Come si lavora in terapia? Questa domanda è (o dovrebbe essere) presente nella quotidianità del lavoro terapeutico, perché la capacità di porsi tale quesito denota una buona capacità di osservazione di se stessi ed è una delle caratteristiche necessarie e indispensabili nella vita lavorativa di ogni psicologo. Il punto fondamentale è l’immagine che un professionista ha di quello che è il suo ruolo in terapia. Cosa pensa debba fare in terapia? Cominciamo con una premessa: non esiste un’immagine fissa e statica di quello che dovrebbe essere il suo ruolo perché, come tutte le immagini, è soggetta a cambiamenti e ad aggiustamenti. Molti di noi, per lo meno ad inizio carriera professionale, hanno un’idea abbastanza preconcetta e precostituita di cosa voglia dire fare lo psicologo: cosa bisogna fare, come mi devo comportare, quali siano le cosa migliori da fare in terapia. Insomma, si costituisce uno schema fisso su cosa si deve fare e cosa non si deve fare per essere un buon terapeuta e questa immagine può diventare uno schema molto rigido che costituisce una sorta di cornice invalicabile a quello che si ritiene sia opportuno fare terapia. L’esperienza quotidiana del lavoro porta, di contro, ad affrontare situazioni complesse che travalicano gli schemi, situazioni che sono mutevoli e instabili, non prevedibili e discontinue e vanno aldilà dello schema che ci imponiamo. Questo continuo incontro/scontro con i confini dovrebbe portare lo psicologo ad interrogarsi su quale senso abbiano questi confini, su come definiscano la professione, su come definiscano il suo modo di lavorare, su come siano importanti nel definire la sua relazione col lavoro, su come riescano ad influenzare l’idea stessa della propria professionalità in relazione al suo lavoro.
Quando ho iniziato a lavorare ritenevo non fosse particolarmente saggio rivelare dettagli della mia vita in nessun caso all’interno della relazione terapeutica. La mia immagina era quella di relazione sbilanciata (il paziente parla, lo psicologo tace), l’immagine dello psicologo ‘misterioso’ , che mai si sognerebbe di giocare dettagli della sua vita in terapia. In realtà, con l’esperienza e con la formazione avuta successivamente, ho iniziato a pensare che fornire dei particolari della propria vita, e quindi raccontarsi, possa avere una funzione importante nello stabilire un contatto ed una vicinanza con il proprio paziente. Continuando a studiare, ho appreso che questa viene usata come tecnica nel lavoro ed è chiamata self-disclosure.
Lo stile di conduzione della terapia da parte del terapeuta è, in definitiva, il risultato di una molteplicità di fattori che ha come centro di partenza il terapeuta stesso e la sua visione della sua relazione col paziente. Parte dalla sua formazione e, non fermandosi a questa, costruisce una relazione basata sulle caratteristiche uniche e personali del terapeuta stesso e quelle della persona con la quale lavora e sta costruendo una relazione terapeutica.
A questo proposito ho trovato particolarmente interessante il passaggio del libro che vi riporto, e che reputo uno dei migliori letti ultimamente, (trovate tutti i riferimenti bibliografici in fondo all’articolo). L’unica premessa della quale avete bisogno è l’utilizzo che l’autore fa del termine guru con il quale intende il terapeuta che costituisce la guida del suo pellegrino (paziente). Non fatevi fuorviare dal termine: nel libro è usato in maniera ironica e sancisce proprio la possibilità che non esista un ‘guru’ ma che ognuno debba trovare in se stesso la capacità di prendere in mano la sua vita:
Quando lavoro con un paziente, non solo ascolto la sua storia ma gli racconto anche la mia. Per raggiungere una meta, dobbiamo conoscerci a vicenda. Uno dei lussi dell’essere uno psicoterapeuta è che aiuta a mantenerti onesto. È un po’ come rimanere nella terapia per tutta la vita. Mi aiuta a rimanere impegnato nella narrazione ripetuta della mia storia per il resto di quel pellegrinaggio che è la mia vita. La ricerca condotta nell’autorilevazione appoggia la mia esperienza che l’apertura personale del guru facilita e invita l’apertura crescente del pellegrino. Ma io opero non per aiutare il paziente, ma per aiutare me stesso. È dal centro del mio stesso essere che vengo spinto a partecipare la mia storia. Il fatto che ciò aiuti il paziente è un vantaggio secondario. Ogni volta che commetto l’errore di dare una parte di me stesso deliberatamente per spingere il paziente a condividere con me una parte maggiore di se stesso, egli si ribella alla manipolazione, alla qualità ipocrita e pretenziosa dei miei sforzi. Negli ultimi anni, al contrario, mi fido sempre più dei miei sentimenti, e faccio quanto mi sento di fare senza cercare di controllare l’effetto sul paziente. Quando un paziente diffidente mette in questione la mia sincerità in contrapposizione al mio uso deliberato di tecniche psicoterapeutiche, mi trovo totalmente disinteressato alla distinzione. Non mi chiedo se sono sincero o tecnico quasi da quando ho rinunciato a chiedermi se sono egoista o altruista. Che differenza fa tutto questo? Come possono aiutarmi le risposte a tali domande? (…)
Lo scambio reciproco delle autoriparazioni tra guru e pellegrino, naturalmente, dà priorità a quella del cercatore. Sotto certi aspetti io sono un esperto pagato per offrire servizi. Il paziente, anche se può esserne inconsapevole sa esattamente, sempre meglio di me, dove cominciare ogni seduta. [1]
Questa è la sintesi perfetta di ciò che intendevo, sulla capacità che ognuno di noi dovrebbe avere in seduta di iniziare da se stesso, di partire dalla propria realtà, di aiutare aiutandosi. Solo partendo da noi possiamo arrivare all’altro, solo mettendo l’accento su quanto possiamo aiutare noi stessi siamo in grado di essere d’aiuto agli altri.
E credo fosse una possibilità che neanche prendevo in considerazione quando ho iniziato a lavorare.
Che ne pensate?
A presto…
[1] S. B., Kopp (1972), Se incontri il Buddha per la strada uccidilo, Astrolabio, Roma, pag. 29
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Ciao Fabrizio, concordo pienamente sul fatto che agli inizi di questo meraviglioso lavoro (almeno per me)siamo particolarmente influenzati dalle regole che la formazione specialistica ci ha impartito. Anche io, con il passare del tempo e con l’aumentare dell’esperienza clinica ho potuto constatare le evoluzioni del mio stile psicoterapico. Mi sono fatta l’idea che tutti i miei cambiamenti siano una commistione di eventi personali, insegnamenti ricevuti dai miei pazienti, aggiornamenti professionali e soprattutto psicoterapia personale e supervisioni periodiche. Ricordo con tenerezza una “Me” che svolgeva la pratica clinica per 4anni in una struttura pubblica a carattere psichiatrico: le persone che avevo davanti, al 99%, erano molto “critiche” nella gestione di quei confini di cui parli. Volevano sapere quanti anni avevo, dove abitavo, come avrei passato le vacanze di Pasqua o Natale, se avevo un fidanzato o dei figli o se dopo quella seduta ci sarebbe stata un’altra persona.
Qualcuno potrebbe pensare che quelle sono curiosità; non erano curiosità. Ho imparato bene, in quel periodo della mia professione, che lì esistevano dei meccanismi di difesa che inconsapevolmente (da parte dei pazienti)cercavano di giocare la relazione terapeutica.
Sentir parlare di sé il terapeuta, per alcuni tipi di pazienti e mi riferisco a semplici riferimenti e non al racconto della vita del terapeuta, ha un valore terapeutico. Consente al paziente di interrompere, attraverso il confronto, il potere attribuito all’idealizzazione. Ovviamente tale pratica non è applicabile in tutte le relazioni terapeuta -paziente, secondo me.
Secondo i miei sentimenti, ciò che è impalpabile ai più, è proprio cosa fa questo benedetto psicoterapeuta per aiutare e far star meglio e/o bene i pazienti. Usiamo noi stessi! Forse non siamo una cassa di risonanza, attraverso l’empatia, di ciò che prova il paziente?
Riuscire a sentire, accogliere dentro di me e restituire, a chi chiede aiuto, ciò che esprime, è il lavoro più importante che opero. Sono consapevole che senza alcuna “revisione periodica alla mia automobile psichica” questo lavoro sarebbe molto pericoloso.
Leggerò di questo Bhudda! Sono incuriosita! Nella mia teoria esistono due “guru”: il paziente e il terapeuta, che lavorano insieme ciascuno con le proprie risorse e competenze.
Buongiorno
sono stata in terapia due anni, non sono “guarita” ma ho avuto un ottimo valido aiuto; se non fosse per i costi e perché è un grosso impegno anche logistico non avrei interrotto.
Da “pellegrina” voglio renderla partecipe di una mia impressione. Vero che, a volte, mi chiedevo senza curiosità se i gioielli che indossava fossero regali o meno; se pensasse lei alle pulizie dello studio; alle spese; a volte mi chiedevo come avessi reagito se l’avessi incontrata in qualche negozio, al cinema o che altro, anzi questo lo temevo perché non sapevo che comportamento fosse più opportuno (buongiorno come sta?)?
Ciò che mi ha sconvolto, per esempio, è stato assistere casualmente ad un alterco che lei ha avuto con un altro automobilista che le impediva l’entrata al garage: urlava come una pazza! Non è una critica, ma è stato come se fosse una sconosciuta. A lei ovviamente non l’ho mai riferito.
Grazie per l’ospitalità e buona giornata
Carla Ruggeri
Salve Carla, benvenuta. Credo sia assolutamente naturale avere delle curiosità rispetto al proprio terapeuta. E, come ha potuto che constatare, è vero che anche noi abbiamo delle emozioni che non sempre sono manifestate con il controllo e la calma che i pazienti vedono durante la terapia! È la prova che siamo umani:) Grazie per la sua testimonianza.
A presto,
Fabrizio
Ciao Fabrizio, concordo pienamente sul fatto che agli inizi di questo meraviglioso lavoro (almeno per me)siamo particolarmente influenzati dalle regole che la formazione specialistica ci ha impartito. Anche io, con il passare del tempo e con l’aumentare dell’esperienza cinica ho potuto constatare le evoluzioni del mio stile psicoterapico. Mi sono fatta l’idea che tutti i miei cambiamenti siano una commistione di eventi personali, insegnamenti ricevuti dai miei pazienti, aggiornamenti professionali e soprattutto psicoterapia personale e supervisioni periodiche. Ricordo con tenerezza una “Me” che svolgeva la pratica clinica per 4anni in una struttura pubblica a carattere psichiatrico: le persone che avevo davanti, al 99%, erano molto “critiche” nella gestione di quei confini di cui parli. Volevano sapere quanti anni avevo, dove abitavo, come avrei passato le vacanze di Pasqua o Natale, se avevo un fidanzato o dei figli o se dopo quella seduta ci sarebbe stata un’altra persona.
Qualcuno potrebbe pensare che quelle sono curiosità; non erano curiosità. Ho imparato bene, in quel periodo della mia professione, che lì esistevano dei meccanismi di difesa che inconsapevolmente (da parte dei pazienti)cercavano di giocare la relazione terapeutica.
Sentir parlare di sé il terapeuta, per alcuni tipi di pazienti e mi riferisco a semplici riferimenti e non al racconto della vita del terapeuta, ha un valore terapeutico. Consente al paziente di interrompere, attraverso il confronto, il potere attribuito all’idealizzazione. Ovviamente tale pratica non è applicabile in tutte le relazioni terapeuta -paziente, secondo me.
Secondo i miei sentimenti, ciò che è impalpabile ai più, è proprio cosa fa questo benedetto psicoterapeuta per aiutare e far star meglio e/o bene i pazienti. Usiamo noi stessi! Forse non siamo una cassa di risonanza, attraverso l’empatia, di ciò che prova il paziente?
Riuscire a sentire, accogliere dentro di me e restituire, a chi chiede aiuto, ciò che esprime, è il lavoro più importante che opero. Sono consapevole che senza alcuna “revisione periodica alla mia automobile psichica” questo lavoro sarebbe molto pericoloso.
Leggerò di questo Bhudda! Sono incuriosita! Nella mia teoria esistono due “guru”: il paziente e il terapeuta, che lavorano insieme ciascuno con le proprie risorse e competenze.