapace di gestire il rapporto con lui mentre il padre sembra essere molto più vicino e attento a questa esigenza del piccolo. Osservando la madre, si ha l’impressione che abbia più paura che trasporto verso il piccolo. Questa mancanza di contatto e di relazione le fa, in breve perdere il controllo della situazione. Ogni cosa, anche la più piccola e la più quotidiana, è fonte di scontri  e di tensioni e questo, anziché rinsaldare la coppia genitoriale, la divide in ruoli di ‘buono’ e ‘cattivo’ che sembrano essere totalmente parziali. La mancanza di relazione, quindi, non coinvolge solo madre e figlio ma anche i genitori. E’ come se in tutti i membri della famiglia mancasse la capacità di comunicare apertamente, come se tutto dovesse essere sepolto sotto una coltre di finta indifferenza e finta mancanza di problematicità, aspetto che porta a sottovalutare e a non comprendere appieno la situazione nella sua complessità. Una scena emblematica è, per me, quella nella quale, all’ennesimo comportamento del figlio, la madre, innervosita, gli da uno strattone e gli provoca un livido. Il bimbo, al ritorno del padre, non dice nulla, inventa una bugia per spiegare il livido e rafforza una complicità con la madre basata sulla menzogna e non sulla possibilità di parlare.
Nel film viene descritta molto bene questa dimensione, questa incapacità comunicativa che, nello sforzo di cercare di far si che le cose sembrino il più normale possibile, allontana sempre di più tutti i componenti della famiglia. Il fatto di avere un bambino piccolo spinge il padre a proporre il trasferimento dalla città di New York alla campagna, contro il volere della moglie. Anche qua la domanda naturale che potrebbe sorgere è: è possibile che tra loro non abbiano parlato prima, per cercare di capire cosa sarebbe successo alla nascita di un figlio? Questo è il punto nodale, che sta a monte anche rispetto alla nascita di Kevin ed è la modalità di relazione della quale Kevin stesso è vittima. Ancora la nascita della secondogenita provoca una serie di episodi che non attivano una forte funzione genitoriale, ma che, al contrario, spaventano e sembrano rendere ancora più inadeguati i rapporti tra i genitori e i figli. Crescendo il figlio diventa sempre più apertamente problematico, ma questo non porta una generale ridefinizione della famiglia che appare ancora più incapace e ancora meno disposta ad accettare e riconoscere la gravità della situazione.Naturalmente, lo ribadisco, dal mio punto di vista, non c’è un membro malato e altri membri sani: è tutto il sistema familiare ad essere problematico, anche se poi, fisicamente, è solo uno di loro quello che appare ‘disturbato’, ed è il membro che agisce questo disagio che, però accomuna tutti loro. Il disturbo arriva ad un epilogo del quale non vi svelo nulla per non rovinare la trama.
Rimane, a mio avviso, pur essendo duro e disturbante, un film interessante che pone degli interrogativi: quanto siamo responsabili per le cose che avvengono in chi cresciamo? Quanto siamo disposti a non vedere pensando di proteggerci da una sofferenza che è solo rimandata? Nel film, per esempio, viene mostrata la crudeltà di Kevin nei confronti degli animali. Può essere considerato un segnale da prendere in considerazione nel valutare il disagio di un adolescente? Chi si accanisce contro animali può, in seguito, essere pericoloso anche per le persone che lo circondano? Naturalmente il film non fornisce risposte. Crea più dubbi, interrogativi che costringono necessariamente a riflettere sul nostro ruolo, sulle nostre relazioni, sulla nostra capacità di comunicare.
Domande che spesso nascono a posteriori ma che dovremmo imparare a farci prima. Se non avete visto il film, penso che questa frase risulti abbastanza incomprensibile. Spero anche di avervi incuriosito abbastanza per spingervi a guardarlo.
Nel caso lo vedeste, fatemi sapere che ne pensate.
A presto…
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Quanto costa emotivamente Facebook?

Quanto costa emotivamente FacebookSempre a proposito dell’impatto che i social network hanno sulla psiche degli individui, vi segnalo un interessante articolo apparso su Repubblica. Se all’inizio il popolare sito Facebook sembra essere scagionato dall’indurre depressione grazie ad uno studio svolto nell’Università del Wisconsin svolto su 190 studenti, procedendo nell’articolo si sottolinea come diversi studi abbiano sottolineato il peso che la vita sociale sui nuovi media sembrino avere un impatto emotivo molto forte su persone che già dimostrano una scarsa autostima. Un rapporto pubblicato dall’Aap, la prestigiosa American Academy of Pediatrics, sosteneva proprio questa tesi: i ragazzi soffrono il confronto sul social network più popolare del mondo. Trovarsi sovraesposti con un numero sempre più alto e interconnesso di persone, rende questo confronto ipoteticamente infinito e pone diverse considerazioni in merito al proprio valore per le persone che meno credono nelle loro potenzialità. Qualcuno potrebbe obiettare che non è necessario che una persona stia su Facebook (o Twitter).

In realtà credo stia qua la trappola e l’ambivalenza di questi nuovi mezzi: costa molto esserci ma è altrettanto costosa la scelta di non esserci. Il rischio dell’esclusione è altissimo e sentito come pericoloso sopratutto in fasce di età che dell’inclusione e del riconoscimento sociale fanno un punto importante. Mi riferisco in primo luogo agli adolescenti per i quali poter essere su Facebook non costituisce una scelta quanto una non evitabile opzione. Può essere anche questa sorta di ‘obbligatorietà’ a far sentire ancora peggio le persone che vedono riflesso il proprio insuccesso in una scala ancora più grande di quella che può essere per esempio una semplice scuola. Insomma, credo sia un fattore importante da prendere in considerazione e da ponderare nel momento in cui si parla di questi fenomeni. Liquidati come realtà virtuali, stanno assumendo caratteristiche sempre più reali e concrete, come nell’episodio citato nell’articolo, del suicidio di una ragazza.

Alcuni studiosi, per descrivere il senso di scoramento che pervade le persone quando pensano di non avere successo su Facebook parlano già di Facebook Depression, in cui le persone possono entrare in crisi per aspetti legati a l’ansia da approvazione, l’attesa del “mi piace” e del “retweet”. Non so se la soluzione corretta possa essere quella di bloccare le applicazioni che spingono a ritornare su Facebook più volte al giorno. Penso che una soluzione possa essere accompagnare il ragazzo ad un uso consapevole e cosciente del mezzo del quale si appresta ad entrare a far parte. Considerate che Facebook è nato nel 2004 (Twitter addirittura nel 2006!) e non abbiamo ancora una generazione pienamente cresciuta utilizzando questi media. Dobbiamo necessariamente tenere presente l’esponenzialità che avranno in futuro questo tipo di fenomeni e rivolgergli un’attenzione sempre crescente.

Mi ha colpito, alla fine del articolo, l’intervento della dottoressa Megan Moreno, membro della American Psychiatric Assosiation (APA), secondo la quale comunque, può essere “uno strumento efficace per la diagnosi tempestiva di un disagio psicologico. Effettivamente, se riuscissimo ad affiancare i  ragazzi nell’uso di questi strumenti, potremmo non solo condividere con loro la scoperta di quello che i social network ci permettono di fare, ma anche accorgerci quando questo sta diventando fonte di disagio e di difficoltà. Insomma, potrebbe esser un’occasione attraverso la quale gli adulti imparino a relazionarsi diversamente con questi strumenti. E magari coi loro ragazzi.

Intanto il link: 

http://www.repubblica.it/tecnologia/2012/07/11/news/facebook_per_depressi_anzi_no-38890812/?ref=HREC2-13 

L’articolo è di Giulia Santerini. 

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

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Le ‘leggi’ del sesso (e dell’amore!)

Le 'leggi' del sesso (e dell'amore!)Qualche giorno fa, tornando a casa in macchina, ascoltavo distrattamente la radio quando, nel tipico chiacchiericcio radiofonico, mi colpisce la notizia che in alcuni stati americani, moltissime pratiche sessuali, ritenute accettabili tra due adulti consenzienti, siano vietate o regolamentate per legge. I divieti hanno per lo più risvolti comici per la loro inapplicabilità sostanziale. Incuriosito, facendo qualche ricerca su internet, ho trovato una vera e propria genesi dell’assurdo riguardo ad alcune delle leggi che regolamenterebbero lo svolgimento di attività sessuali tra adulti. Per esempio, in Oregon, esattamente nella cittadina di Willowdalw, è contro la legge per un marito bestemmiare mentre fa sesso. A Sioux Falls, negli alberghi, ogni stanza deve avere letti gemelli. Ed i letti devono essere sempre separati per un minimo di due piedi quando una coppia affitta una stanza solo per una notte. Ed è illegale fare l’amore sul pavimento tra i letti. Nello Utah nessuna donna può fare sesso con un uomo mentre corre in ambulanza all’interno dei confini della cittadina di Tremont. Se sorpresa, la donna può essere incolpata di ‘infrazione sessuale’ e “il suo nome verrà pubblicato sul giornale locale”. L’uomo non è incolpato e il suo nome non è rivelato. A Washington, D.C la sola posizione sessuale accettabile è la “posizione del missionario”. Qualsiasi altra posizione sessuale è considerata illegale. (fonte www.nemesi.net) Ma si arriva a degli assurdi che sono involontariamente comici nel loro stesso rigore. Per esempio in West Virginia un uomo può fare sesso con un animale solo se questo supera i 18 kg, e non ricordo più in quale stato era permesso, ma solo per donne, possedere un numero massimo di sette vibratori, mentre in un altro stato ancora due amanti durante l’amplesso non potevano sussurrarsi nemmeno all’orecchio parole volgari.

Ora, a parte che vorrei sapere come materialmente possano essere fatte rispettare leggi così assurde, la cosa che mi colpisce è quanto il legislatore abbia avuto bisogno o necessità di regolamentare un chiamiamolo ‘settore’ assolutamente privato dove, stante la consensualità degli adulti che lo praticano, dovrebbe invece vigere la libertà assoluta, la possibilità che le persone possano liberamente esprimersi l’uno con l’altra. La sessualità, scelta esclusiva personale, e più in generale le scelte affettive, dovrebbero essere demandate esclusivamente al singolo. E invece, nel campo più generale dell’amore, ci troviamo di fronte ad estremi come quello dell’iperlegiferazione americana. Mi viene in mente la domanda e la risposta (scusate l’autocitazione!) che diedi nell’intervista fattami dalla collega Carla Sale Musio riguardo appunto la libertà nell’amore. Mi si chiedeva se credevo che l’amore potesse esser normale e la risposta fu: l’amore è la dimensione dell’uomo nel quale l’essere normale ha, forse, meno senso. Data la sua scelta esclusivamente personale, non ha senso, credo parlare di normalità o anormalità,  fatto salvo, ovviamente, il rispetto per l’altro. Invece dobbiamo scontrarci ogni giorno con ‘esperti’ che pretendono di tracciare una demarcazioni tra ciò che in amore è normale e ciò che invece non lo è. L’amore è uno dei contesti più anormali e potenzialmente rivoluzionari nella vita ed è per questo che, e non è un caso, la spinta normalizzatrice è stata più forte durante tutta la storia dell’uomo con giustificazioni religiose, dogmi sociali, riprovazione  e così via. E sono, questi, aspetti che hanno pesato e che tuttora gravano tanto nelle scelte di vita delle persone.

Credo fermamente in quello che risposi in quell’occasione. Gli esempi ai quali vi ho appena accennato mi sembrano si possano ricondurre a questo, nient’altro che una sciocca regolamentazione di quello che è uno degli aspetti più liberi della persona umana. L’intento è quello di  regolamentare e disciplinare un settore nel quale le regole valgono molto poco. Naturalmente, lo ribadisco, la libertà vale ed è massima solo nel rispetto delle persone coinvolte.

Rubo la battuta alla già citata dottoressa Carla Sale Musio: il cuore non è normale. Credo sia assolutamente vero. Su quanto cerchino di essere normalizzatrici le spinte del legislatore, invece, ci sarebbe ancora molto da discutere.

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A presto…

Fabrizio

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Siamo ciò che diciamo…

Siamo ciò che diciamo...Il post di oggi riguarda un aspetto che spesso sottolineo all’interno dei miei articoli: l’importanza di quello che diciamo. Il linguaggio costituisce uno degli aspetti più importanti e probabilmente più sottovalutati della nostra realtà quotidiana. Credo sempre più fermamente che noi non ci limitiamo a usare le parole per descrivere la nostra realtà, ma che la nostra realtà sia costruita a partire da quello che noi diciamo. Insomma l’importanza del linguaggio non è un aspetto secondario ma è il modo con cui noi costruiamo la nostra stessa realtà.

A questo proposito ho trovato una testimonianza interessante nell’articolo del famoso scrittore Roberto Saviano che sulla versione on line del quotidiano La Repubblica (11.05.13) si occupa del tema indirettamente parlando della crescente arroganza o scortesia a cui assistiamo nel linguaggio corrente, sui social network o su internet in generale. Vi riporto il brano che ha attirato la mia attenzione:

L’educazione nel web, anzi l’educazione al web, sta ancora nascendo. Scegliere di usare un linguaggio piuttosto che un altro è fondamentale. Ogni contesto ha il suo linguaggio e quello dei social network per quanto diretto non è affatto colloquiale. Si nutre della finzione di parlare in confidenza a quattro amici,  –  il che giustificherebbe ogni maldicenza, ogni cattiveria  –  ma in realtà tutto quello che si dice è moltiplicato immediatamente all’infinito, ed è quindi il più pubblico dei discorsi. Non si tratta di essere ipocriti o politicamente corretti (espressione insopportabile per esprimere invece un concetto colmo di dignità), ma di comprendere che usare un linguaggio disciplinato, non aggressivo, costruisce un modo di stare al mondo. I linguisti Edward Sapir e Benjamin Whorf hanno teorizzato la relatività linguistica secondo cui le forme del linguaggio modificano, permeano, plasmano le forme del pensiero. Il modo in cui parlo, le cose che dico, e soprattutto come le dico, le parole che uso, renderanno il mondo in cui vivo in tutto simile a quello connesso alle mie parole. Se uso (non se conosco, ma proprio se uso) cento parole, il mio mondo si ridurrà a quelle cento parole. Noi siamo ciò che diciamo. Quindi il turpiloquio, l’insulto o l’aggressività costruiscono non una società più sincera ma una società peggiore. Sicuramente una società più violenta. I commenti biliosi degli utenti di Facebook e Twitter portano solo bile e veleno nelle vite di chi scrive e di chi legge. Purtroppo questa entropia del linguaggio sta contagiando anche la comunicazione politica, sempre all’inseguimento della grande semplificazione, della chiacchiera divertente e leggera, della battuta risolutiva. Spesso parole in libertà, senza riflessione, gaffe continue alle quali bisogna porre rimedio. La verità è che se ripeti in pubblico le fesserie dette in privato non sei onesto e gli altri ipocriti, sei semplicemente maleducato e in molti casi irresponsabile.

Mi sono già occupato del tema sull’uso dell’insulto o dell’aggressività sui social network (vedi per esempio Perché siamo così aggressivi su internet? ), e sono dunque d’accordo sull’analisi che fa Saviano rispetto al fatto che se una persona comunica le proprie idee in maniera maleducata non sia sincera ma solo, in ultima analisi, profondamente scortese. Il passo in più che intendo aggiungere riguarda il fatto che usando il turpiloquio, e considerando la premessa fatta circa l’idea che il linguaggio che utilizziamo ci costruisca, io svilisco anche me stesso, insulto anche il mio mondo e faccio si che quello che risalti nel mio modo di avvicinare le cose sia essenzialmente il turpiloquio o l’insulto. Questo modo di approcciare le cose porta a credere che un linguaggio scurrile o le offese siano i soli modi con i quali io posso comunicare con gli altri.

Ecco, credo sia un’aspetto sul quale portare maggiormente attenzione per evitare che diventi un automatismo pensare che questo sia il solo modo di comunicare le proprie idee. Se il nostro linguaggio costruisce la nostra realtà, essere più attenti e interessati a ciò che diciamo non potrà che migliorare la costruzione del nostro stesso mondo. Un mondo nel quale magari maleducazione non sarà sinonimo di sincerità.

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A presto…

Fabrizio

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Nato in mesi invernali? Rischi la depressione…

Nato in mesi invernali Rischi la depressione...Il post di oggi è legato ad un articolo comparso qualche tempo fa sul Corriere della Sera. Riporta i risultati di uno studio pubblicato su Psychiatry Research dall’Università di Bologna, condotto su 870 ragazzi e 653 ragazze con età compresa fra 10 e 17 anni che porterebbe alla considerazione del fatto che ci sarebbe un maggior rischio di depressione legato alla fotoperiodicità luminosa particolarmente corta della stagione invernale a seconda dei mesi in cui si è venuti alla luce. Lo studio riporta i punteggi della scala GSS (acronimo di Gobal Seasonality Score, scala di stagionalità globale) che segna una correlazione tra i mesi di nascita e la propensione dell’individuo a cader nella depressione. Lo studio sarebbe particolarmente’sfavorevole’ per le ragazze che sembrerebbero più soggette a cadere in questo tipo di problematiche. Chi fosse interessato ai test che sono stati utilizzati all’interno dello studio può leggerne i nomi nell’articolo.

La cosa che colpisce leggendo, o almeno che ha colpito me, è la continua lotta che l’uomo cerca di fare per riuscire a trovare una correlazione tra fattori, esogeni ed endogeni, per cercare di spiegare un aspetto che forse caratterizza l’uomo dalla sua comparsa sul pianeta. D’altronde, se dovessimo dare per scontato, in accordo con la teoria evoluzionistica darwiniana, che noi si stia evolvendo, migliorando, allora dovremmo anche ipotizzare che la depressione abbia un significato in senso evolutivo se, con tutte le migliorie che hanno caratterizzato la nostra storia, questa è rimasta come una compagna fedele nel cammino dell’uomo.

Eppure continuiamo la ricerca di un perché universale, di un fattore generale che possa spiegare i ‘fattori di rischio’ che caratterizzano alcuni rispetto ad altri circa il rischio di essere colpiti da quella che viene considerata a tutti gli effetti una malattia ma che, a diversi livelli, caratterizza parte della vita di noi tutti. Detto da una persona nata in pieno inverno (26 Gennaio): credo sia una semplificazione eccessiva considerare la data di nascita come un fattore pro o contro la comparsa della depressione. Credo giochino un ruolo rilevante fattori che difficilmente possono essere misurati e valutati statisticamente come la propria storia personale, le proprie radici, le proprie relazioni e la propria sensibilità, fattori che, se considerati renderebbero lo studio impossibile da vagliare per la mole di variabili intervenienti che potrebbero influenzare i risultati. Colpisce come nello studio non venga preso minimamente in considerazione il peso che le persone hanno sulle vicende del ‘nascituro invernale’, come se un bambino nascesse da solo e fosse solo la fotoperiodicità ad influenzare la sua propensione alla depressione. Qualcuno ha valutato le conseguenze della fotoperiodicità sulle figure adulte significative per un bambino al momento della nascita? Insomma l’evidente semplificazione non può che far riflettere sull’utilizzabilità di questo tipo di scoperte che, seppur condotte con metodi scientifici, non si capisce che tipo di utilità abbiano nell’affrontare una realtà complessa come quella depressiva. 

Comunque, per chi fosse interessato, eccovi il link: http://www.corriere.it/salute/12_marzo_14/oroscopo-depressione-peccarisi_99191c06-6c54-11e1-bd93-2c78bee53b56.shtml 

L’articolo è firmato da Cesare Peccarisi.

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Fabrizio

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La ricetta della felicità sta nell’agire?

La ricetta della felicità sta nell'agireNel post di oggi vorrei segnalarvi un articolo di Repubblica nel quale si riportano i risultati di diversi studi circa la ricetta giusta per la felicità. Ovviamente non si parla di un metodo per trovare la felicità quanto sulla possibilità che muoversi, darsi da fare, possa avere delle implicazioni circa la propria percezione di essere felici. Sarebbe una sorta di capovolgimento rispetto all’idea che basti pensare positivo per essere tali! Nell’articolo si accennano a diversi studi compiuti da diversi psicologi, che cercarono di tracciare quali potevano essere le caratteristiche personali che potevano far si che una persona realizzasse i suoi obiettivi (e fosse, per questo, felice). I diversi studi che vengono riportati andrebbero verso una direzione comune: bisognerebbe agire per raggiungere dei risultati percepiti come positivi. Probabilmente la possibilità di agire ha a che fare con il sentirsi attivi e non in balìa di evenienze sulle quali non possiamo fare nulla e che ci fanno sentire impotenti. Credo che più che una questione di agire, sia una questione di riuscire ad accompagnare testa e azione. Che senso avrebbe sennò agire senza che il pensiero accompagni quello che stiamo facendo? Il fatto di sentirsi in grado di muoversi e di raggiungere gli obietti che ci si è prefissati non può che far stare bene, anche solo per il fatto di non farci percepire l’immobilità rispetto ad un obiettivo che ci sta a cuore. Risulta, forse, precipitosa una distinzione tra pensare ed agire, dal momento che ognuna si riverbera nell’altra. Se agiamo e otteniamo risultati, stiamo meglio e questo rinforza il nostro muoverci. Se, viceversa, agiamo e non otteniamo nulla, stiamo male e forse non  più propensi a muoverci. 

All’interno dell’articolo del quale vi ho postato il link, si trova anche il collegamento con un altro articolo, sempre di Repubblica, che fa il punto su quali caratteristiche debba avere un piano per cercare di conquistare ciò che ci si è prefissi nella vita. Le caratteristiche sarebbero:

  1. concretezza (scegliere obiettivi che si è in grado di raggiungere),
  2. convinzione di farcela (se siamo i primi a non credere di potercela fare come si può sperare di centrare l’obiettivo?),
  3. realizzare un desiderio alla volta (cercando di capire quali sono le priorità o gli obiettivi più facilmente raggiungibili),
  4. non porre obiettivi lontani nel tempo (cercando di prefissare anche un ragionevole limite temporale per l’ottenimento di ciò che si vuole),
  5. trovare la giusta motivazione (naturalmente per cercare di ottenere ciò che vogliamo dovremo essere motivati ad ottenerlo!),
  6. organizzare le giornate ( di modo che l’obiettivo sia in parte strutturato in un tempo che permetta anche la pianificazione stessa del suo raggiungimento),
  7. l’ottimismo (ovvero la capacità di non lasciarsi abbattere dalle difficoltà che necessariamente si incontrano),
  8. non pensare al presente (cercare, cioè, di non fare un raffronto con la propria attuale realtà che può essere demotivante). Credo che questo elenco sia interessante soprattutto per la possibilità di dare una risposta concreta su come affrontare ed organizzare il ‘muoversi’. Non so se sia la ricetta della felicità. Probabilmente è solo la ricetta di una migliore organizzazione, pratica e cognitiva, sul come cercare di affrontare dei problemi.

Eccovi il link dell’articolo:

http://www.repubblica.it/scienze/2012/07/05/news/per_la_felicit_non_basta_pensare_positivo_servono_azioni_e_comportamenti_vincenti-38498506/?ref=HRERO-1

L’articolo è di Valeria Pini.

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio

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Quanto siamo emotivamente (inter)/(in) dipendenti?

Quanto siamo emotivamente (inter)(in) dipendentiLa riflessione che condivido oggi è nata da una osservazione che si può fare immediatamente e personalmente: provate a lasciare a casa il telefono e ditemi come vi siete sentiti tutto il giorno senza questo oggetto. Prima di arrivare alle conclusioni permettetemi una breve digressione sociologica. La premessa parte dal fatto che fino a non molto tempo fa, inizio del secolo scorso tanto per dare delle coordinate temporali, il mondo era molto diverso da come lo consideriamo ‘normale’ oggi. Dovremmo anche tenere a mente che le persone vivevano all’interno di comunità che erano in qualche misura autonome rispetto a come le conosciamo adesso. Le persone, con poche eccezioni, nascevano e morivano nello stesso luogo e di solito la comunità era in grado di sostentarsi autonomamente. Anche le persone riflettevano questa autonomia. Molti erano in grado di costruire, fare o procacciarsi ciò che serviva per vivere. Se anche non si era in grado di fare tutto, al’interno della comunità esisteva qualcuno che poteva farlo per te rendendo la comunità di fatto indipendente. Anche le persone sviluppavano un senso di indipendenza potendo contare sulle proprie risorse piuttosto che su un infinità. Col cambiamento che coinvolse tutto il mondo occidentale, le cose cambiarono notevolmente. Si iniziò, con le varie rivoluzioni industriali, a diversificare funzioni e ruoli sopratutto dal punto di vista lavorativo e iniziò quella specializzazione del mondo del lavoro i cui frutti vediamo anche adesso. Abbiamo, infatti molti lavori che sono di assoluta specialità (anche il mio lo è!) e che prevedono delle figure formate ad hoc per svolgere determinate funzioni. Ovviamente, più una persona si specializza in un determinato settore, più diventa difficile che sappia fare delle cose che non ha appreso in quel determinato ambito. Questo fa si, necessariamente che quella persona dipenda da altre persone per soddisfare altri bisogni. Non si saprà costruire una casa (e ne dovrà comprare una da chi la costruisce per lui!), non si saprà procacciare il cibo (e lo dovrà reperire da che si occupa di allevarlo/coltivarlo per lui, glielo porti a casa e così via!) ecc. Quale sono le conseguenze di questo processo? Quella forse più evidente è la totale interdipendenza l’uno dall’altro, l’impossibilità che ognuno di noi possa sentirsi in grado di pensare autonomamente la propria vita.

E veniamo al punto. O meglio torniamo all’inizio. Questa continua interdipendenza ha figliato, e non poteva essere altrimenti, anche nella nostra psiche, andando ad intaccare il senso della nostra capacità di non dipendere dagli altri. Mi spiego meglio. Quando entriamo nel versante emotivo questo sentimento di dipendenza diventa sempre più costoso e pesante da reggere. Se prima si aveva a che fare col semplice nucleo familiare o con la comunità nella quale si viveva, ora, con i mezzi tecnologici a nostra disposizione, questo senso di dipendenza è legato a centinaia (se non migliaia) di persone con le quali interagiamo in maniera virtuale ma le cui conseguenze possono ben essere annoverate come reali. E un’altra conseguenza della quale dovremmo necessariamente tenere conto riguarda il possibile senso di esclusione che una persona può provare nel non sentirsi ricompresa o accettata all’interno di queste comunità virtuali più ampie. Il costo di questo continuo legame virtuale è molto pesante da sopportare. Ormai non prendiamo neanche più in considerazione l’ipotesi di non poter essere rintracciati in qualunque posto o a qualunque ora. Siamo formalmente legati a chi ci cerca con qualunque mezzo lo faccia. Attenzione, non sto demonizzando il mezzo del quale, d’altronde, anche io mi servo in abbondanza. Vorrei soltanto riflettere su quanto la nostra percezione di autonomia emotiva sia sempre più fragile nel momento in cui non sentiamo di poterci connettere con tutti gli altri. Che fine ha fatto la nostra indipendenza emotiva? Che fine ha fatto la capacità di percepirci autonomi? Appena ci succede qualcosa il primo impulso è quello di condividerlo. Non una brutta ragione, sicuramente, ma quanto siamo capaci ormai di godere di una cosa per noi stessi? 

Tornando all’inizio, so che alcuni di voi considerano del tutto improponibile l’esperimento di lasciare il telefono a casa. Se mi succede qualcosa come faccio? Se mi cerca qualcuno quando mi trova? Quali risorse in più avevamo quando questi mezzi non erano così presenti nelle nostre vite? Non sto pensando di tornare indietro quanto di guardare con attenzione ciò che facciamo controllando in continuazione il telefono. Forse non avremo gli ultimi aggiornamenti di Facebook. In compenso magari saremo in grado di gestire una giornata senza telefono, con noi stessi.

Sentendoci emotivamente più liberi?

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio

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Gli analfabeti delle emozioni

Gli analfabeti delle emozioniIl post è una riflessione che parte dal bellissimo brano che Umberto Galimberti, filosofo e psicanalista italiano, scrisse all’indomani dell’ennesimo caso di cronaca nera che vedeva, nella parte dell’assassino, giovanissimi. La riflessione parte da questo punto: qual è il mondo interiore di questi giovani? Eccovi il pezzo:

L’hanno trovata morta in un cascinale abbandonato, vicino alla sua abitazione. Ancora non sanno se il ragazzo che ieri notte ha confessato il delitto ha agito da solo o insieme ad altri, che per ora restano in quella cupa ombra dove la sessualità si mescola alla violenza, in quel cocktail micidiale che, a dosi massicce, la televisione quotidianamente distribuisce nell’indifferenza generale.

Quel che è certo è che una brava ragazza di 14 anni, che sabato scorso era uscita con le chiavi di casa e il suo cellulare, come fanno tutti i ragazzi della sua età, a casa non tornerà più. Ma come è fatto il mondo fuori casa?Non dico il mondo in generale, ma il mondo di questi ragazzi di cui ieri, in un lucido intervento su Repubblica, Marco Lodoli ha descritto il loro apparato cognitivo in questi termini: “I processi intellettivi più semplici, un’elementare operazione matematica, la comprensione di una favoletta, ma anche il resoconto di un pomeriggio passato con gli amici o della trama di un film, sono diventati compiti sovrumani di fronte ai quali gli adolescenti rimangono a bocca aperta, in silenzio. (…)”. Semplicemente non capiscono niente, non riescono a connettere i dati più elementari, a stabilire dei nessi anche minimi tra i fatti che accadono davanti a loro, che accadono a loro stessi”.

A questa diagnosi (che posso tranquillamente confermare perché questi stessi ragazzi li ascolto quattro o cinque anni dopo, un po’ più evoluti ma non tanto, all’università) resta solo da aggiungere che carenti non sono solo i nessi “cognitivi”, verbalizzati con un linguaggio che più povero non si può immaginare, ma anche quelli “emotivi”, per cui viene da chiedersi se questi ragazzi dispongono ancora di una psiche capace di elaborare i conflitti e, grazie a questa elaborazione, in grado di trattenersi dal gesto. Esiste nella nostra attuale cultura e nelle nostre pratiche di vita un’educazione emotiva che consenta loro di mettere in contatto e quindi di conoscere i loro sentimenti, le loro passioni, la qualità della loro sessualità e i moti della loro aggressività? Oppure il mondo emotivo vive dentro di loro a loro insaputa, come un ospite sconosciuto a cui non sanno dare neppure un nome? Se così fosse, di fatti simili a questa tragedia avvenuta nel Bresciano aspettiamocene molti, perché è difficile pensare di poter governare la propria vita senza un’adeguata conoscenza di sé. E qui non alludo alla conoscenza postuma che in età adolescenziale o in età adulta porta qualcuno dallo psicoterapeuta a cercare l’anima o direttamente in farmacia nel tentativo di sedarla; ma faccio riferimento a quell’educazione dei sentimenti, delle emozioni, degli entusiasmi, delle paure, che mette al riparo da quell’indifferenza emotiva, oggi sempre più diffusa, per effetto della quale non si ha risonanza emozionale di fronte ai fatti a cui si assiste o ai gesti che si compiono. E chi non sa sillabare l’alfabeto emotivo, chi ha lasciato disseccare le radici del cuore, si muove nel mondo pervaso da un timore inaffidabile e quindi con una vigilanza aggressiva spesso non disgiunta da spunti paranoici che inducono a percepire il prossimo innanzitutto come un potenziale nemico.

E tutto ciò perché? Perché manca un’educazione emotiva: dapprima in famiglia, dove i giovanissimi trascorrono il loro tempo in quella tranquilla solitudine con le chiavi di casa in tasca e la televisione come baby sitter, e poi a scuola, quando ascoltano parole che fanno riferimento a una cultura che, per esser tale, non può che esser distante mille miglia da ciò che la televisione ha loro offerto come base di reazione emozionale. Oggi l’educazione emotiva è lasciata al caso e tutti gli studi e le statistiche concordano nel segnalare la tendenza, nell’attuale generazione, ad avere un maggior numero di problemi emozionali rispetto a quelle precedenti. E questo perché oggi i giovanissimi sono più soli e più depressi, più rabbiosi e ribelli, più nervosi e impulsivi, più aggressivi e quindi impreparati alla vita, perché privi di quegli strumenti emotivi indispensabili per dare avvio a quei comportamenti quali l’autoconsapevolezza, l’autocontrollo, l’empatia, senza i quali saranno sì capaci di parlare, ma non di ascoltare, di risolvere i conflitti, di cooperare. Se la scuola non è sempre all’altezza dell’educazione emotiva, che prevede, oltre a una maturazione intellettuale, anche una maturazione psicologica, l’ultima chance potrebbe offrirla la società se i suoi valori non fossero solo business, successo, denaro, immagine, ma anche qualche straccio di solidarietà, relazione, comunicazione, aiuto reciproco, che possano temperare il carattere asociale che, nella nostra cultura, caratterizza sempre di più il mondo giovanile. Nel deserto della comunicazione emotiva che da piccoli non è loro arrivata, da adolescenti non hanno incontrato, e nelle prossimità dell’età adulta hanno imparato a controllare, fa la sua comparsa il “gesto”, soprattutto quello violento, che prende il posto di tutte le parole che questi ragazzi non hanno scambiato né con gli altri per istintiva diffidenza, né con se stessi per afasia emotiva.

Si tratta di gesti che mettono in crisi la giustizia e, con la giustizia, la società che per tranquillizzarsi è sempre alla ricerca di un movente. E il movente in effetti non c’è, o se c’è è insufficiente, comunque sproporzionato alla tragedia, persino ignoto agli stessi autori. Cercarlo ci porta lontano, tanto lontano quanto può esserlo l’avvio della nostra vita, dove ci è stato insegnato tutto, ma non come “mettere in contatto” il cuore con la nostra mente, e la nostra mente con il nostro comportamento, e il comportamento con il riverbero emotivo che gli eventi del mondo incidono nel nostro cuore. Queste “connessioni”, che fanno di un uomo un uomo, non si sono costituite, e perciò sono nate biografie capaci di gesti tra loro a tal punto slegati, da non percepirli neppure come propri. Questo è il nostro tempo, il tempo che registra il fallimento della comunicazione emotiva e quindi la formazione del cuore come organo che prima di ragionare, ci fa “sentire” che cosa è giusto e che cosa non è giusto, chi sono io e che ci faccio al mondo.

UMBERTO GALIMBERTI, Gli analfabeti delle emozioni, La Repubblica, 5 ottobre 2002.

Che ne pensate?

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Fabrizio

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I neuroni-specchio…

I neuroni-specchio...Il post di oggi riguarda un interessante articolo del Corriere della Sera che ha come tema i cosiddetti neuroni-specchio. Per chi non lo sapesse, i neuroni-specchio sono dei neuroni che si attivano sia quando un soggetto compie direttamente l’azione, sia quando l’azione viene osservata nel momento in cui viene compiuta da altri. Chiaramente la rispondenza sarà maggiore se si osservano individui della stessa specie dell’osservatore. Questo è ciò che spiega il nome neuroni specchio: essi sarebbero appunto degli specchi (neuronali in questo caso) nel quale si riflette l’azione degli altri. In altri termini possiamo dire che è come se i neuroni dell’osservatore rispecchiassero ciò che avviene nella mente del soggetto osservato, come se fosse l’osservatore stesso a compiere l’azione.

A cosa servirebbero questi neuroni? Qual è lo scopo di ‘imitare’ a livello neuronale un’altra persona? Il fatto è che questo tipo di neuroni sarebbe fondamentale per il comportamento empatico e alla base dei processi di apprendimento dei comportamenti cosiddetti specie-specifici. Il comportamento empatico, la capacità cioè di avvicinarsi emotivamente ad un’altra persona e sentire di poter provare ciò che l’altra persona sta provando, sarebbero appunto regolati da questi neuroni che permetterebbero, tramite il rispecchiarsi delle funzioni neuronali dell’altro, di sentire effettivamente ciò che l’altro sta provando in quel determinato momento. Il discorso è molto complesso, e ancora oggetto di studio, anche se le evidenze sembrano propendere per questo tipo di ipotesi.

Tornerò più avanti con dei post su questo argomento specifico. L’articolo, introduttivo al tema, come vi dicevo, è del Corriere della Sera. Sotto potete trovare il link all’articolo. Una volta che aprite il link sul sito del Corriere, vi consiglio anche di guardare il video.

http://www.corriere.it/salute/11_settembre_12/video-neuroni-specchio_83dbefb4-da35-11e0-89f9-582afdf2c611.shtml

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Perché sembra che i ragazzi ‘peggiorino’ nelle scuole medie? (2)

Perché sembra che i ragazzi 'peggiorino' nelle scuole medie (2)Torniamo sul tema introdotto dal post Perché sembra che i ragazzi ‘peggiorino’ nelle scuole medie? (1) (per rileggerlo potete cliccare sul titolo in arancione) L’autrice parla di senso di inadeguatezza dovuto al cambiamento scolastico ma credo non sia errato pensare che questo senso di inadeguatezza sia più ampio è abbia a che fare con la generale inadeguatezza che si inizia a percepire in quella fase della nostra vita, sia a livello di preparazione ma anche e soprattutto con le inadeguatezze a livello prepuberale (si inizia a non essere più bambini ma neanche adulti), a livello di relazioni (non si possono più fare certi giochi, soprattutto tra maschi e femmine perché non più ‘adeguati’).

Insomma tutta una serie di manchevolezze che possono pesare nel momento di massimo cambiamento del soggetto interessato. Aggiungiamo a questo il fatto che i ragazzi spesso non hanno una grande capacità di lettura di quello che sta succedendo, non capiscono perché non possano continuare a fare ciò che , fino a poco tempo prima, era autorizzato e tollerato nel mondo degli adulti. Tutto questo è disorientante non solo per il ragazzo ma anche per le figure che gli stanno intorno: i genitori spesso si trovano spiazzati dal cambiamento del proprio figlio e non sembrano in grado di ‘fronteggiare’ tutto ciò che il mutamento stesso comporta. Anche gli insegnanti si trovano a fronteggiare una delle situazioni più tipiche senza avere il  tempo né la disponibilità per stare attenti alle singole esigenze dei ragazzi. Questo porta ad una contrapposizione spesso frontale tra i genitori e la scuola: i primi, frustrati dal peggioramento, e in considerazione di come andasse bene il figlio alle elementari, attribuiscono alla nuova scuola il ‘merito’ del peggioramento del figlio per una serie di ragioni ( personale non preparato, scarsa offerta formativa, poca motivazione degli insegnanti ecc); gli insegnanti, all’ennesima massa di ragazzi chiassosi, si lamentano che ormai nessun ragazzo sembra in grado di arrivare con una famiglia alle spalle che possa dargli quel contenimento che spesso viene demandato alla scuola stessa. Nel mezzo di tutto questo stanno i ragazzi, disorientati dall’ennesima doppia lettura (colpa della scuola o della famiglia?) che non permette in un nuovo ambito di capire cosa stia succedendo. 

Quali sono le soluzioni per affrontare tutto questo? L’autrice cita i diversi attori in gioco: per i ragazzi sarebbe utile cercare di imparare a stare sul senso di inadeguatezza che l’età inevitabilmente comporta. Non pretendere che tutto questo sparisca e ‘vada via’ senza lasciar traccia, quanto cercare di comprendere come questo periodo possa essere fondamentale nello sviluppo della persona adulta che un giorno quel ragazzo diventerà. Per gli insegnanti sarebbe necessario, tenuto conto delle effettive e pratiche difficoltà, cercare di prestare il massimo dell’attenzione per ciò che quei giovani adulti stanno cercando di comunicare all’interno del contesto scolastico stesso. Per i genitori iniziare a pensare che quello che si ha davanti non è la semplice ’emanazione’ di ciò che sono i genitori, ma una persona che inizia ad essere indipendente, autonomo, una persona con la quale, pian piano, cercare di relazionasi su basi nuove che ci vedano inevitabilmente coinvolti ma che permettano all’adulto che si trova nei nostri figli di poter emergere. 

Per tutti e tre gli attori in gioco dovrebbe valere la consapevolezza di quanto la realtà della quale stiamo parlando sia multisfaccettata e complessa e di quanto eccessive ipersemplificazioni (è colpa della scuola, è colpa degli insegnanti…) lungi dall’aiutare la ricerca di una soluzione, finiscano con il deresponsabilizzare le scelte che ognuno di noi porta avanti e di attribuire la causa di ciò che succede essenzialmente a ciò che fa l’altro. Solo cercando di capire il nostro ruolo e la nostra posizione all’interno della realtà possiamo essere d’aiuto nello stabilire un modus che riesca a portare alla comprensione della situazione stessa. Sono consapevole che non sia facile, ma credo sia necessaria questa presa di coscienza rispetto ad una delle realtà che viene percepita come tra le più problematiche all’interno della nostra società.

Che ne pensate?

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Fabrizio 

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Perché sembra che i ragazzi ‘peggiorino’ nelle scuole medie? (1)

Perché sembra che i ragazzi 'peggiorino' nelle scuole medie (1)L’idea per questo post mi è stata data da alcuni genitori che inevitabilmente mi chiedevano perché il loro apparentemente perfetto figlio si fosse trasformato all’ingresso della scuola media. Nelle loro descrizioni era come se il loro figlio (o figlia naturalmente) all’ingresso nella scuola media, quindi tra gli undici e i tredici anni, fosse, come in una sorta di maledizione, condannato a cambiare diventando molto diverso rispetto a come era stato durante le scuole elementari. La domanda, inevitabilmente, è sorta spontanea: che succede ai ragazzi quando entrano nella scuola media? Per aiutarci a capire a cosa possa essere dovuto questo ‘peggioramento’, ho trovato un brano che credo possa illustrare molto bene alcune delle dinamiche che possono portare a questo: 

I problemi più seri iniziano con l’ingresso nella scuola secondaria di primo grado (l’ex scuola media) perché ‘tutti’ da capaci tornano ad essere ‘meno capaci’. Mi spiego. Se la scuola proponesse un percorso che non avesse come obiettivo primario l’apprendimento, tutto sarebbe più semplice: ognuno farebbe quel che sa fare e tutti viaggeremmo senza la necessità di sopportare la frustrazione del non saper fare. in fin dei conti l’apprendimento pone sempre questo problema: appena hai imparato qualcosa di nuovo, un docente ‘rompe’ e ti chiede quello che ancora non sai, quasi una sorta di perfidia che si accanisce contro l’alunno. Ognuno giustamente reagisce come può! Che cosa succede effettivamente! Che ciò che ti ha reso capace alla fine di un percorso quinquennale di scuola primaria (e rende tranquillo il genitore…) in poco tempo svanisce: le richieste tornano ad essere ‘incomprensibili’ come quando avevi iniziato in prima elementare e ti sembra di stare in un ambiente che parla un’altra lingua, fa strane richieste e s’inalbera perché tu, studente cresciuto, non sai dare risposte adeguate, più mature, più adatte alle classi che frequenti. Ma cosa hai imparato nei precedenti anni scolastici? Forse cose troppo elementari, nemmeno insegnate troppo bene e valutate… troppo ‘ottimamente’: al massimo sarai stato uno studente da ‘buono’. Che cosa succede in questa fase della vita delle persone?

  • Per gli alunni: si deve ricominciare, si deve tollerare di non capire subito, si deve sopportare che qualcuno ti metta in difficoltà e che spacci tutto questo come necessario per condurti ad un livello superiore di capacità critica, di ragionamento logico.
  • Per i docenti: la preoccupazione che la sfida assunta con il proprio lavoro non dia risultati perché accompagnare ‘questi mocciosi’ a diventare persone che ragionano è veramente dura e… c’è poco tempo, non sanno fare, sono distratti, sono ancora troppo bambini, vogliono giocare, i genitori demandano tutto alla scuola e così via.
  • Per i genitori: l’intemperanza preadolescenziale comincia a farsi sentire e le contrapposizioni iniziano ad apparire, lasciando disorientati i più, che avevano goduto dei successi, non solo scolastici, di un figlio bravo e rispettoso… Per quanto pronti ad affrontare i problemi legati alla crescita, non si è mai così pronti a sopportare  l’idea che nostro figlio rischi di diventare uno che si perde, che va male a scuola, che devia dalla norma! [1]
Secondo l’autrice l’idea del peggioramento sarebbe dovuta al senso di inizio che i ragazzi hanno all’entrata nella nuova scuola. Le competenze che pensavano fossero maturate nelle scuole elementari si rivelano nuovamente inadeguate.

– Continua –

[1] Rosci, M. (2009), Scuola: istruzioni per l’uso, Giunti Demetra, Firenze, pp. 88-89

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Succede…

Succede...Succede. Ogni tanto succede. Ogni tanto succede che un Paese faccia passi avanti verso una ‘normalità’ da molti agognata e percepita come non più rinviabile. Talvolta succede anche in Italia. Peccato che, come spesso avviene, questo passo avanti venga fatto dalle sentenze, perché la classe politica, così spesso indegna rappresentante di questo Paese, non sia ancora riuscita a dare un benché minimo indirizzo sociale a cambiamenti che ormai avvengono da tempo. Di cosa sto parlando? Della ormai famosa, per molti famigerata, sentenza della Corte di Cassazione che stabilisce come, in una causa per l’affidamento di un figlio, il fatto che la mamma conviva con una donna, sua compagna, non costituisca motivo per negarle la custodia e anzi, riconosce che sia fondamentalmente un pregiudizio” il fatto che “sia dannoso per l’equilibrato sviluppo del bambino il fatto di vivere in una famiglia incentrata su una coppia omosessuale”. Vi rinvio a questo link per una lettura dell’articolo apparso sul sito di Repubblica. La corte riconosce così che non ci sono gli strumenti per affermare che un bimbo con una coppia di genitori dello stesso sesso stia ‘peggio’ che in una coppia eterosessuale. E aggiungo che non ci sono gli strumenti neanche per affermare che, altro pregiudizio da sfatare, i figli di una coppia omosessuale crescano inevitabilmente con problemi di identificazione, avendo entrambi i genitori dello stesso sesso, che diventino cioè da grandi omosessuali a loro volta. Anche perché, se la stessa logica ferrea fosse applicata su coppie eterosessuali, non si capirebbe come da coppie eterosessuali nascano figli omosessuali. Naturalmente è partito l’apriti cielo da tutte quelle associazioni che si battono per il riconoscimento di un unico assetto familiare e che non riescono neanche a contemplare le diverse sfaccettature che i rapporti tra le persone possono avere. Anche questa volta capofila della battaglia contro, è stato il Vaticano che, con la consueta attenzione, delicatezza, rispetto e riguardo per la vita delle persone coinvolte in vicende simili, per bocca di un suo alto rappresentante arriva a dire che ‘l’adozione dei bambini da parte degli omosessuali porta il bambino a essere una sorta di merce’ ( Vincenzo Paglia, presidente del dicastero vaticano per la famiglia, arcivescovo, Corriere della Sera, 13.01.13). A parte che non si capisce per quale motivo i bambini diventino merce in caso di affidamento a famiglie omosessuali, specificamente nel caso in questione, ci si è concentrati  sul fatto che il padre del bambino fosse così inaffidabile che la Corte abbia scelto il ‘male minore’. E’ una bugia.

La Cassazione non ha optato per il male minore ma ha compiuto una scelta strategica basata sulla prospettiva migliore per il ragazzo, decretando ancora una volta, se mai ce ne fosse bisogno come  non ci sono certezze scientifiche a questi preconcettiAnzi a dire il vero esiste ormai una mole molto ampia di studi [1] che dimostra esattamente il contrario, e cioè che non esistono differenze nello sviluppo di bambini in coppie eterosessuali od omosessuali a nessun livello. Eppure non succede così spesso che questo sia un tema che la nostra classe politica abbia il coraggio di affrontare. E anche adesso, che ci ritroviamo sotto elezioni, e dovremmo prendere una decisione su chi guiderà questo paese, non sentiamo mai come intendono affrontare e risolvere alcuni temi di natura sociale che, accantonati o ignorati da troppo tempo, non possono essere più rinviati ne prorogati. Sappiamo tutto di spread, tasse, tassi, riforme fiscali ma un Paese non è solo economia. Certi temi devono semplicemente essere affrontati, devono essere prese delle decisioni che, mettendo da parte inutili e screditati pregiudizi e affrontando il tema da un punto di vista civile e maturo come questo Paese si vanta, spesso a torto, di essere, possa portare al riconoscimento dei diritti non solo dei minori, ma di migliaia di persone per le quali questa non è una battaglia di buone intenzioni ma riguarda la stessa vita, la sua organizzazione e il suo significato. Deve essere sanata una situazione che non può più essere tollerata. E sarebbe necessario che venisse affrontata dalla nostra classe dirigente, i nostri rappresentanti e non tramite sentenze e ricorsi. A volte succede che un Paese faccia passi verso la civiltà. A volte succede che un Paese faccia delle cose per TUTTI i suoi cittadini. A volte succede che i pregiudizi vengano abbattuti. A volte succede. Vorrei che succedesse decisamente più spesso.

 A presto…

Fabrizio

[1] Per chi volesse approfondire il tema, consiglio la lettura dell’esaustivo libro di Cristina Chiari e Laura Borghi (2009), Psicologia dell’Omosessualità, Carocci.

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La psicoterapia sistemico-relazionale (1)

La psicoterapia sistemico-relazionale (1)Visto che mi sono specializzato in terapia sistemica relazionale, è forse il caso di illustrare quali siano le caratteristiche di questo tipo di approccio teorico e come esso influisce sulla mia pratica terapeutica. Cos’è dunque la terapia sistemica relazionale? Si può definire il modello relazionale o sistemico come quell’orientamento teorico-pratico che, ispirandosi come riferimento concettuale alla teoria dei sistemi, centra essenzialmente il proprio interesse sui sistemi interpersonali, facendo dell’interazione tra le persone il momento privilegiato dell’analisi e dell’intervento. L’attenzione delle terapie sistemiche è pertanto focalizzata sul processo interattivo e comunicativo in corso tra i membri di un sistema, piuttosto che sulle dinamiche intrapsichiche o sulla ricostruzione storico-psicogenetica dei problemi del singolo. (…) Secondo questa teoria il comportamento è funzione della relazione e le relazioni presentano delle regolarità prevedibili che tendono a riproporsi con frequenza e che prendono il nome di ridondanze pragmatiche. La tendenza dei sistemi interattivi ad organizzarsi secondo regole diviene particolarmente evidente in quei sistemi che si fondano su una rete abituale di rapporti che ne garantiscono un certo grado di continuità e di stabilità (ad esempio famiglie, gruppi di amici, compagni di lavoro, classi scolastiche). (…) Secondo questa visione il sintomo non è quindi più il prodotto di una mente folle ma l’espressione di un disagio che investe nella sua totalità il sistema di cui l’individuo fa parte; la diagnosi diviene il dare luce al significato del sintomo all’interno del contesto in cui emerge e l’intervento terapeutico comporta la reintroduzione del sintomo all’interno del suo contesto di origine allo scopo di favorirne il riassorbimento stimolando un cambiamento  del sistema in toto che renda lo stesso sintomo inutile. [1]

In questo passo abbiamo visto alcuni dei punti nodali della terapia sistemica. Questi punti essenzialmente sono:

  1. l’importanza della relazione;
  2. l’attenzione necessaria al processo di comunicazione;
  3. la considerazione dell’insieme di regole che il sistema relazionale condivide;
  4. il minor carico del singolo rispetto al sistema;
  5. la funzione del sintomo tanto per il singolo quanto per l’insieme;
  6. il peso della storia familiare;
  7. il ciclo vitale della famiglia.
Prima di continuare sarebbe bene precisare che l’approccio del mio orientamento teorico è descritto da quattro aggettivi: sistemico-relazionale-simbolico-esperienziale. Sistemico perché, come abbiamo visto è fondamentale considerare l’influenza che il sistema nel quale l’individuo vive ha sull’individuo stesso; relazionale perché prende in considerazione l’influenza che la relazione ha per gli individui; simbolico, presupponendo quanta importanza abbia il vissuto interiore ed esperienziale che ha a che fare con la capacità del sistema e del singolo di poter apprendere tramite l’esperienza stessa. Il processo simbolico non è in contrasto con quanto affermato sul peso del sistema rispetto al singolo ma cerca di prendere in considerazione quello che è la costruzione del simbolo dell’individuo rispetto a se stesso e, ovviamente, alla condivisione della realtà simbolica con quello che è il sistema più ampio. Vediamo ora di cercare di chiarire meglio i punti. Partiamo dall’importanza della relazione: senza entrare eccessivamente nel dettaglio, basti sapere che l’approccio sistemico relazionale nacque dall’importanza che le teorie generali sul funzionamento dei sistemi stavano avendo in fisica e sul peso sempre crescente che la società, gli altri, sembravano rivestire nell’influenzare lo sviluppo del singolo. Ci si rese conto, insomma, che altre teorie psicologiche erano legate eccessivamente alla realtà interna del singolo e non tenessero in debita considerazione il peso dell’esterno sia nella creazione di questa realtà che, soprattutto dell’espressione di questa realtà nel rapporto con l’altro. Questo poteva avvenire essenzialmente tramite la comunicazione.
 – Continua –

[1] Canrini, L., La Rosa, C. (1991), Il vaso di Pandora, Carocci, Roma, pp. 291-293

 

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