Legittimare le emozioni (2)

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La consapevolezza, funzione psichica capace di generare benessere e di sollecitare il cambiamento, può attivarsi se prevale un atteggiamento mentale di accettazione e, contestualmente, di rinuncia al controllo onnipotente della realtà. Fintanto che un soggetto si tormenta con proposizioni del tipo: ‘Avrei potuto, avrei dovuto…’, ‘Avrebbe potuto, avrebbe dovuto…’, finisce per disperdere energie preziose in vissuti logoranti di colpa, di depressione o piuttosto di rabbia, energie sicuramente sottratte a quell’impegno di consapevolezza, massimamente utile per affrontare i problemi e le difficoltà dell’esistenza. La consapevolezza delle emozioni può iniziare quando cessa il combattimento finalizzato al tentativo di eliminare vuoi le emozioni sgradite, vuoi la realtà che le ha generate ed inizia la processazione dei dati emotivi, così come possono essere rilevati nella loro specificità e nella loro autenticità. Non c’è consapevolezza se non c’è rinuncia al dominio, cioè se non lasciamo andare la pretesa di controllare tutto.

Il nostro atteggiamento è spesso, invece, improntato al controllo, alla valutazione, al giudizio che ci portano lontani dalla consapevolezza e ci avvicinano a reazioni come l’impotenza, la rabbia o la tristezza. La frustrazione è doppia perché da un lato non riusciamo nell’intento di controllare quello che proviamo, dall’altro, non essendoci potuti soffermare a capire cosa fosse quello che stavamo vivendo, aumenta il nostro senso di estraneità per noi stessi, di non conoscerci a fondo di non sapere neanche noi chi siamo. Come può questo sentire farci stare bene? Come può condurci ad una conoscenza migliore di noi stessi? Qual è il modo attraverso il quale superare questo cortocircuito tra ragione ed emozioni, questa sorta di impasse interno a noi stessi? Il primo passaggio riguarda l’accettazione di quello che proviamo, cercando di far stare fuori il giudizio, metro razionale che tentiamo di applicare alla realtà emotiva: 

Per elaborare le emozioni occorre accettarle innanzitutto così come si manifestano nella nostra mente prima di cercare di elaborarle. Nel momento in cui la consapevolezza accetta le emozioni, anche le più stressanti, le circoscrive ed in qualche misura la fa evolvere. Nominare la confusione per esempio può essere il primo organizzatore mentale e linguistico della confusione stessa, l’avvio di un percorso per fare emergere un qualche elemento di chiarezza dal caos. Nel momento in cui non pretendo di dominare o manipolare queste emozioni, bensì tento di riconoscerle e di pensarle, per ciò stesso si rinforza un area della mente che riduce il rischio del sequestro emozionale: prendo atto che in me c’è rabbia o c’è tristezza, ma non c’è solo rabbia o tristezza, perché si attiva una funzione di consapevolezza che si rende conto della rabbia e della tristezza; mi accorgo che in me c’è ansia, ma non dilaga, perché c’è un’isola della mia mente dove si attiva la capacità di dare un nome all’ansia. [1]

Uno dei punti nodali sta proprio nella capacità di riconoscere e dare un nome a quello che proviamo perché questa capacità ci rende l’idea che nel momento in cui ci sia un sentimento avvertito come negativo, esista anche una sorta di contraltare dentro di noi che ci consente di capire come non siamo del tutto preda o in balia solamente di quella emozione. Se ci limitiamo a giudicarci (non sono adatto, non sono in grado di, non è normale provare questo,…) focalizziamo la nostra attenzione e la nostra consapevolezza solamente su come ci stia facendo stare male quello che proviamo, su come questo sentirci ci faccia stare male, ma non su cosa stiamo effettivamente provando. Se riuscissimo, invece, nel momento in cui proviamo un’emozione a riconoscerla, sentiremo che dentro di noi esiste un’area che riesce a non farsi travolgere dall’emozione stessa, un’area che la identifica e costituisce il primo passo perché quell’emozione sia riconosciuta e possa entrare a far parte della nostra stessa realtà psichica.

Non è sicuramente un processo facile, vanno scardinati una serie di automatismi censori e neganti che da sempre tentano di mettere a tacere la nostra realtà emotiva. Non è facile, dicevo, ma è un primo passo per portare luce su parti di noi stessi trascurate, nascoste e condannate, il mancato riconoscimento delle quali è spesso responsabile del nostro stare male.

 
Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

[1] Foti, C. (2012), La mente abbraccia il cuore, Edizioni Gruppo Abele, Torino, pp. 52-54  

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A scuola di violenza

A scuola di violenzaSono rimasto colpito, come molti di voi credo, dall’ennesimo caso di cronaca riguardante un episodio di violenza scolastica. In breve il racconto (come apparso sul quotidiano L’Unione Sarda): un insegnante di disegno di una scuola di Cagliari, è stato denunciato dai genitori di un suo alunno sedicenne perché lo avrebbe schiaffeggiato. L’episodio risale al 29 ottobre scorso. Sempre stando a quanto riportato dal quotidiano, il ragazzo era stato ripreso diverse volte perché disturbava la lezione ed era stato infine mandato fuori dall’aula. Il professore sostiene di essere stato aggredito dal ragazzo e di avergli dato uno schiaffo per difendersi. Nell’articolo si riporta anche la posizione dei genitori del ragazzo che qualificano l’episodio come ingiustificabile.

A corredo dell’articolo, i commenti dei lettori all’episodio rendono molto bene la posizione generale su questo tipo di episodi: ‘Non credo che il professore abbia torto ma credo che i genitori oltre allo schiaffo del prof dovrebbero darglielo anche loro. Coraggio prof io sono con te.’, ‘Il prof. ha fatto benissimo, due ceffoni ben dati quando ci vogliono fanno solo bene. Io li darei anche a certi genitori che sono più cafoni dei loro figli’, ‘Siamo arrivati all’assurdo non solo non sono in grado di educare i figli ma si permettono pure di denunciare. …… mio padre mi avrebbe preso a calci …..povera Italia !’, ‘Se i fatti si sono svolti come riporta la cronaca:PIENA SOLIDARIETÀ AL DOCENTE. Sono una madre di tre figli e ho avuto molto dalla scuola per i miei ragazzi, ai quali ho sempre insegnato rispetto per le istituzioni’, e ancora ‘Se ai miei tempi un insegnante fosse arrivato al punto di darmi uno schiaffo e lo avessi riferito a casa ne avrei preso il doppio dai miei genitori’, ‘Confido nel Giudice chiamato ad esprimersi sull’accaduto affinché dia un paio di calci nel sedere a quel genitore degno di cotanto figlio!’, ‘Purtroppo questi teppisti da strapazzo riescono a compromettere la vita è la serenità di una intera comunità provocando all’inverosimile e non consentendo di fare lezione.. Ma la cosa grave è che sono anche spalleggiati da genitori incapaci ad educare che in queste situazioni hanno sempre la denuncia facile per raggranellare qualche soldo. Fosse stata mia madre, lui avrebbe aggiunto su me altri sonori ceffoni dopo quello del professore’, ‘Difesa totale nei confronti del professore’, e infine ‘Perché non denunciarli ai tribunali dei minori per l’inadeguatezza della loro educazione?’.

Il tono dei commenti è sorprendentemente simile. Sostanzialmente abbiamo la condanna dei genitori, la condanna del ragazzo e il supporto dell’insegnante. Lo schieramento è palese. Nessuno si chiede cosa abbia fatto degenerare in questo modo la situazione. Nessuno ipotizza che questo sia solo l’ultimo anello di una catena molto lunga che vede noi adulti coinvolti nella sempre più marcata incapacità di fornire modelli positivi ai ragazzi. Si parte lancia in resta con l’accusa, non sembra esserci spazio per una riflessione, per un’interrogarsi che non ha facili ricette.

Il disagio all’interno delle scuole sta diventando sempre più evidente e palpabile, ed è qualcosa che travalica sempre più spesso il contesto scolastico e assurge a fatto di cronaca. Alcuni punti sembrano però chiari e compaiono anche in questa vicenda: il più evidente è l’allentamento dell’alleanza genitori/insegnanti. Se un tempo c’era il riconoscimento sociale del ruolo dell’insegnante e della sua funzione educativa, ora spesso sembra di assistere ad una battaglia tra due eserciti schierati che sembrano non condividere gli stessi obiettivi. In questo scollamento gli insegnanti si trovano soli a fronteggiare difficoltà che, per paura che sfocino in denunce, vengono lasciate perdere e non contenute. Quest’ultimo aspetto, il ricorso frequente a denunce, non fa che esacerbare ulteriormente le posizioni, disimpegnando gli insegnanti.

Qual è la soluzione a tutto questo? Non ho facili consigli da dare, perché ritengo la situazione particolarmente complessa. Mi vengono in mente, invece, una serie di condizionali: andrebbe rivista la nostra scelta educativa, andrebbe favorito il confronto tra posizioni diverse, andrebbe coltivato il rispetto delle persone e della loro funzione, andrebbe svelenito il clima, andrebbe rinsaldata l’alleanza tra le figure che, a vario titolo, si occupano dell’educazione dei ragazzi. Andrebbero fatte tante cose in effetti. Andrebbe anche evitato uno schieramento aprioristico su posizioni facili (ha ragione l’insegnante/hanno ragione i genitori) che non solo ci fanno perdere la complessità della vicenda, ma che temo non aiutino a comprendere quello che succede.

Che ci sia spesso un atteggiamento esecrabile da parte di alcuni ragazzi è, purtroppo sempre più frequente. Che quei ragazzi siano cresciuti con modelli adulti quantomeno discutibili è un altro tassello del puzzle. Che le cose possano essere risolte additando un colpevole, questo è un aspetto del quale non sono poi tanto sicuro

Come sempre chi volesse/potesse condividere la sua esperienza può farlo contattandomi per mail (fabrizioboninu@gmail.com) oppure per telefono (3920008369). 

 

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

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Legittimare le emozioni (1)

Legittimare le emozioni (1)Questo post è una riflessione sul peso che le emozioni giocano nella nostra vita. Molto spesso questo peso è assolutamente sconosciuto o sottovalutato perché manca la consapevolezza dell’emozione stessa. Può sembrare un gioco di parole, ma viviamo profondamente all’oscuro di quello che sentiamo nel più profondo di noi e, anzi, quando avvertiamo che quello che stiamo provando non è ‘consono’, facciamo di tutto per metterlo a tacere e nasconderlo agli altri ma sopratutto a noi stessi, rendendo ancora più difficile identificare e capire quale sia l’emozione che proviamo in quel preciso istante. Questa sorta di automatismo censore è  molto rischioso, perché ci porta a non conoscere la nostra stessa realtà emotiva. Per contrastare questa tendenza dovremmo, invece, fare il processo inverso: portare consapevolezza nel nostro vissuto emotivo, di modo da agevolare la conoscenza del nostro mondo interno e legittimarne il peso nella nostra vita. Questo processo non è scontato, anzi bisogna prestare particolare attenzione a quello che succede. La prima domanda da porsi credo sia proprio la più diretta: come si legittimano le emozioni? Il primo passaggio è sicuramente quello di riconoscere l’emozione stessa:

L’autoconsapevolezza è la capacità di legittimare, di battezzare le emozioni dopo che sono venute al mondo (psichico), per tentare di capirne il senso e le cause al fine di poterle padroneggiare e gestire. Nella comunità tradizionale battezzare e dare un nome a un bambino significava accoglierlo nella comunità sociale, accettarlo come portatore di una dignità, di un qualche diritto: ‘anche lui è un cristiano!’. Analogamente dare un nome alle emozioni significa poterle accettare come portatrici di una dignità psicologica, di una capacità informativa e segnaletica. Dal momento che un’emozione intensa è nata, è comparsa nella mente, vale la pena che venga riconosciuta. Un tempo un figlio illegittimo, che nasceva di fuori del matrimonio e non riceveva il cognome paterno, non possedeva diritti. Analogamente un’emozione rilevante che è entrata nello psichismo e non risulta pensabile e nominabile, diventa priva di diritti e non ha possibilità di comunicare alla mente del soggetto le informazioni di cui è portatrice

Il passo riportato, come tutti i successivi, è tratto dal testo di Claudio Foti del quale trovate i riferimenti bibliografici in basso. Colpisce in questo passaggio il parallelismo tra il battesimo e la consapevolezza: così come il battesimo sancisce l’ufficialità dell’ingresso del bambino nella comunità cristiana, allo stesso modo il riconoscimento e la consapevolezza rende possibile che le nostre emozioni entrino all’interno della nostra autocoscienza. L’autoconsapevolezza passa necessariamente per riconoscere e dare un nome, ‘battezzare’ appunto, le nostre sensazioni, le nostre emozioni, i nostri sentimenti, di modo che abbiano la possibilità di essere integrate in noi. 

L’autoconsapevolezza emotiva, che costituisce il primo principio dell’intelligenza emotiva, è la capacità di ascoltare e dirigere l’orchestra: è la capacità di riconoscere, pensare e nominare i vissuti emotivi che si ritrovano nella mente del soggetto, che spesso entrano velocemente ed imprevedibilmente nel suo campo mentale, che talvolta vi ristagnano oppure fluiscono oppure ancora si scontrano o si accavallano e che in ogni caso non sono autogenerati dalla volontà del soggetto. Mentre la logica del controllo onnipotente persegue l’eliminazione, il soffocamento o il camuffamento delle emozioni giudicate non consone e non opportune, il controllo delle emozioni a cui  possiamo realisticamente pervenire non è immediato, è per così dire un controllo in seconda battuta: non possiamo pretendere un controllo in prima battuta, cioè che le emozioni sgradite vengano immediatamente cancellate o non entrino affatto nella nostra mente. È più realistico e sano imparare a confrontarsi con le emozioni che sono già entrate nel nostro campo mentale e ad impegnarsi a riconoscerle, a dialogare con esse, a gestirle, per evitare che esse siano capaci di sequestrarci. [1]

Spesso non riusciamo invece a riconoscere o a dare un nome a queste emozioni proprio perché ne siamo spaventati o perché non le consideriamo consone al nostro stato. Questo ci porta a negarle, a volerle controllare, a volerle reprimere proprio perché non ci piace come ci fanno stare, come ci fanno sentire, e faremmo di tutto pur di levarle dalla nostra esperienza, faremmo di tutto pur di non sentire quello che stiamo sentendo e provare ciò che stiamo provando.

Il problema fondamentale è che qualunque tipo di controllo è un controllo ex post, a posteriori, quando ormai abbiamo già fatto esperienza di ciò che abbiamo vissuto. Per sua stessa natura, il mondo delle emozioni non è dominabile dalla ragione, questo può avvenire (apparentemente) solo dopo che abbiamo provato l’emozione. Subito dopo la ragione può intervenire per cercare di riportare ‘l’irrazionalità emotiva’ all’interno delle briglie razionali, e possibilmente censurarlo o negarlo, ma il vissuto sarà stato già incamerato senza che neanche sia stato possibile capire cosa sia successo, o cosa abbia causato la nascita di quell’emozione. Questo non permette il riconoscimento, il battesimo di cui parlavamo prima, e fa si che lo stato provato rimanga incompiuto e sconosciuto nell’animo della persona che l’ha provato. 

– Continua – 
[1] Foti, C. (2012), La mente abbraccia il cuore, Edizioni Gruppo Abele, Torino, pp. 52-54 
 
 
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Come avere figli educati?

Come avere figli educatiIl post di oggi riporta un articolo del Corriere della Sera che cerca di individuare quale sia la strategia migliore per avere figli più educati: è meglio premiarli o sgridarli? Meglio metterli in punizione o lodare il comportamento corretto? Non è una differenza di poco conto se ci si pensa, perché il metodo educativo basato sulle punizioni si basa sull’intimorire il bimbo sulla reazione al comportamento sbagliato, mentre elogiare un comportamento corretto fa leva sul rinforzo positivo ad un comportamento ‘buono’. Nell’articolo si propende per il privilegiare l’elogio piuttosto che la punizione. Questa tendenza viene chiamata «terapia di interazione tra genitori e figli» ma, più semplicemente, è la tendenza, propugnata da una parte degli psicologi infantili, ad accantonare le punizioni (per lo meno quelle troppo drastiche) e a privilegiare elogi e abbracci. In pratica, l’imperativo per i genitori è: non fissatevi sui comportamenti ‘cattivi’ ma valorizzate quelli ‘buoni’

Secondo lo psicologo Timothy Verduin, docente di Psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza all’Università di New York, sarebbe meglio che questi elogi venissero accompagnati da manifestazioni fisiche di affetto (una carezza, un abbraccio…) che avrebbero lo scopo di accompagnare e rinsaldare il legame tra genitori e figli. Questa è la ricetta per avere figli educati? In realtà, l’articolo riporta quelle che sono le ‘evidenze empiriche’ di ogni genitore: a volte semplicemente parlare non serve a molto, sopratutto se il bambino è piccolo. Cercare di far comprendere solo col dialogo a volte non sembra dare i risultati sperati, e i genitori si trovano costretti ad alzare la voce. E’ un comportamento basato sulla punizione anche se stabilisce comunque una regola all’interno della famiglia e presuppone che sia contenitiva rispetto ad una totale assenza di regole o ad una liceità apparente per tutto. Le regole in qualche modo ordinano il mondo per quanto sembrino dolorose da rispettare. 

Per il rispetto delle regole stesse vale il principio che sarebbe meglio l’elogio piuttosto che la punizione. Come riportato nell’articolo, infatti, il castigo è un’arte, e molto difficile» spiega lo psicoterapeuta Gustavo Pietropolli Charmet. Che illustra il metodo: «Bisogna prima di tutto capire qual è la comunicazione implicita contenuta nella trasgressione della regola: nella violazione di un patto c’è sempre, nel bambino, una speranza di potersi affrancare, di crescere. Se capiamo questo suo desiderio e lo aiutiamo a realizzarlo non ripeterà il comportamento scorretto. E ancora: La sanzione non deve mortificare ma aiutare a crescere. Per esempio, se la trasgressione sta nel non apparecchiare la tavola, si potrebbe far frequentare al bimbo un corso di cucina, per sviluppare una competenza legata al cattivo comportamento». L’arte del castigo, insomma: «La punizione – nota Charmet – è un momento educativo molto alto: il bambino che trasgredisce non si aspetta di provare un dolore fisico o morale come conseguenza della sua azione, ma vuole vedere quale sarà la reazione degli adulti al suo superare i limiti fissati» Ecco perché il «buon» castigo conclude lo psicoterapeuta, «richiede tempo e astuzia». E non deve essere una sculacciata, «o un togliere ai figli i soldi, le uscite o l’uso del computer». Sì al castigo allora, ma con intelligenza.

L’aspetto importante è cercare di capire cosa il bambino sta cercando di comunicarci con il suo infrangere le regole. Non si tratta di cose molto lontane dalla realtà come si può vedere. Basta applicare buonsenso e giudizio. E cuore. Capisco che molti di voi potrebbero obiettare alla frequenza del corso di cucina, ma ci sono veramente tanti metodi per ottenere lo stesso risultato. Quello che posso suggerire è il coinvolgimento: una soluzione che veda coinvolti i genitori (per vicinanza, per spiegazione, per comprensione…) avrà risultati sicuramente più duraturi di una semplice punizione per privazione (‘non usi il pc, non usi più i giochi’, ecc.)

Intanto qui il link all’articolo:

L’articolo è di Giulia Ziino.

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

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L’eterocentrismo: le sentinelle in piedi

L'eterocentrismo le sentinelle in piediLa riflessione di oggi parte da una fenomeno abbastanza recente ma che sta incontrando una discreta rilevanza mediatica: le cosiddette sentinelle in piedi. Il 5 Ottobre abbiamo assistito alla nuova manifestazione, in diverse piazze d’Italia, dei rappresentanti di questa associazione. Ma chi sono le sentinelle in piedi e qual è il loro obiettivo? Come riporta il sito nazionale sentinelle in piedi è una resistenza di cittadini che vigila su quanto accade nella società e sulle azioni di chi legifera denunciando ogni occasione in cui si cerca di distruggere l’uomo e la civiltà. Ritti, silenti e fermi vegliamo per la libertà d’espressione e per la tutela della famiglia naturale fondata sull’unione tra uomo e donna.
La nostra è una rete apartitica e aconfessionale: con noi vegliano donne, uomini, bambini, anziani, operai, avvocati, insegnanti, impiegati, cattolici, musulmani, ortodossi, persone di qualunque orientamento sessuale, perché la libertà d’espressione non ha religione o appartenenza politica, ci riguarda tutti e ci interessa tutti.
[1]

Cosa significhi nella loro visione distruggere l’uomo e la civiltà è facilmente riassumibile: sono contrari a qualunque tipo di unione che non sia tra uomo e donna. La loro è una visione prettamente eterocentrica, fondata sull’idea che l’unione eterosessuale sia l’unica possibile e da tutelare a discapito di qualunque altra forma relazionale. Come qualunque ‘centrismo’ anche questo è basato sul presupposto che la propria posizione sia migliore delle altre. Mossi dall’intento di voler preservare la famiglia ‘naturale’ (sulla ridefinizione dell’aggettivo naturale in una società come la nostra ci sarebbe da scrivere un trattato!), le sentinelle in piedi lottano perché altre persone non godano degli stessi diritti civili dei quali gode una famiglia eterosessuale. Sono sempre più convinto del fatto che, se una mobilitazione è contro i diritti di qualcun’altro, abbia come presupposti delle premesse discutibili.

Il ‘centrismo’ più famoso, in psicologia, è sicuramente l’egocentrismo. Userò le parole di Claudio Foti, psicologo e psicoterapeuta, per descrivere cosa sia l’egocentrismo e tracciare un parallelismo tra i due ‘centrismi’ citati:

l’egocentrismo non coincide con l’affermazione sana del Sé, anzi l’egocentrismo rivela un qualche fallimento nel processo di integrazione e di espansione del Sé. L’atteggiamento egocentrico del soggetto con carenze narcisistiche, che rincorre conferme e puntelli esterni alla propria grandiosità immaginaria, rivela un deficit di autostima, un’incompiutezza profonda della soggettività, una mancanza di autonomia vitale. Le cause profonde del suddetto deficit va ricercata peraltro nella frustrazione traumatica di alcuni bisogni di valorizzazione e di integrazione del Sé che non sono state soddisfatte nell’infanzia.

(…) L’atteggiamento egocentrico del soggetto alla ricerca avida di gratificazioni immediate per sé, insensibile agli interessi delle persone che gli stanno a fianco rinvia ad una debolezza del sé. L’Ego del soggetto egocentrico non è un’ego forte, ricco e vitale, bensì un Ego impoverito dall’incapacità di trarre soddisfazione da quelle dimensioni dell’esistenza che presuppongono il rispetto per l’altro. Questo soggetto non riesce a percepire e ad integrare bisogni fondamentali, che lo spingerebbero a valorizzare la dimensione relazionale e comunicativa dell’essere umano, una dimensione che implica la sensibilità e la capacità di identificazione nei confronti dell’altro. [2]

L’eterocentrismo, così come l’egocentrismo, si accompagna al ritenere come degna di comprensione e accettabile solamente la propria idea di realtà e, nel caso specifico, a non ritenere accettabile l’idea che esistano altre realtà familiari, altre idee di famiglia, altre idee di amore che non sottraggono, ma anzi aggiungono complessità ad una dimensione, la vita relazionale, nello stesso tempo privata e sociale, intima e pubblica. E credo sia chiaro, inoltre, come questa visione ego/eterocentrica non lasci spazio alcuno alla dimensione relazionale, alla sensibilità e alla capacità di identificazione con l’altro. Ammantati da un apparente savoir-faire silente, le sentinelle in piedi portano avanti un messaggio univoco e discriminatorio: la mia realtà è migliore della tua! Come per l’egocentrismo, anche l’eterocentrismo così estremizzato non può non essere indice di debolezza, di intransigenza, di rigidità di visione, un monolite che non lascia spazio a dubbi, alle domande, all’altro. La visione eterocentrica è, in’ultima analisi, profondamente egoistica nella prospettiva monodimensionale che persegue. 

Ogni ampliamento dei diritti non dovrebbe essere vissuto come un pericolo, non dovrebbe mobilitare sentinelle che veglino, non dovrebbe semplicemente costituire motivo di scontro. Se viene vissuto in questo modo, sarebbe interessante chiedersi il perché del senso di minaccia avvertito dall’altro, il motivo di tanta rigidità e di tanta chiusura. Probabilmente aiuterebbe a far luce sulla necessità di tanta intransigenza.

Spero arrivi un momento nel quale le sentinelle, continuando a leggere (magari anche libri che confutino tesi diverse rispetto a quelle nelle quali credono!), possano finalmente mettersi sedute e godersi l’evoluzione della società senza sentirsi minacciate. Se poi da silenti diventassero dialoganti sarà fatto un passo in più per cercare di superare lo scoglio di egocentrismo che preclude la vista di ogni posizione diversa dalla propria.

 

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

[1] www.sentinelleinpiedi.it

[2] Centro Studi Hansel e Gretel (2008), Adultocentrismo: il mondo dominato dagli adulti, Sie Editore, Torino, pp. 8-9

 

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Psicologia: cos’è la sintassi terapeutica?

Psicologia cos'è la sintassi terapeuticaIl post di oggi vuole essere spunto per una riflessione più approfondita su quelle che sono le regole, sia implicite che esplicite, che sovrintendono al lavoro terapeutico stesso. Il tema apparirà un poco più complicato del solito: spero di riuscire a renderlo chiaro. Uno dei termini in gioco è la parola sintassi. Sintassi è una parola che indica una branca della linguistica che si occupa di come le parole si combinino tra di loro nel formare la frase. Stiamo dunque parlando delle regole tramite le quali si relazionano tra parole. Trasponendo il termine all’interno della terapia possiamo cercare di indicare come la sintassi stia ad indicare le regole che determina l’incontro terapeutico, il modo con cui gli attori coinvolti nella terapia (il paziente (o i pazienti!) e il terapeuta stesso) si relazionino tra di loro e diano vita a qualcosa di nuovo legato alla loro stessa relazione. A questo ‘costrutto relazionale’ viene dato il nome di sintassi terapeutica: quello che il paziente ed il terapeuta costruiscono assieme e che influisce sulle regole di funzionamento della relazione stessa. 

Vi riporto il brano di un testo che spiega in altre parole quello di cui stiamo parlando: 

Intendiamo per sintassi dell’intervento l’insieme delle regole (esplicite, implicite) che presiedono alla organizzazione presunta (dal terapeuta), in una struttura unitaria, per il materiale proposto da coloro che parlano. Si tratta delle regole utilizzate per definire la situazione vissuta, è il tentativo di dare un ordine complessivo all’immagine nuova che emergere anche il terapeuta attraverso il materiale che gli viene proposto. 

Fermiamoci ad analizzare meglio quello che viene fin qui detto. Uno degli aspetti interessanti da sottolineare riguarda il fatto che queste regole possono essere esplicitate oppure implicite alla relazione stessa. Le regole implicite possono essere sia di natura più ampia (sociale, morale, ecc.) oppure esplicitate all’atto della conoscenza tra medico e paziente, la stipula del cosiddetto contratto terapeutico. Per esempio è una regola esplicita il fatto che una seduta duri mediamente un’ora, o che costi un certo tanto e così via. All’interno di questa relazione regolata (la seduta) si cerca di arrivare a dare un ‘ordine’, un’organizzazione al materiale che il paziente stesso porta. Il paziente può portare questo materiale con un suo ordine e, all’interno dell’intervento terapeutico, questo ordine può essere confermato, cambiato, ricompreso, approfondito ecc. In una parola possiamo dire che questa visione venga risignificata, gli venga data, cioè un nuovo significato. Questo movimento avviene qualunque sia l’orientamento teorico del terapeuta stesso. Al massimo l’orientamento avrà un’influenza su quelli che sono i modi (la grammatica) con cui ci si muove in terapia. Il mio orientamento, per esempio, è di tipo sistemico-relazionale: prendo in considerazione il peso che la famiglia ha all’interno delle vicende che mi porta l’individuo, mentre uno psicoanalista freudiano potrebbe non prendere troppo in considerazione l’aspetto familiare. Questa differenza di approccio non cambia, però il valore più ampio dell’esperienza terapeutica che riguarda la risignificazione del vissuto del paziente. 

Tutte le costruzioni terapeutiche partono dalla identificazione di un fatto rilevante dal punto di vista interpersonale collegato al manifestarsi del sintomo, presupponendo:

a) Una condizione di equilibrio che precede l’inizio dello star male e che è stata messa in crisi dall’evento; indicando b) La funzione positiva svolta dal sintomo sull’equilibrio personale di colui che lo manifesta e sull’equilibrio del gruppo di cui fa parte; suggerendo c) Una forma speciale di complicità da parte del terapeuta che lo riconosce. [1]

Tutte le costruzioni terapeutiche partono dalla identificazione da parte del paziente di un punto nodale che ha attivato la messa in crisi del suo stesso sistema di vita e che sia collegato all’insorgenza di un sintomo, la ragione per cui il paziente arriva a chiedere una terapia. Può essere l’ansia, la gestione della rabbia, la paura della morte, qualcosa con la quale la persona ha difficoltà a relazionarsi. Cosa sottostà alla comparsa dello stesso sintomo? Le premesse di questo sono che la vita del paziente fosse in equilibrio prima, cioè che ‘funzionasse’, equilibrio che è stata messo in crisi dall’insorgenza del sintomo stesso. Attraverso l’aiuto del terapeuta è possibile comprendere come il sintomo sia segno di reazione alle mutate condizioni dell’equilibrio, e come sia possibile dare un significato diverso al sintomo stesso. Capita talvolta che il sintomo venga ridefinito in maniera positiva rispetto a quella che era la percezione della persona stessa. L’ansia per esempio può essere un segnale di discrepanza tra ciò che dobbiamo fare e ciò che vorremmo fare. Non è negativo sentire ansia nel momento in cui può essere un campanello d’allarme per la piega che sta prendendo la nostra vita. Va sottolineato come il sintomo possa avere una funzione positiva, sebbene spesso difficile da cogliere, anche per le persone che più sono vicine al paziente stesso. In questo movimento si instaura quella che l’autore chiama complicità e che io definisco alleanza terapeutica tra il paziente e il terapeuta stesso che può così entrare in contatto non solo con il sintomo ma con quello che il sintomo stesso rappresenta per la persona e per il sistema relazionale all’interno del quale si muove.

Quanto delineato costituisce la premessa del lavoro terapeutico ed è alla base per la costruzione della relazione coi pazienti.

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

[1] Cancrini, L. (1991), Il vaso di Pandora, Carocci, Roma, pag. 293

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Freud e la finestra rotta

Freud e la finestra rottaCerte insufficienze delle nostre prestazioni psichiche (…) e certe azioni che appaiono non intenzionali, risultano, se si applica loro il metodo dell’indagine psicoanalitica, come ben motivate e determinate da motivi ignoti alla coscienza.

Sigmund Freud

Psicopatologia della vita quotidiana

 

 

Premessa: avete mai sentito parlare della teoria delle finestre rotte? La teoria delle finestre rotte ha un’applicazione in ambito urbanistico e sostiene che in un ambiente urbano dove vi siano delle trascuratezze (una finestra rotta appunto o qualunque altra cosa percepibile come degrado) queste, se non riparate in tempi brevi, finiranno per attirare altro degrado (altre finestre rotte, tag sui muri, vandalizzazioni di altro tipo) e innescherà una spirale degradante per l’edificio o più in generale per il quartiere nel quale tutto questo avviene.

Seconda premessa: nell’opera di Sigmund Freud Psicopatologia della vita quotidiana (1901), l’autore si prodiga, con tantissimi esempi pratici, di cercare di spiegare come molte delle cose che facciamo quotidianamente (lapsus verbali, dimenticanze, atti mancati ecc) non siano frutto del caso o della distrazione ma che in esse interverrebbero forze psichiche inconsce che non ci fanno ‘sbagliare’ per nulla ma che anzi tutti quegli atti siano dotati di un senso molto profondo se solo ci prendessimo la briga di analizzarli.

Queste premesse mi servivano sia perché anche io credo che incuria chiami incuria sia perché ritengo verosimile che dietro alla trascuratezza si nasconda altro. L’intuizione di Freud è applicabile anche al modo in cui viviamo: la trascuratezza dell’ambiente nel quale viviamo può essere un grande segnale di forze psichiche non consapevoli. Se una persona avesse la casa particolarmente trascurata, ad un livello superficiale potremmo semplicemente dire che è disordinato o disorganizzato. Se volessimo andare più in la nell’analisi, una trascuratezza marcata potrebbe essere indice di tante cose ben più complesse:

  • la persona potrebbe avere poca stima di sé, per esempio, ‘non meritare’ (per i motivi più disparati e personali) una casa pulita e/o ordinata ed essere dunque costretto ad espiare questa sua indegnità nel caos;
  • la trascuratezza potrebbe essere un modo per dire quanto ci si considera poco indipendenti, quanto non si reputi possibile prendersi cura di se stessi e del proprio ambiente da soli, potrebbe, in questo senso, essere la richiesta di aiuto che si fa agli altri di intervenire (confermando, però, ancora una volta la propria dipendenza dall’altro);
  • altra ipotesi possibile è che la trascuratezza sia un vero e proprio segno di depressione: la persona pensa di non avere valore, di non contare nulla e che nulla di quello che faccia nella sua vita possa cambiare le cose. Se la mia vita non ha senso a chi importa se la mia casa è curata o no?

Queste osservazioni sulla persona sono secondo me estensibili anche a livello sociale più ampio. Ed eccoci allo scopo di questo post: amando profondamente la regione nella quale abito, la Sardegna, non posso non rimanere stupefatto dall’incuria, dalla negligenza, dalla trascuratezza, dalla sporcizia vista e percepita a molti livelli: strade colme di immondizia, presumibilmente gettata anche da macchine in corsa, spiagge scempiate da mozziconi, lattine, bottiglie, ecc. Ritenendo i miei conterranei parte in causa preponderante di questa incuria (difficilmente un turista abbandona un materasso a bordo strada!) mi sono chiesto quale sia la causa di tutto ciò. Ignoranza? Troppo semplice. Incuria? Non mi spiego come allora ci sia per molti versi una cura maniacale del proprio giardino e un totale disinteresse per le condizioni della strada di fronte allo stesso giardino.

No, ho sempre pensato che dovessero esserci spiegazioni più complesse. Incuria, abbiamo detto, genera incuria: se gli altri, è l’estremizzazione del pensiero, non si curano minimamente della spiaggia e spengono le sigarette lasciandone tra la sabbia i mozziconi, perché io me ne dovrei occupare? Perché dovrei assumermi una responsabilità che altri rifiutano di prendere? L’emulazione è, purtroppo, dietro l’angolo e questo fa si che al degrado se ne aggiunga altro. Anche l’egoismo gioca un ruolo preminente: il mio benessere viene prima di quello di tutti gli altri. Se a me viene comodo lasciare il mozzicone nella sabbia, a chi importa che ad altre persone potrebbe dar fastidio?

Inoltre, in accordo con quanto ipotizzato da Freud, devo ritenere ci sia un motivo più profondo che possa spiegare il modo in cui ci comportiamo. Le possibilità sono diverse e tutte, a mio avviso, plausibili:

  • siamo una regione profondamente depressa che non crede più in se stessa? A chi può interessare la pulizia delle strade se non percepiamo neanche il nostro futuro?
  • Oppure stiamo gridando, come in tante altre occasioni, che non siamo in grado di badare e curare noi stessi sperando che qualcuno ci salvi dalle nostre stesse mani?
  • Ci stiamo dicendo, complici le continue sparate sul fatto che viviamo in un paradiso terrestre, che non meritiamo questo paradiso e che faremo di tutto per essere scacciati indegnamente da esso come novelli Adamo ed Eva?  

Forse il mio è un ragionare di testa perché il mio cuore ha continuato a lagnarsi per tutta l’estate. Sto provando in ogni modo a capire, sto cercando da tempo una spiegazione, vorrei che qualcuno mi aiutasse a comprendere questo: c’è un motivo per cui siamo così trasandati? C’è un motivo per cui accettiamo tutto questo come se fosse inscritto nel nostro DNA?

Io ci sto provando, ma ognuna delle spiegazioni lascia l’amaro in bocca. Se qualcuno riuscisse a farmi capire come può ognuno di noi sopportare il degrado spicciolo che ci circonda gli sarei eternamente grato. Gliene sarebbe grato anche il mio cuore e forse riuscirebbe a farmi passare la prossima estate con meno inquietudine.  

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

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Alunni, insegnanti & Facebook

Alunni, insegnanti & FacebookEccoci nuovamente a settembre. L’inizio di un nuovo anno scolastico porta sempre con sé un misto di paure e desideri. Lavoro spesso con ragazzi che frequentano le scuole e mi capita di interagire anche con i loro insegnanti. Il rapporto tra questi due ruoli è sempre stato complesso e delicato nella nostra società per la funzione che svolgono ma, negli ultimi tempi, si è aggiunto un fattore nuovo, i social network come Facebook o Twitter, che rendono il quadro ancora più complesso. Avendo a che fare con persone che si occupano di scuola, capita  di sapere che i ragazzi chiedano di interagire in tanti modi, così che possano avere un contatto diretto con, per esempio, gli insegnanti. Hanno la mail personale, spesso formano con altri studenti gruppi su Whatsapp che consentono di comunicare con tutti i membri della classe, hanno i contatti di Facebook tramite i quali possono interagire con gli insegnanti stessi.

Da questa disponibilità nasce il dilemma: questa possibilità di contatto aiuta od ostacola il rapporto tra alunni e docenti? Credo che l‘interazione possa essere particolarmente proficua per entrambi gli attori in gioco sempre che si sia consapevoli dei mezzi che vengono utilizzati e, soprattutto, che vengano osservate alcune semplice regole da ambo le parti: entrambi dovrebbero per esempio prestare attenzione a non sovrapporre il proprio profilo scolastico con quello privato: quest’ultimo dovrebbe, a mio avviso, essere distinto da quello che si usa per scuola. La sovrapposizione e mescolanza di profilo pubblico e privato ingenera una serie di confusioni che non sono facilmente gestibili nell’ambito di un rapporto come quello tra alunni ed insegnanti.  

Altro fattore che gli insegnanti dovrebbero prendere in considerazione riguarda lo sbilanciamento di potere nel rapporto tra loro e gli alunni. Il rapporto infatti non è paritario, ed è impossibile che lo diventi nel momento in cui sono amici su Facebook. La relazione è sbilanciata da una serie di disparità, prima fra tutte quella per cui un professore, per lavoro, giudica il suo alunno. Sarebbe più proficuo, quindi, non giocare a fare gli amici dei propri allievi: i ragazzi possono trovare amici tra i coetanei; se ricercano la presenza di un adulto è perché desiderano qualcuno che, affiancandoli, possa aiutarli nelle loro scelte

Da questo punto ne consegue un altro: se i professori e gli alunni condividessero la bacheca di Facebook questo probabilmente potrebbe portare ad una minore libertà e ad una minore spontaneità nel comportamento dei ragazzi. Tanto per fare un esempio: come potrebbero dei ragazzi scherzare su un professore della loro scuola se uno stesso insegnante della scuola è presente e legge le loro bacheche? Anche se virtuale, la bacheca di Facebook (o di Twitter, o di Instagram ecc) è uno spazio privato anche se nell’era della condivisione totale andrebbe ridefinito il significato delle parole privato o pubblico. Proprio questa possibile confusione potrebbe ingenerare fraintendimenti complicati da gestire rispetto al ruolo, alla professione, al pubblico e al privato, al rapporto che si può costruire tra alunni e insegnanti.

Quale soluzione può esserci? Ostracizzare il mondo virtuale come luogo di comunicazioni non rientra nei miei obiettivi (sarebbe abbastanza strano screditare un aggettivo che compare nel nome del mio sito!), ma credo sia necessario trovare un modo per interagire che possa permettere ad entrambi gli attori in gioco di far si che l’esperienza sia positiva. Se per esempio i ragazzi potessero accedere ad una pagina di discussione con gli insegnanti che fosse solo professionale, si potrebbe creare uno spazio di incontro ulteriore tra alunni ed insegnanti. 

La materia è attualmente discussa e diverse sono le correnti di pensiero. Alcune scuole nel mondo sono arrivate a vietare per regolamento questo tipo di realtà: (qui un articolo che si occupa della materia). In Italia non si hanno ancora notizie di scuole che abbiano fatto passi di questo tipo. Insomma una materia in divenire, che rende necessario riflettere circa una maggiore consapevolezza nell’utilizzo di questi mezzi. 

Come sempre se ci fossero insegnanti o ragazzi o genitori che volessero/potessero condividere la loro esperienza possono farlo contattandomi per mail (fabrizioboninu@gmail.com) oppure per telefono (3920008369). 

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

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Ci siamo separati a causa di nostro figlio!

Ci siamo separati a causa di nostro figlio!Il post di oggi prende spunto da una aspetto che noto spesso durante le terapie nelle quali sia coinvolta una famiglia con almeno un figlio. Vi ho già descritto il mio modo di lavorare con i bambini o con ragazzi adolescenti: quando il ragazzo (o la ragazza!) è minorenne, invito i genitori per conoscere meglio quella che è la situazione familiare. Capita allora che i genitori, soprattutto ma non solo, quando è presente un figlio adolescente, inizino a raccontare di come divergano le strade educative tra i due. Il papà accusa la madre di essere troppo indulgente e bonaria, la madre si difende dicendo che sa invece come prendere il figlio/a e accusa a sua volta il partner di non saper ‘maneggiare’ i figli e di essere, al contrario, troppo rigido e severo. Mi è capitato che questa ‘lotta educativa’ fosse talmente forte ed esasperante, che in alcuni casi entrambi ritenevano fosse meglio separarsi piuttosto che condividere queste differenze così marcate nello stile educativo dei figli. Queste divergenze insanabili rispetto al modo con cui affrontare l’educazione dei figli non è altro che, a mio avviso, la classica ciliegina sulla torta. E’ quantomeno inverosimile che un figlio, per quanto sia provocatorio, sopratutto durante l’adolescenza, possa portare due persone che condividono una stessa visione del loro ruolo genitoriale a separarsi per causa sua. E’ più probabile che quel figlio si sia infilato tra le crepe nel rapporto tra i suoi genitori e sia riuscito ad allargarle.

A questo proposito vi riporto il brano di un testo particolarmente interessante e piacevole da leggere. Si intitola Questa casa non è un albergo! Adolescenti: istruzioni per l’uso, ed è scritto da Alberto Pellai, medico e psicoterapeuta dell’età evolutiva, nonché conduttore della trasmissione radiofonica ‘Questa casa non è un albergo’ in onda su Radio24 e che ha raccolto in questo testo parte delle esperienze e delle comunicazioni che quotidianamente arrivano in trasmissione:

L’ingresso in adolescenza pone un figlio di fronte ad un dato di fatto: il suo bisogno di lealtà, la sua idealità, la sua voglia di riparare ciò che la vita gli ha fatto trovare ‘rotto’, spesso lo spingono a smascherare le ipocrisie del mondo degli adulti. Sono numerosi i figli che provocano e istigano i propri genitori a entrare in crisi in modo manifesto, quasi approfittando della propria adolescenza. Tantissime mamme papà approdano in consulenza psicologica dichiarando di essere sulle soglie della separazione per colpa dei differenti punti di vista sull’educazione di un figlio.

Anche nell’esperienza della trasmissione radiofonica, molti genitori attaccano dicendo ‘con mio figlio è un vero disastro’ ma, interpellati sull’intesa di coppia di fronte alle crisi del figlio, concludono la conversazione affermando ‘con il mio/a compagno/a di vita è un vero disastro’. 

Allora torniamo all’inizio: nessun figlio può essere la causa di separazione dei propri genitori. La coppia coniugale non si sfascia di fronte alle fatiche educative imposta dalla crisi di crescita di un figlio. Solitamente i compiti educativi per un figlio diventano distruttivi per una coppia perché si innestano su un terreno d’intesa molto fragile a causa della scarsa intesa che già preesiste tra uomo e donna.[1] 

Sono d’accordo con quanto sostiene l’autore. Credo sia improbabile che un figlio, qualunque sia l’età, possa essere causa della rottura del rapporto tra i genitori. Può sicuramente essere un fattore enorme di stress per il rapporto stesso, ma ribadisco il fatto che se esiste una condivisione rispetto al ruolo educativo che i due genitori sentono di svolgere è inverosimile che un figlio ne causi la rottura, per quanta forza possa mettere nell’attaccare il legame.

Spesso i figli sembrano introdursi con la forza nei ‘punti deboli’ della coppia genitoriale: questo processo è teso più a verificare la robustezza e la veridicità del legame delle persone che lo circondano, e quanto queste, soprattutto i suoi stessi genitori, possano reggere e reggerlo. Ma questo ‘attacco’ non è rivolto allo sfaldamento del legame coniugale, quanto piuttosto a testarne la valenza. Non si può, dunque, attribuire a questo movimento, dettato tra l’altro dalla fase di vita che ragazzi adolescenti si trovano a vivere, la causa di un possibile allontanamento tra i membri della coppia genitoriale. Se si imputa al rapporto genitori-figli la causa dell’allontanamento tra i membri della coppia sono certamente possibili due aspetti: il primo è quello di trovare un facile capro espiatorio circa le difficoltà della propria relazione, il secondo aspetto rilevante è di non riuscire a vedere qual è stato il nostro ruolo nella accadere degli eventi. So che è una posizione decisamente più difficile, ma credo più utile per cercare di comprendere quello succede. 

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

[1] Pellai, A. (2012), Questa casa non è un albergo!, Feltrinelli, Roma, pag. 92

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La morte ai tempi di Facebook

La morte ai tempi di FacebookUna nuova morte ‘famosa’ scuote il mondo reale e, di conseguenza, il mondo virtuale. L’ultimo episodio riguarda il famosissimo attore Robin Williams scomparso lo scorso 11 Agosto. Dal giorno in questione, come in moltissime altre occasioni del genere, sui social network abbiamo assistito al florilegio dei più vari stati: citazioni famose dai film interpretati dall’attore, immagini degli stessi film, immagini dei film con le frasi più rappresentative, appassionati stati dove si viene messi al corrente di quale film è stato più importante per la persona che lo posta.

Lungi da me l’idea di pensare che esista un modo giusto o sbagliato per celebrare la scomparsa di qualcuno, noto, però, un punto che mi colpisce: questa condivisione continua, questa sorta di incapacità a fermarsi un attimo e cercare di capire cosa veramente la scomparsa di una persona che giudichiamo tanto importante ha provocato in noi, testimonia ancora una volta di più sia la nostra incertezza a maneggiare un tabù come la morte, sia la nostra profonda difficoltà nel riuscire a contenere le nostre stesse emozioni. Non c’è quasi interruzione tra ciò che avviene e il modo in cui viene condiviso, nessun momento nel quale la persona possa pensare a cosa ciò che sta accadendo sta provocando in lui.  Se ci fermassimo a pensare, credo che avremmo modo di sentire davvero quello che ci sta passando per la mente (e per il cuore!).

Questa continua rincorsa ad essere più veloci degli altri a commentare, più rapidi nel condividere status, più originali degli altri nello scrivere cose sulla nostra bacheca, mi porta a ritenere che più che contattare l’emozione per quello che sta avvenendo, stiamo cercando di allontanarla, di condividerla, di ‘scaricarla’, delegando alla spartizione con gli altri il peso stesso della nostra emozione.

Questo è comprensibile: una morte, per quanto possiamo pensare sia quella di una persona ‘lontana’ e non conosciuta, è invece molto dolorosa quando abbiamo la sensazione che quella persona ci abbia accompagnato in tanti rilevanti momenti della nostra vita, partecipandovi ed entrandovi a far parte a tutti gli effetti. Una persona che, come in questo caso, può averci fatto ridere, fatto piangere, fatto riflettere, fatto star male, una persona che, a sua insaputa (o forse per niente a sua insaputa!) ha partecipato alla vita di milioni di persone. Il dolore, per quanto appunto non sia una persona presente (dovremmo veramente iniziare a ridefinire i termini che utilizziamo quotidianamente!) è sentito, il dispiacere per la perdita della persona è forte perché percepito come perdita di qualcosa anche nostro.

Tutto questo, anziché farci fermare un attimo, attiva spesso, di contro, una reazione opposta: buttare fuori, scacciare, allontanare. Questo accade anche alla morte di persone conosciute personalmente, quando il funerale stesso diventa occasione per mettere assieme i dolori, per far sì che ognuno possa partecipare e condividere il dolore con gli altri.

Nell’era dei social network questa tendenza molto comune, la condivisione del dolore, è cambiata in maniera paradossale: è diventata una rincorsa, come dicevo prima, a mostrare agli altri quanto l’evento ci abbia colpito ma, il momento stesso in cui lo mostriamo è il momento in cui abbiamo più difficoltà ad entrare in contatto con ciò che sentiamo: ‘l’esposizione’ è l’istante di maggiore distanza dall’emozione provata. Non ci lasciamo che poco spazio per riflettere, per sentire cosa sia stato a provocare quel dolore. Nulla di tutto questo appunto, tutto è pubblico, tutto già dato in pasto a Facebook, tutto già espulso nel fiume di milioni di altri post che segnalano la ormai universale incapacità a fermarci a vivere privatamente un momento di dolore.

Questo è il punto da cui ripartire secondo me: il nostro dolore. Prima di mostrarlo in un post su Facebook, proviamo a fare quello che ci costa di più: condividerlo con noi stessi. Proviamo a stare su quello che proviamo, a cercare di capire il senso di quel dispiacere per la morte dell’attore famoso.

Credo sia uno dei pochi modi attraverso il quale un’esperienza dolorosa può trasformarsi in qualcosa di diverso e insegnarci aspetti nuovi di noi stessi. Altrimenti il rischio è che sembri solo l’ennesima occasione per mostrare agli altri ciò che in realtà abbiamo difficoltà a sentire.

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

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Sudoku e cruciverba aprono la mente?

Sudoku e cruciverba aprono la menteQuesto è il periodo dell’anno nel quale abbiamo la possibilità di usarle più spesso: mi riferisco alle riviste di cruciverba, rebus, sudoku, ecc che spuntano (e vendono) soprattutto d’estate. Molti le considerano degli innocui passatempi ma forse dovremmo iniziare a considerarle non più un semplice giochino ma un vero e proprio modo per nutrire la mente.

Secondo la ricerca svolta dalla Washington University di San Louis pubblicato su Psychology and Aging giocare o sottoporre il proprio cervello a compiti di problem solving potrebbe portare a riuscire a superare la chiusura mentale spesso associata all’età, preservando l’efficienza intellettiva e disponendo verso nuove esperienze, a tutto vantaggio della salute generale e dell’aspettativa di vita. Lo studio è stato condotto su un gruppo di 183 partecipanti, età media 77 anni, e cercava di testare come potesse influire sullo sviluppo intellettuale svolgere alcune di queste attività mentali. Il risultato è stato abbastanza sorprendente e per certi versi confortante: le persone anziane che si erano ‘sottoposte’ alle 15 ore settimanali richieste per l’esperimento, alla fine dell’esperimento stesso rispetto al gruppo di controllo, sono risultati mentalmente più aperti a nuove modalità di ragionamento, dimostrando per la prima volta che un trattamento non farmacologico può mutare i tratti di personalità di un anziano, da sempre ritenuti congelati e immutabili.

risultati sono stati sorprendenti perché si sono ottenuti dei miglioramenti nelle cosiddette malattie senili senza il bisogno di ricorrere a farmaci. Nell’articolo si cita una di queste malattie tipicamente senili, la pseudodemenza depressiva, che porta le persone di una certa età, in assenza di danni fisiologici  o cerebrali, ad iniziare a ragionare con una eccessiva lentezza, o con un’apatia di fondo che può portare anche all’allentamento o all’evitamento delle relazioni. Tenere in allenamento il proprio cervello può avere effetti positivi per l’intero tono dell’umore e può far evitare l’insorgenza di manifestazioni così problematiche. Considerando, poi, che il risultato è stato ottenuto senza l’ausilio di farmaci, la cura sembra ancora più positiva. Le persone che si erano sottoposte all’esperimento soffrivano meno di insorgenze di questo tipo anche se non è chiaro, bisognerebbe fare uno studio a parte, se questo sia dovuto al fatto che i soggetti hanno solo allenato il cervello oppure perché dovevano interagire con gli altri partecipanti nelle lezioni di training che erano tenuti a frequentare. Probabilmente, ed io propendo per una spiegazione multifattoriale, entrambi i fattori hanno concorso al raggiungimento di questo risultato. 

Quello che mi sembra interessante sottolineare di questo studio, ed è un aspetto ormai confermato da parecchi altri studi di questo tipo, è come tenere la mente allenata e attiva possa in qualche modo allontanare una serie di problemi o di patologie che invece caratterizzano menti più ‘sedentarie’. Come l’allenamento di un muscolo porta al suo sviluppo, allo stesso modo accade con l’allenamento del nostro cervello.  Questo fatto è dimostrato empiricamente da altri studi come quello svolto dalla California University di Berkeley che ha dimostrato, tramite l’uso della PET (tomografia a emissione di positroni) comenel cervello di chi ha sempre svolto attività cognitive stimolanti come leggere o anche solo fare parole crociate ci sono meno placche di amiloide, la sostanza che rappresentano le stimmate della malattia di Alzheimer. Insomma, non ci rimane altro da fare che allenarlo il più possibile cercando di essere attivi e curiosi nei confronti della realtà che ci circonda. Se poi volete aggiungere sudoku o cruciverba, fate voi!

Cliccate qui per il link all’articolo.

L’articolo è del Corriere della Sera firmato da Cesare Peccarisi.

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu 

P.s.: quello della foto è un vero schema di Sudoku. Se voleste cimentarvi a risolverlo ed iniziare ad allenarvi…

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Quanti giochi dovrebbero avere i bambini?

Quanti giochi dovrebbero avere i bambiniCapita, lavorando con bambini e coi loro genitori, che vengano chiesti consigli su come affrontare quelle che nelle descrizioni appaiono come vere e proprie piccole emergenze quotidiane che riguardano soprattutto la gestione dei rapporti tra genitori e figli. Come fare se…? Come comportarsi quando…? Cosa rispondere se…?  Vi ho spesso detto come non reputi opportuno entrare nell’area dei consigli, perché starei implicitamente accogliendo il fatto che i genitori stessi non siano in grado di occuparsi dei propri bambini, e che non siano, in ultima analisi, dei bravi genitori. Uno degli aspetti che viene riportato più spesso riguarda la non obbedienza dei figli i quali, secondo i genitori, non sembrano intenzionati ad obbedire neanche quando vengono levati loro, per punizione, qualunque tipo di giocattolo. Via la Playstation, via la Wii, via le Psp, via la tv, via il pc, ecc. Ora già da questo lungo elenco si potrebbe iniziare una riflessione sull’abbondanza di giochi e distrattori dai quali i bambini sembrano costantemente circondati nella loro quotidianità. Questo fa sorgere un altro interrogativo legato ai giochi: che valore hanno i giochi nell’educazione di un bambino? Come detto, i genitori si lamentano di non essere ascoltati nonostante levino per punizione tutti i giochi dalle mani dei figli. Il vero quesito sarebbe: perché i bambini hanno così tanti giocattoli? Sono necessari al loro sviluppo? Qual è il senso di una punizione che leva un gioco quando sanno di poter contare su un’altra infinità di giochi pronti a rimpiazzare e non far rimpiangere il gioco sottratto o perduto? Per illustrare meglio il valore e la complessità che il gioco ha per un bambino vi riporto un brano (trovate i riferimenti bibliografici in fondo alla pagina) che mi sembra perfetto per illustrare ciò di cui parlavo:

Spesso i sensi di colpa ci inducono a riempire i nostri figli di cose materiali. Le case di oggi straripano di giocattoli, vestiti, divertimenti. (…) Il risultato è che i bambini crescono con l’idea che le cose siano a loro disposizione e debbano essere costantemente rinnovate. Si comportano come se avessero assolutamente bisogno di qualcosa, facendo leva senza volerlo sul nostro timore di non dar loro abbastanza, che si tratti di cose materiali o di tempo, attenzione, amore. Vogliamo compensarli per quello che ci pare di non aver dato, e diamo loro oggetti. Ma così facendo rischiamo di privare il bambino di un’esperienza necessaria. Quando vogliono qualcosa, i bambini hanno la sensazione di averne bisogno. Ma noi, come adulti, siamo in grado di discernere ed attraverso il nostro atteggiamento anche il bambino impara a distinguere tra desiderio e bisogno; è importantissimo che riesca a farlo, perché rischia altrimenti di essere sempre in balia di bisogni estremi, che non potranno mai essere soddisfatti del tutto. L’abitudine ad ottenere ed a buttare via facilmente, inoltre, priva il bambino dell’idea che esista qualcosa di speciale. Se il giocattolo si rompe, per risparmiargli un dispiacere viene immediatamente sostituito, ma così il bambino non fa l’esperienza di soffrire per la perdita di qualcosa e di superare poi il dolore. Così i giocattoli non possono assumere un significato emotivo e il bambino non impara da affezionarsi profondamente a qualcosa. Ne risente anche il suo senso della realtà, la presa di coscienza che, se si rompe qualcosa, è danneggiato ed è possibile che non funzioni più. Un’altra conseguenza positiva del fatto di non ottenere sempre quello che si vuole e di sentirsi dire ogni tanto no da un genitore, è la capacità di sopportare uno spazio vuoto. (…)

Se gli spazi vengono riempiti all’istante, non c’è posto per la creatività. Se un bambino ha un giocattolo per tutte le occasioni, non userà la sua immaginazione per inventare nuove combinazioni, per trasformare un oggetto in un altro. Una scatola sarà solo una scatola, invece che una potenziale casa di bambole, un pezzo di legno resterà in giardino senza poter diventare la bacchetta di un direttore d’orchestra, un fucile o qualunque altra cosa suggerisca la fantasia. Il fatto di avere sempre a disposizione l’oggetto specifico rischia di sviluppare solo i lati più concreti, a scapito della capacità simbolica, dell’inventiva, dell’immaginazione. Inoltre, cosa ancora più importante, viene riportata la sensazione che lo spazio vuoto sia intollerabile. Stiamo dicendo a nostro figlio che non avere è terribile, che senza soddisfazione è perduto. In fondo gli stiamo trasmettendo l’idea che lui è quello che ha. Se il bambino lega la propria importanza a quello che possiede, la sua immagine di sé sarà sempre a repentaglio. Tollerando di non avere, invece, acquista più fiducia in se stesso e più consapevolezza di essere la persona che è, con un suo carattere, che è la cosa più preziosa di tutte, che nessuno gli può togliere. È questo senso del proprio valore, di essere apprezzati per quello che si è che aiuta a sopravvivere nei periodi di avversità. [1]

Credo sia esaustivo nel raccontare quella che è la complessità e l’intreccio di diversi piani (educativi, relazionali, oggettuali e simbolici) che da sempre accompagnano lo sviluppo del bambino attraverso il gioco. E’ importante prestare attenzione a questi aspetti perché anche su questi si basa la crescita e lo sviluppo del bambino. Forse allora sarà più proficuo che ci si metta a parlare con loro per spiegare perché non compreremo tutti i giocattoli visti a casa dall’amichetto piuttosto che accontentarlo acriticamente pur di non vederlo piangere. Anche per l’adulto è un importante passaggio, perché, cresciuti nell’idea che tutto sia accessibile e comprabile, deve implicitamente contenere l’idea di essere ‘cattivo’ nel non accontentare il proprio figlio. Insomma una sfida evolutiva per tutti i membri della famiglia coinvolti. Un altro esempio di come la complessità entri anche nelle cose più quotidiane della nostra vita.

Come al solito fatemi sapere che ne pensate e se qualche genitore volesse raccontare la sua esperienza può contattarmi tramite blog, email (fabrizioboninu@gmail.com) o telefono (3920008369).

A presto…

Fabrizio Boninu

[1] Phillips, A. (2003), I no che aiutano a crescere, Feltrinelli, Milano

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