Come parlare della morte ai bambini (2)

come parlare della morte ai bambini 2La domanda, allora, sorge spontanea: chi proteggono i genitori con la scelta del silenzio? Abbiamo paura di parlare al bambino dei nostri sentimenti, abbiamo timore di mostrare la nostra fragilità. E soprattutto siamo impreparati a discutere – usando termini che i bambini possono comprendere – e a rispondere alla miriade di domande che hanno da porci.

Sono gli adulti i primi in difficoltà nell’esporre le loro emozioni. I genitori si sentono impreparati a discutere e a confrontarsi su tematiche così vaste. Sono gli adulti a sentirsi in difficoltà nell’immaginare quale tipo di termini possano meglio essere utili per condividere con il bambino l’esperienza della morte. Sono gli adulti che si sentono inadeguati ad avere una conversazione con un bambino su un tema così ostico. Sono gli adulti che sentono la difficoltà di fronteggiare i figli con le loro domande, i dubbi, le paure, le speranze. Quello che gli adulti non si dicono è, in realtà, abbastanza semplice: la morte mette in crisi ognuno di noi. Ci obbliga a riflettere sulla nostra vita e sul suo senso, sul nostro destino, sulle nostre scelte. È questo il confronto che cerchiamo di evitare. Quello con noi stessi, con i nostri dubbi, le nostre paure, le nostre speranze. Quella serie di domande che un bambino, prima di imparare che di certe cose è sempre meglio non parlare, fa ai propri genitori con il desiderio di condividere queste emozioni

Come si può interrompere questa catena di silenzi? Una delle possibilità è quella di accogliere senza giudicare le manifestazioni del dolore: la rabbia, lo scoramento, la delusione, il pianto:

Piangere è uno sfogo utile. Spesso ciò che aiuta davvero è piangere con qualcuno per ricevere appoggio e contenimento affettivo. La condivisione affettuosa di un pianto intenso e non trattenuto è una premessa fondamentale. Essa veicola implicitamente un messaggio strutturante, che dovrà successivamente ed utilmente essere esplicitato: ‘Capisco la tua sofferenza, la trovo legittima, la tua sofferenza e anche la mia, insieme possiamo sostenerla. Il fatto che ci vogliamo bene è anche la risorsa con cui possiamo affrontare le paure, le ansie e le separazioni!’

Questo è un punto particolarmente importante. Il pianto potrebbe essere un momento di condivisione, un momento che accomuna le emozioni del bambino e del genitore, un momento nel quale ognuno può sentire accolto l’altro, ognuno coi propri mezzi. Accogliere e non giudicare o distrarre: frasi come ‘smetti di piangere’, ‘tanto piangere non serve a nulla’, ‘pensa ad altro’, torna a giocare’, ‘non ora’, sono frasi dette talvolta senza prestare troppa attenzione e che, invece di aiutare, possono far sentire soli e isolati. Non accolti appunto. E lascia la manifestazione del dolore incompiuta, incompleta e carente.

Tutti i genitori che mi chiedono cosa fare nel caso la morte entri nell’esperienza di vita di un bambino vengono invitati sul terreno della introspezione e della condivisione, convinto come sono che la cosa più utile sia parlare e con-dividere quello che si sta provando. Magari partendo da se stessi, da quello che si prova e da come ci si sente. Indubbiamente temo sia la scelta più ‘difficile’, più ardua da fare perché opposta a tutto quello che ci hanno insegnato, ma credo anche la più responsabile dal momento che permette di dare un senso, di significare un evento nella storia di vita del bimbo che, altrimenti, rimarrebbe inespresso e sospeso.

Per quanto dolorosa sia la perdita, i bambini non hanno bisogno di distrarsi, non hanno bisogno di pensare ad altro, non hanno bisogno di adulti per i quali quello ‘non è il momento adatto’. I bambini hanno un profondo bisogno di verità, hanno un profondo bisogno di adulti che si assumano la responsabilità di raccontare e condividere con loro questa verità, per quanto dolorosa sia anche per gli adulti

Parlare della morte ai bambini vuoi dire a prepararli a capire la realtà, aiutarli a crescere. Quando muore un nonno, una zia, un genitore, è indispensabile che la verità non venga taciuta o mascherata ai bambini. I bambini sono desiderosi di verità. Se al bambino non è permesso confrontarsi su questo tema cerca di comprenderlo da solo e a volte si crea delle fantasie assurde, il che è molto peggio dell’affrontare la dura realtà della morte. [1]

Verità, non bugie. Avete presente o vi è mai capitato (da genitori o da bambini) che alla morte di una animale domestico lo abbiate (o vi abbiano) semplicemente sostituito l’animale morto con un altro? L’intento è sempre lo stesso: cercare di non (far) vivere l’esperienza dolorosa della morte. Questa apparentemente innocua bugia è la rappresentazione di come affrontiamo la morte: sostituendo l’oggetto amato per non far soffrire. Se l’intento è comprensibile, non altrettanto comprensibili sono le conseguenze di questo gesto: insegniamo (o impariamo) che di alcune cose non si parla, che sono brutte, che sono da dimenticare. Vi invito a fare il contrario: fare una profonda dichiarazione di verità può essere doloroso, ma insegna una grande lezione: non c’è nulla che provo del quale mi debba sentire colpevole di parlare

Come sempre chi volesse/potesse condividere la sua esperienza può farlo contattandomi per mail (fabrizioboninu@gmail.com) oppure per telefono (3920008369). 

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

[1] Bolognini, N. (2010), Come parlare della morte ai bambiniSie Editore, Pinerolo, pp. 16-17

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Come parlare della morte ai bambini (1)

come parlare ai bambini della morteParlare di morte è difficile. All’interno della società che ha fatto dell’eterna giovinezza l’ideale più alto, anche solo nominare la sua nemesi mette in difficoltà. Quando ci troviamo ad affrontare l’argomento, stentiamo a trovare le parole adatte, oscillando tra frasi di circostanza e tentativi di rimozione. E sembra ancora più complicato parlare di un tema così complesso con bambini o con adolescenti. Come possiamo parlare di una cosa così dolorosa, così ineluttabile con persone che stanno appena iniziando a vivere la loro vita?

Eppure, per quanto non ci piaccia, è un’esperienza che entra a far parte della vita, spesso fin dalle prime battute. In terapia assisto a situazioni di questo tipo: genitori, peraltro molto premurosi e attenti alle esigenze dei loro figli, si trovano completamente in difficoltà e spiazzati riguardo al come affrontare un argomento così spinoso coi propri figli. La difficoltà è proporzionale al grado di vicinanza (parentale o emotiva) con la persona deceduta. ‘Non volevo farlo star male parlandogliene‘, mi ripetono spesso. Come se la persona cara potesse semplicemente svanire dalla vita o dai ricordi del bambino senza lasciare traccia. Naturalmente questo non è possibile e serve, allora, trovare un modo per condividere quello che avviene. Per farlo utilizzerò alcuni passi di un libro: trovate tutti i riferimenti bibliografici in fondo al post.

Partiamo da una prima considerazione: Gli adulti creano una rischiosa congiura del silenzio intorno al tema della morte. A volte si rimane in silenzio perché si è convinti che la psiche infantile non sia in grado di confrontarsi senza danni con un’esperienza di lutto. I bambini e gli adolescenti si trovano spesso nell’impossibilità di affrontare ed esprimere il lutto, perché non trovano negli adulti che li circondano e anche nella società stessa, un supporto educativo, psicologico ed emotivo adeguato alla perdita.

Questo punto è molto importante: gli adulti costruiscono una sorta di muro di silenzio intorno ai propri figli per non farli confrontare e per proteggerli da un tema doloroso. L’intento potrebbe essere lodevole, ma ogni muro ha una doppia valenza: se da un lato protegge, dall’altro isola. In questo caso, può proteggere da un dolore manifesto (ci sarebbe da chiedere chi protegga questo silenzio ma ci torneremo più avanti!) d’altro canto, però, isola profondamente il bambino che si trova a comprendere di dover gestire autonomamente i propri dubbi, i propri timori perché gli adulti intorno a lui non sembrano intenzionati a condividere con lui questo. Gli adulti utilizzano spesso questo meccanismo coi piccoli (non ne parlo=non esiste) ritenendo il silenzio una grande risorsa protettiva per i figli. In realtà spesso il silenzio genera mostri. Nel silenzio, nella mancanza di confronto, nell’impossibilità di condivisione, proliferano le paure che non possono essere espresse, e crescono dubbi che difficilmente vengono condivisi ma così imparano (e così riproporranno a loro volta da grandi), che di certe cose non si parla ed è meglio che ognuno le gestisca da solo

Andiamo avanti: Sovente i bambini rimangono esclusi dalle comunicazioni e dai rituali che accompagnano la morte di una persona amata. Tale esclusione riflette la grande difficoltà degli adulti nell’affrontare e nel condividere i sentimenti e le emozioni che seguono la perdita di una persona cara. Erroneamente pensiamo che i bambini debbano essere protetti dal tema della morte perché riteniamo che non possiedano gli strumenti psichici, intellettivi ed emotivi per poterlo sostenere. Crediamo che il dialogo con i nostri bambini arrechi loro un dolore insopportabile. Ma questo dialogo fa più male agli adulti, feriti ed impreparati ad affrontare un simile argomento, che non ai bambini desiderosi di verità e di condivisione. [1] 

I rituali funebri, qualsiasi essi siano e comunque vengano celebrati, hanno come scopo quello di sancire una chiusura, scrivere un nuovo capitolo relazionale tra la persona defunta e le persone legate a lui/lei. Anche per gli adulti ha un’alta valenza simbolica, perché permette ad un’esperienza così misteriosa e dolorosa di avere un senso, di essere ricompresa nella vita stessa delle persone che rimangono. Eppure capita che i genitori mi dicano di non aver fatto assistere i figli al funerale della persona amata. Pur comprendendo la difficoltà, temo che questa strategia ottenga in realtà risultati opposti a quelli sperati. Se l’intento, infatti, è quello di proteggere i propri figli, va presa anche in considerazione l’impossibilità, in caso di non partecipazione al rituale che viene celebrato, di salutare la persona amata. Non far partecipare i bambini a questo rito, non permette loro di chiudere l’esperienza di vita con quella persona. È come se l’evento rimanesse sospeso, non definito, aperto. Il bambino, che magari ha già sentito difficoltà a trovare persone con le quali condividere il dolore per la scomparsa della persona, si ritrova anche nell’impossibilità materiale di potergli dire addio e di poter, così, chiudere simbolicamente il percorso di vita con la persona deceduta

– Continua –

[1] Bolognini, N. (2010), Come parlare della morte ai bambiniSie Editore, Pinerolo, pp. 16-17

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PEDOFILIA: intervista a Massimiliano Frassi

abuso

Il tema che affrontiamo in questo post è un tema duro, complesso e disturbante. Parliamo di pedofilia e lo facciamo con una persona che se ne occupa da parecchi anni e in diversi contesti. Una di quelle persone preziose che, anziché ritrarsi inorridito da questo baratro, ha deciso di guardarci dentro e a fondo, cercando di illuminarne gli anfratti, di chiedere e chiedersi il perché, di portare alla luce tutti gli elementi che avvicinano questo baratro a noi e alle nostre storie. Una persona che ha cercato di svegliare le coscienze intorpidite dalla paura e dall’orrore, coscienze che spesso si voltano, con le pericolose conseguenze che ne discendono, pur di non vedere una realtà spaventosa. Sto parlando di Massimiliano Frassi, autore di diversi bestseller sul tema della pedofilia, organizzatore con l’associazione Prometeo del coordinamento nazionale delle vittime di abuso. Ci racconterà meglio lui la sua storia e il suo percorso. Per quanto riguarda la mia storia, mi sto occupando sempre più spesso di questo tema, inserito all’interno della distorsione adultocentrica della nostra società e, in questo mio percorso di conoscenza e approfondimento, ho avuto la fortuna di incontrare Massimiliano ad un convegno organizzato dalla fondazione Domus de Luna (clicca sul nome per visualizzare la pagina della fondazione) a Cagliari.

Scomodo, emozionante, pungente, disturbante, sconvolgente, sono solo alcuni degli aggettivi che mi vengono in mente per descrivere il convegno. E, forse, adatti per descrivere Massimiliano stesso. 

Parlare di materie così complesse mette in difficoltà, costringe a confrontarci con una realtà impossibile solo da immaginare. Una realtà che, invece, esiste e che, su questa nostra difficoltà, prospera e cresce. Una realtà misconosciuta, dove giocano anche stereotipi e pregiudizi che, con l’aiuto di Massimiliano, cercheremo di vagliare. 

Ciao Massimiliano, benvenuto e grazie per aver accettato l’invito e parlare con me di un tema che ti/ci sta tanto a cuore. Dopo la mia breve presentazione, vogliamo darne una più approfondita per chi non conoscesse il tuo lavoro: chi sei e di cosa ti occupi?

Sono il responsabile di Prometeo Onlus, una associazione, da me fondata circa 20 anni fa e tra le più attive, in Italia, nel campo della lotta alla pedofilia. Da una parte siamo operativi e diamo assistenza e tutela alle vittime, molte delle quali adulte che solo oggi trovano la forza e la possibilità di parlare e chiedere aiuto e dall’altra parte facciamo formazione e sensibilizzazione affinché l’omertà che protegge chi abusa sia definitivamente annientata.

La prima curiosità è: come sei arrivato ad occuparti di un tema così forte come la pedofilia?

Non per aver subito abusi io stesso, semmai per poter dare agli altri la stessa infanzia che ho avuto io. Professionalmente parlando è stata parte di un percorso, partito con una scelta di vita che mi ha portato ad operare prima come operatore di strada, che si occupava di emarginazione grave e poi di minori, specializzandomi e fondando la Prometeo.

Che realtà è la pedofilia oggi?

La realtà di sempre. Che vede un abusante e buona parte della società, abilmente impegnati a zittire un bambino. Per potergli nuocere.

All’interno del tuo intervento, mi ha colpito come tu sia riuscito a mettere in discussione alcuni stereotipi ben radicati. Il primo è che, nell’immaginario collettivo, la pedofilia sia un fenomeno prettamente maschile. É proprio così?

Purtroppo da alcuni anni a questa parte assistiamo ad un fiorire di una pedofilia al femminile. Numericamente minoritaria, con percentuali molto basse, ma pesanti “qualitativamente”. Perché quando è la mamma ad abusare, ad es., è chiaro che le ferite saranno ancora più profonde.

Altro stereotipo: gli abusanti sono spesso stati abusati a loro volta. Possiamo confermarlo?

Sì, ma non lo dico io, anche se 20 anni di esperienza mi danno il potere di poterlo gridare forte. Lo dicono tutti i trattati scientifici che hanno davvero studiato questa assurda equazione. Creata dai pedofili per, in qualche modo, difendersi, tutelarsi e nuovamente infangare le vittime. Poi può capitare che su un numero elevatissimo di vittime ci sia chi diventa pedofilo, ma se c’è è davvero un numero bassissimo che non rende tale equazione reale. Chi lo sostiene dimostra di non aver mai lavorato nel campo dell’abuso ma ancora prima, dimostra di non aver rispetto delle vere vittime.

Sapessi quante donne seguo che hanno paura di rimanere incinta perché “magari poi diventano pedofile e fanno provare al proprio figlio quanto hanno provato loro” e questa mala educazione, gliel’ha inculcata chi doveva guarirle. Non renderle vittime a vita.

Ancora: il pedofilo è un mostro, una sorta di orco facilmente identificabile. Cosa c’è di vero?

Nulla. È ovviamente mostruoso l’atto che compie. Ma se cerchiamo l’orco, così come pensiamo lo sia, non lo vedremo mai nel bravo vicino di casa, nello zio affettuoso, nel maestro severo ma presente, nel parroco pacioccone.

Ho letto il tuo lavoro ‘Il libro nero della pedofilia‘ e le cifre sono spaventose. Credi sia un fenomeno in aumento o stia semplicemente affiorando sempre più in superficie?

Forse entrambe le cose.

Oggi se ne parla poco ma sicuramente molto più di quando iniziammo anche solo 20 anni fa. Poi c’è internet, con il suo lato oscuro e la possibilità di avere accesso a materiale che farebbe uscire di testa qualsiasi essere umano, ma che a loro dà piacere. Ed a lungo andare si stuferanno della “sola” foto e passeranno al contatto diretto. Poi ancora oggi c’è la possibilità di fare viaggi dall’altro capo del mondo, con spese irrisorie rispetto ad una volta e comunque alla portata di tutti, che favoriscono i turisti sessuali, cacciatori di bambine e bambini coetanei dei figli che lasciano a casa.

Sono tutte varianti che portano allo stesso punto: il progresso di questa civiltà ha paradossalmente portato ad una regressione di parte della stessa. In parole spicce, se da una parte siamo andati sulla Luna, dall’altra siamo tornati a Jurassic Park.

In questo giocano un ruolo enorme le nuove tecnologie: social network, smartphone rendono la pedofilia più ‘facile’ e ‘fruibile’? 

Sì, purtroppo sì. Molto banalmente: pensiamo a cosa voleva dire per un pedofilo dover far sviluppare un rullino con delle immagini di abusi da lui prodotte. E pensiamo oggi con il più piccolo smartphone cosa non si può fare.

Quali sono le aree geografiche più interessate al fenomeno?

È un fenomeno trasversale. Che tocca tutte le sfere della società. Non certo solo le aree più povere. Poi di sicuro se dobbiamo fare una analisi “geografica”, posso dire che ci sono aree dove il retaggio culturale ancora favorisce il silenzio. L’omertà. Ma questo vale nel paesino del bresciano, come in quello del cagliaritano.

La pedofilia è una realtà percepita come distante dalla nostra vita quotidiana. Queste sono cose che succedono agli altri, lontani da noi. Noi, e i nostri figli, siamo ‘al sicuro’. E funziona fino a quando un caso cruento di cronaca nera scuote le coscienze. Penso al caso di Yara Gambirasio. O del piccolo Tommaso Onofri. Come possiamo stare attenti a quello che succede intorno a noi?

Questo non è un paese per bambini. Lo grido, disperatamente, da tempo. Basandomi su fatti concreti. Avrei preferito che i fatti mi smentissero. Che i pazzi fossimo noi. Ma purtroppo così non è stato. E la piccola Yara o il nostro angioletto Tommaso, sono solo la punta dell’iceberg. Bimbi strappati dal loro mondo. E sottratti al nostro futuro. Sarebbero diventati dei grandi adulti, in grado di fare grandi cose. Ma qualcuno ha scelto che così non fosse e l’ha deciso con la violenza.

Pensare a loro come fossero figli nostri, forse la risposta sta proprio lì….loro ovviamente in rappresentanza di Salvo, Roberto, Susanna, Lucia, Silvia, Carolina, Alex, Giovanni, Massimo, Rosaria, Andrea, e via dicendo per un elenco di bambini numericamente elevatissimo. Bimbi non finiti per fortuna sul tavolo di un obitorio, ma morti dentro. Fino a quando non troveranno chi riaccenderà in loro la speranza e la voglia di vivere.

C’è, tra i diversi casi che ha seguito personalmente, un caso che ti ha coinvolto più degli altri?

No. Ognuno ha la sua importanza. Ognuno il suo dolore. Poi sì, di sicuro c’è quello che ti resta più dentro, per vari motivi, ma ripeto sono tutti uguali e tutti meritano lo stesso posto e lo stesso rispetto.

La pedofilia spaventa e atterrisce perché è un fenomeno di proporzioni enormi. Nel nostro quotidiano, cosa possiamo fare noi?

Informarci. Ed indignarci. Non chiediamo molto, non credi? Peraltro lo facciamo per mille cose futili. Farlo per qualcosa di serio, non sarebbe male. E sarebbe ora!

C’è qualcosa che non ti ho chiesto che mi vorresti dire? 

Sì, se c’è vita, un futuro dopo l’abuso. E la risposta è: “certo che c’è. Si può e si deve tornare a vivere. E quando accade, ed accade sempre, è meraviglioso!”.

Parola di Massimiliano Frassi.

Ringrazio di cuore Massimiliano per essersi prestato alle mie domande. Il tema è vasto e mi riprometto di tornarci. Chi fosse interessato può visitare il blog di Massimiliano: potete cliccare sul link L’INFERNO DEGLI ANGELI e verrete reindirizzati al sito. Consiglio vivamente anche la lettura dei suoi testi (trovate tutta la bibliografia sul sito L’inferno degli angeli), tra tutti il già citato Il libro nero della pedofilia con prefazione di Alessia Sinatra ed edito da La Zisa. 

Come sempre chi volesse/potesse condividere la sua esperienza può farlo contattandomi per mail (fabrizioboninu@gmail.com) oppure per telefono (3920008369). 

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

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Bullismo omofobico: risponde il dr. Jimmy Ciliberto

bullismoIl post di oggi ha come tema un fenomeno che ha radici profonde ma che, complici alcuni fatti di cronaca con risvolti particolarmente tragici, è diventato argomento dibattuto nelle cronache nazionali. Sto parlando del bullismo omofobico e questa attenzione testimonia una maggiore sensibilità dell’opinione pubblica su temi legati alla violenza omofoba, argomento, questo, che possiamo considerare strettamente legato al dibattito più ampio che interessa la possibile approvazione in parlamento di una legge che regoli le unioni civili. Ma torniamo a noi: cosa si intende con il termine bullismo omofobico? Sostanzialmente consiste in atteggiamenti o comportamenti violenti tramite i quali una persona viene presa di mira da un coetaneo (o da un gruppo organizzato di suoi coetanei) in una relazione all’interno della quale il rapporto di potere non è paritario. La persona prescelta viene oppressa con vari atteggiamenti (derisione, minacce, insulti, esclusione…) ed il pretesto per l’attacco è dato, appunto, dalle scelte sessuali o dall’orientamento sessuale (reale o presunto) della vittima.

Per parlare di questo importante tema ho pensato di rivolgermi ad una persona che, per professione, è un conoscitore della materia. Mi riferisco a Jimmy Ciliberto, psicologo, psicoterapeuta, autore, insieme ai colleghi Paolo Rigliano e Federico Ferrari del testo Curare i gay?, edito da Cortina. Jimmy da tempo dedica la sua attenzione a tematiche legate all’orientamento sessuale e all’identità di genere. Chi volesse ulteriore dettagli sul libro può cliccare qui mentre chi volesse saperne di più sul dr. Ciliberto può cliccare qui.

Ciao Jimmy, innanzitutto grazie per aver accettato l’invito e benvenuto! Direi di partire dalla definizione di bullismo omofobico: come potremo descriverlo?

Ciao Fabrizio e grazie a te per il tema che hai deciso di trattare.

Possiamo definire generalmente bullismo omofobico quell’insieme di comportamenti apertamente squalificanti e discriminatori assunti da una o più persone nei confronti di un ragazzo o di una ragazza omosessuale (o solo considerati tali), proprio a causa del loro presunto o reale orientamento non eterosessuale. Questa è però una definizione molto generale, per quanto utile a capire di cosa stiamo parlando. Penso che il fenomeno sia molto più complesso, e come tale vada trattato, altrimenti si rischia di considerarlo come una nuova etichetta diagnostica che riguarda solo la persona che mette in atto il comportamento vessatorio.

Io preferisco parlare di contesti eterosessisti che favoriscono, a diverso grado, un insieme di dinamiche che hanno l’effetto di far sentire la persona non eterosessuale (o presumibilmente tale) sola, impotente, isolata, colpevole, proprio per le caratteristiche che la rendono unica.

Penso inoltre che le dinamiche discriminatorie non siano elicitate tanto dall’orientamento non eterosessuale in sé, quanto da tutti gli aspetti che rimandano ad una idea di maschio e femmina che sfida la dicotomia esistente.

In base alla tua esperienza, è una realtà diffusa oppure un fenomeno di nicchia?

Purtroppo constato ancora che negli ultimi anni della scuola primaria e nella scuola secondaria di primo grado, quelli durante i quali nascono le situazioni di bullismo omofobico, la situazione è stagnante. Le parole che rimandano alla non eterosessualità di una persona vengono usate come presa in giro e insulto, pochissimi insegnanti si sentono competenti e a proprio agio nel parlare di queste tematiche, e l’idea che un proprio alunno o una propria alunna possano essere omosessuali continua a rimanere, nella maggior parte delle situazioni, una “non idea”.

Diversa è la situazione nella scuole secondarie di secondo grado, dove emergono differenze significative tra Istituti e Istituti. Affianco a contesti non dissimili a quelli di cui sopra, esistono realtà (principalmente nei grandi centri urbani) che accolgono la diversità, sia tra pari che con gli adulti.

Cosa provocano questi attacchi alla persona colpita?

Come ho detto prima, questi comportamenti hanno l’effetto di far sentire la persona non eterosessuale (o presumibilmente tale) sola, impotente, isolata, colpevole, proprio per le caratteristiche che la rendono unica. Se la persona vive poi in un contesto che sente come non sufficientemente supportivo, od addirittura collusivo con quello che a scuola lo discrimina, possono esserci conseguenze più complesse che possono andare dallo sviluppo di una sintomatologia ansioso-depressiva, all’assunzione di comportamenti a rischio, od anche (raramente per fortuna) all’ideazione suicidaria.

E quali sono le reazioni più comuni a questo tipo di discriminazioni?

Parlare di reazioni comuni è molto difficile, possiamo però affermare che sono ancora troppe le situazioni in cui c’è collusione, soprattutto tra i pari, o sottovalutazione della portata del problema da parte degli adulti.

La maggior parte di questi episodi avviene durante la preadolescenza e l’adolescenza, età nelle quali i ragazzi sono per molto tempo a scuola. Prendiamo in considerazione come si comportano gli altri attori di questa istituzione: gli insegnanti come affrontano questi episodi?

Purtroppo non ci sono risposte omogenee: a fronte di docenti che affrontano la situazione in maniera complessa, promuovendo discussioni con i ragazzi, parlando con le famiglie, attivando anche risorse extra qualora necessario (progetti educativi, supporti psicologici etc), troviamo anche insegnanti che si limitano ad intervenire in maniera punitiva, oppure altri ancora che non intervengono perché sentono di non avere gli strumenti o perché pensano che non rientri tra le loro mansioni.

Mentre le scuole come istituti che fanno?

Ritroviamo la stessa eterogeneità di cui sopra. Alcune scuole non prendono minimamente in considerazione la questione, altre organizzano momenti di riflessione a prescindere dalla presenza o meno di comportamenti discriminatori.

All’interno della famiglia, come pensi dovrebbero comportarsi i genitori dei ragazzi presi di mira? 

Rassicurare i figli che il loro amore prescinde dall’orientamento sessuale e dall’identità di genere, mettersi in posizione d’ascolto e chiedere ai figli stessi cosa possano fare per aiutarli. È fondamentale che i ragazzi e le ragazze sentano di valere, soprattutto per la propria famiglia d’origine.

Mentre le famiglie dei bulli a cosa dovrebbero prestare attenzione?

Non mi piace pensare alle famiglie dei bulli, ma alle famiglie in generale, che a loro volta sono parte di comunità locali via via più ampie. Dobbiamo fare lo sforzo di uscire di modalità di azione basata sulla risposta alle urgenze, in maniera parcellizzata, ed iniziare ad abbracciare una modalità di pensiero e azione più sistemica e dialogica.

Hai dei suggerimenti da dare agli attori coinvolti in queste vicende per affrontare episodi di questo tipo?

Come dicevo prima, ascoltare questi ragazzi, vederli, restituire in maniera forte il fatto che loro valgono per la loro straordinaria unicità.

Alle famiglie e alle scuole, invece, il mio invito è quello di rendere chiaro, nelle loro comunicazioni e nelle loro azioni, che una persona vale ed è unica a prescindere dal proprio orientamento sessuale .. un modo semplice, ma potente è quello di usare una comunicazione che non dia per scontato l’eterosessualità di una persona, mai …

Come possiamo collaborare per far si che episodi come questi diventino sempre più ostracizzati?

Penso che le azioni da compiere debbano essere più che altro nella direzione di renderli sempre meno sensati ed attraenti. Come dicevo sopra, penso sia fondamentale lavorare con gli insegnanti, di ogni ordine e grado, e con coloro che formano gli insegnanti, nei contesti universitari e post universitari, affinché interiorizzino sempre più profondamente un cambio di premesse, tale da consentire una comunicazione, nell’accezione più ampia del termine, che veicoli il messaggio che anche le persone non eterosessuali sono presenti nelle loro teste, indipendentemente dal fatto che ci sia una persona esplicitamente glb.

 

Ringrazio di cuore Jimmy Ciliberto per la disponibilità nell’essersi prestato alle mie domande. Il tema naturalmente è vasto e ci torneremo ancora con altri interventi. Credo sia un ulteriore, importante passo per introdurre questo argomento in un dibattito che coinvolga più spazi possibili.

Se ci fossero persone interessate a testimoniare o a condividere la loro esperienza, naturalmente in forma assolutamente anonima (a meno che non desiderino il contrario!), possono contattarmi telefonicamente (3920008369) o per mail (fabrizioboninu@gmail.com).

Come sempre fatemi sapere che ne pensate.

A presto…

Fabrizio Boninu

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Educhiamoci ad educare

educazioneCi siamo occupati altre volte di cosa voglia dire educare: educare, secondo la definizione comune, è dato da quella serie di attività che servono e sono finalizzate a favorire lo sviluppo di una persona. Questa definizione è molto generica, dal momento che mette l’accento sulle attività consapevoli che vengono svolte per educare un individuo, ma non tiene conto della molteplicità di attività che sono educative senza che l’educatore ne sia consapevole. Il modo in cui mi comporto è educativo, perché funge da esempio, da paradigma al quale l’altro può rifarsi prendendolo a modello, ed è un modello educativo espresso spesso senza che, appunto, se ne sia consapevoli.

Nell’immagine comune del termine poi, è sempre l’adulto che educa il minore. Quasi mai viene preso in considerazione come un minore possa educare un adulto e anzi sembra una sorta di controsenso considerare che un minore possa farlo. Diversi altri aspetti dovrebbero essere presi in considerazione in una riflessione su cosa significhi educare: uno dei più rilevanti riguarda il fatto che nella relazione educativa è implicita una condizione di disparità tra chi educa (e sa) e chi deve essere educato (e non sa). L’educatore, soprattutto se il suo ruolo è riconosciuto e accettato a livello sociale, ha più potere di chi viene educato, e spesso si serve di questo potere nell’atto stesso di educare. Interessanti, a mio avviso, i passaggi che vi riporto:

Prima riflessione: chi educa rischia perché nella relazione educativa mette a confronto due soggetti, che non hanno una posizione paritaria: ce n’è uno più forte ed uno più debole e c’è sempre il rischio che il soggetto che ha più esperienza, più competenza, più capacità di parola sia tentato di usare questo potere non per far crescere il soggetto più inesperto e più facile, ma per approfittarne. È un rischio che si ritrova nella relazione educativa, nella relazione parentale, nella stessa relazione terapeutica: in queste situazioni si struttura un piano inclinato, dove il rischio è la distorsione strumentale della relazione a fini di potere da parte del soggetto più forte. Chi educa rischia, perché c’è sempre la tentazione da parte del genitore, dell’educatore, il terapeuta stesso di utilizzare la relazione interpersonale Per sostenere le proprie difese e imporre in qualche modo i propri bisogni.

Credo sia necessario prestare particolare attenzione a questo potere ed esserne consapevoli dal momento che, se non riconosciuto, può portare, nella relazione educativa, verso l’imposizione piuttosto che verso la proposizione di un modello. Anche nella relazione terapeutica questo rischio è particolarmente forte e rischia di far deragliare la relazione stessa nel momento in cui il terapeuta invece di sollecitare l’autonomia e le risorse del paziente, si sostituisce a lui con suggerimenti e consigli, perché ‘sa che cosa sia giusto fare’.

Seconda riflessione: chi educa rischia e chi non rischia non educa. Il rischio inevitabile, necessario che non si può eludere nella relazione educativa è quello di avvicinarsi alle emozioni. Non educa chi non vuole rischiare di mettere in discussione la propria immagine narcisistica di soggetto razionale, sempre è comunque capace di controllare le emozioni e le situazioni. Non educa che non scende dal piedistallo della propria competenza educativa auto rassicurante, raggiunta presunta mente una volta per tutte. Non educa chi evita di avvicinarsi al mondo fluido, sofferto, conflittuale delle emozioni. Non educa chi non è disponibile a sviluppare l’intelligenza emotiva, l’intelligenza del cuore.[1]

Questo secondo punto è facilmente fraintendibile. Se è vero che chi educa rischia e chi non rischia non educa, nel senso che chi educa deve mettere in gioco se stesso, è altrettanto vero che spesso chi educa cerca di non rischiare per niente perché si difende, dall’alto della sua posizione privilegiata di potere, dal mettersi in gioco, dal condividere, dal rendere la relazione più paritaria e non basata sostanzialmente sul gioco di potere nascosto per cui tu fai ciò che dico io perché io so che cosa sia giusto per te. Se questo non avviene è lecito ricorrere a qualunque strumento per ottenere i risultati voluti. L’incognita è che ciò sfoci nell’autoritarismo, rischio al quale ci si può opporre coltivando l’autorevolezza. Diverso è infatti essere autoritari, fare leva sulla forza o sul proprio potere per imporre la propria volontà, tutt’altra cosa è essere autorevoli, avere cioè un’autorità educativa riconosciuta per le proprie capacità e non per la propria forza. Nel primo caso è necessario fare qualcosa (farsi obbedire, sgridare, punire…) nel secondo, ben più difficile, è necessario essere (essere coerenti, credibili, contenitivi…).

La differenza come sempre la costruiamo noi. Sono sempre più convinto che educare sia fornire un esempio, coerente e centrato a partire da quello che siamo. Questo non vuol dire non dover porre delle regole o non farle rispettare. Significa non ritenersi  dei dispensatori di regole ma cercare di partecipare attivamente alla costruzione della relazione con l’altro.

E, soprattutto, iniziare a non ritenere che il processo educativo sia a senso unico.

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

 

[1] Foti C., La mente abbraccia il cuore, Edizioni GruppoAbele, Torino, 2012, pag. 74.

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Come aiutare i bambini ad amare la lettura? (2)

bambini e libri6) Non trasformatela in una gara a chi legge di più: rinforzate positivamente i risultati ottenuti, non rimarcate che, a fronte del libro portato a termine, ce ne siano altri dieci che aspettano da anni di essere aperti. Ancora, se avete un figlio che legge molto e un figlio che considera i libri alla stregua di polverosi soprammobili, non cercate di spronare il secondo creando inutili gare e continui paragoni tra loro: questo tipo di strategie, anziché avvicinare, allontanano ancora di più dalla lettura. Abbiamo già visto che leggere non dovrebbe essere un compito: ancor meno dovrebbe diventare una gara;

7) Considerate le alternative dei mezzi attuali: siamo d’accordo: un libro in carta ha, ancora di più nell’età del digitale, un fascino immenso. Questo fascino non fa degli altri mezzi (ebook, audiolibri) dei ripieghi di secondo ordine. Il punto è che diano una chance alla lettura, che si incuriosiscano delle storie raccontate. Se dovessero sceglier di farlo ricorrendo all’uso di mezzi che quando eravamo piccoli neanche immaginavamo, non consideratelo un ripiego e non cercate di sminuirlo. Il mezzo non fa il lettore. Lasciate che siano poi loro, entrati nel mondo della lettura, ad incuriosirsi a tutti gli altri mezzi coi quali una storia può essere narrata; 

8) I fumetti: se siete riusciti a non condannare i vari reader digitali o gli audiolibri, cercate di applicare la stessa comprensione anche al mondo dei fumetti. Leggerli non è peccato, non traviano la mente di nessuno, semplicemente associano l’immagine alla narrazione della storia raccontata. Non si comprende perché, invece, siano spesso combattuti, o classificati come un sottogenere di ripiego, come se non fossero in realtà una vera lettura. Se leggerli riesce ad interessare i loro giovani (ma non solo!) lettori, non dovrebbero essere snobbati o condannati, ma incoraggiati. Spesso i piccoli lettori di fumetti crescono mantenendo vivo l’amore per la lettura;

9) Fate che la lettura sia un momento divertente: come accennato leggere dovrebbe essere percepito come un’attività piacevole, non l’ennesima incombenza da svolgere. Se il massimo del dialogo in casa è: ‘ma perché non molli la playstation e ti prendi un libro?’, molto difficilmente il bambino penserà alla lettura come una cosa positiva, anzi l’assocerà ad una sorta di punizione. Cercate di connetterla invece a qualcosa di positivo, di bello, di condiviso. Provate a farlo assieme, chiedete loro da cosa siano incuriositi, dimostratevi interessati, come vorreste che loro fossero per la stessa lettura. Costruite un momento di condivisione piacevole e cercate di condividere anche altri interessi. Tornando alla playstation precedente, non create l’equazione videogiochi=male:libri=bene. Queste polarizzazioni non funzionano e non rendono giustizia ai diversi interessi che un bimbo o un ragazzo riescono a coltivare;

10) Leggere non è tutto: lo dico da persona amante della lettura, ma leggere non è tutto. La nostra realtà quotidiana è profondamente cambiata e i bambini come i ragazzi, sono esposti ad una serie continua di stimoli che rende la concentrazione nella lettura ancora più complessa, creando ancora più distinzione tra una realtà, spesso virtuale, percepita come viva e mutevole, e il mondo dei libri spesso percepito come noioso e statico. Questa differenza rende se possibile ancora più problematico l’approccio con la lettura e allontana i piccoli lettori da un mondo che spesso rifiutano senza neanche dargli una possibilità. Sta agli adulti che lo circondano cercare di superare questa separazione e rendere viva e coinvolgente, alla pari di altri stimoli, anche l’esperienza legata alla lettura.

Anche in questo caso, come in altri post, quelle che avete letto non vogliono essere regole quanto suggerimenti che spero aiutino a relazionarsi meglio col mondo dei piccoli.

Resto a disposizione con chi volesse/potesse condividere la sua esperienza: può farlo contattandomi per mail (fabrizioboninu@gmail.com) oppure lasciando un commento. 

A presto…

Fabrizio Boninu

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Come aiutare i bambini ad amare la lettura? (1)

bambini e libriInterno: studio. Primo incontro con i genitori di Matteo. Io: ‘Come trascorre le giornate in casa, Matteo?’, mamma: ‘Guardi, non fa nulla tutto il giorno, passa gran parte del tempo di fronte alla tv o con la playstation, è sempre attaccato a qualcosa di elettronico, non lo abbiamo mai visto prendere di sua iniziativa un libro in mano. Ma cosa dovremmo fare per farlo leggere?’
Già, cosa dovremmo fare noi adulti per far interessare i bambini o i ragazzi alla lettura? Parlo da appassionato lettore oltre che da psicologo. Per far fronte a richieste di queste tipo, e tenendo in considerazione la ripresa dei loro impegni scolastici, ho immaginato di stilare un rapido catalogo di quelle che potrebbero essere dei suggerimenti (niente regole!) per cercare di favorire questa attività anche con i nostri ragazzi. Attirati dal veloce e accattivante mondo dei videogiochi, circondati da internet o social network a qualunque ora del giorno (e spesso della notte!) ed in qualunque circostanza, bambini e ragazzi sono semplicemente all’oscuro di quanto possa essere altrettanto viva e vivida l’avventura vissuta grazie alla loro fantasia e ad un buon libro. Cosa possiamo fare per rendere questa esperienza più frequente?

Questo elenco vi aiuterà a rendere più agevole il percorso:

 

1) Non associate la lettura con i compiti scolastici: spesso i bambini si avvicinano alla lettura solamente perché costretti dalla scuola per attività di ricerca o come compito, stabilendo, quindi, la relazione ferrea per cui leggere equivalga ad un dovere. Uno dei primi lavori da fare sarebbe proprio questo: spezzare il legame lettura=compito, cercando di rendere l’attività della lettura indipendente dall’attività dello studio o dello svolgimento dei compiti. Spezzata questa connessione, il bambino si sentirà libero di scegliere cosa e quando leggere e non si sentirà costretto a farlo per una scadenza;

2) Proponiamo libri che piacciano a lui non a noi: il secondo punto è strettamente legato al primo: dato che il bambino non dovrebbe leggere libri perché obbligato (dagli adulti, dalla scuola, ecc ), dovremmo stare attenti a proporre libri che rientrino nei suoi interessi. Questo comporta che gli adulti intorno a lui prestino attenzione agli interessi manifestati dai ragazzi, e quindi abbiano una conoscenza delle realtà che li coinvolgono e delle loro passioni. Evitiamo una riproposizione pedissequa di ciò che è piaciuto a noi e che, per quanto ci secchi ammetterlo, potrebbe essere totalmente passato di moda! Cerchiamo di evitare termini come: ‘è un classico’ o ‘è un capolavoro’, frasi che sottilmente sottintendono quanto, invece, quello che leggono loro non lo sia per nulla e non lo diventerà mai. Ricordiamoci che stiamo cercando di insegnare loro ad apprezzare la lettura, non a costruire dei nostri cloni, anni dopo l’originale;

3) Diamo per primi l’esempio: è molto facile predicare senza essere coinvolti. Un bambino impara più dall’esempio che dalle parole. Se non vede nessun adulto intorno a lui prendere in mano un libro difficilmente sarà a sua volta invogliato a farlo. Sarebbe bene, quindi, prima di gridare allo scandalo di quanto i nostri figli non leggano, cercare di capire quanto siamo per loro esempi per l’attività che richiediamo;

4) Leggete assieme: una delle cose che generalmente i bambini amano di più, è che qualcuno racconti loro una storia. Se potete, abituateli fin da piccoli a sentirvi leggere storie, per condividere, oltre al tempo che passerete assieme facendolo, anche un viaggio con la fantasia. Cercate di non perdere col tempo questa abitudine: anche se cresciuti, se state leggendo un libro che vi appassiona, costruite un momento per condividerlo: leggetelo assieme oppure chiedete loro un parere. Questo gesto permetterà diversi movimenti: da una parte potrebbe incuriosirli e spingerli a voler sapere cosa accade nel resto del libro (e per quale motivo vi abbia catturato quel libro!), saprà che leggere è per voi un’attività ancora ricca di passione e costituirà un piccolo, ulteriore ponte comunicativo tra i vostri interessi e loro;

5) Rispettiamoli: come detto prima stiamo cercando di far crescere in loro l’interesse per la lettura, non creare dei nostri cloni. Se il nostro obiettivo è quello di allontanarli dalla lettura, non dobbiamo far altro che trattarli come piccoli illetterati che non capiscono nulla di quello che stanno leggendo/recensendo/criticando e che non comprendono la bellezza di ciò che proponiamo loro. Questo atteggiamento difficilmente si concilia con la creazione di uno spirito critico. Leggere equivale anche a costruire, come per molte altri aspetti, i propri personali gusti. Siamo in grado di accettare che i loro non coincidano con i nostri?

– CONTINUA –

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Crescere un figlio da soli

come-comportarsi-con-un-figlio-adolescente_2fdc5e3c0fd3437e64f4423bdefd8742Accade sempre più spesso, soprattutto a causa di separazioni, (ma non solo, penso per esempio a famiglie immigrate), che le famiglie siano composte da un solo genitore con figli. Molti genitori avvertono la difficoltà di questa situazione, il ‘peso’ della famiglia tutto sulle proprie spalle, la difficoltà di essere e di dover fare, contemporaneamente da padre e da madre per i propri figli. La difficoltà viene percepita in maniera più netta quando il figlio o i figli diventano adolescenti, quando entrano in quella fase di vita che spesso provoca frizioni e contrasti con i propri genitori e che, in caso di famiglia monogenitoriale, viene percepita come ancora più ardua. Da questa premessa nasce la riflessione: cosa comporta essere un genitore solo? Cosa può comportare non essere supportati da un altro genitore?

Uno dei primi aspetti al quale prestare attenzione riguarda, sicuramente, il poter fornire informazioni chiare e precise sul perché questa sia la situazione nella quale si trova la famiglia. Il bambino probabilmente si chiederà come mai ha un solo genitore ed è indispensabile che in questo passaggio possa contare sulla correttezza di un racconto che possa esplicitare i motivi per i quali la sua famiglia sia così composta, quale sia la storia e quale ne siano le cause. Solo così il suo racconto di vita potrà essere integrato e non disgregato in frammenti dei quali, magari, non riesce a comprendere il senso:

Sia che la condizione di genitore single sia stata subita oppure voluta, non si può trascurare il fatto che tutti i figli vogliono fare una conoscenza, il più precisa possibile, delle proprie radici e delle proprie origini, con domande pressanti sul perché la loro crescita sia avvenuta senza poter contare sull’appoggio di due adulti. Naturalmente questo non vale per i figli rimasti orfani, per i quali, però, il genitore rimasto dovrà costantemente preoccuparsi di mantenere viva la memoria del padre o della madre che non è più lì al loro fianco a sostenerne il percorso di crescita[1] 

Altre importanti capacità che vengono richieste ai genitori soli, sono quelle di saper contemporaneamente rivestire il ruolo materno e paterno, e di riuscire ad alternare velocemente le due diverse funzioni:

La fatica doppia di un genitore single sta principalmente nell’imparare a coniugare ruolo materno e paterno nella stessa persona: essere materni comporta il saper offrire una solida sponda affettiva che faccia sentire un figlio amato, protetto e sostenuto per come è e non per cosa fa. Saper essere invece paterni significa far sentire un figlio contenuto, normato e regolato, in modo che i suoi processi esplorativi, trasgressivi o di individuazione possano sempre compiersi in modo tale da non essere autolesivi e soprattutto da essere funzionali al percorso di crescita, con la capacità di acquisire competenze di autocontrollo, autoconoscenza e buone relazioni con gli altri.

Il problema, tra l’altro, non consiste solo nel dover rivestire le due funzioni, ma anche nel saperle rendere velocemente alternative, intercambiabili, flessibili. Un genitore single deve saper prontamente assumere la funzione paterna che, per esempio, vieta a un figlio l’uscita non concordata e programmata durante il weekend e poi, in tempi rapidissimi, essere in grado di diventare sponda affettiva pronta a consolare la sensazione di solitudine e di isolamento dello stesso figlio, rimasto in casa e rinchiuso nella sua stanza, afflitto dalla percezione che tutti rideranno di lui per non essersi presentato all’appuntamento con il gruppo. C’è bisogno di così tanta forza interiore e, a volte, ci si sente così soli nel dover fronteggiare questa complessità, che non a tutti genitori single riesce possibile o anche solo pensabile questo veloce cambio d’abito. E proprio questa incapacità di muoversi con flessibilità e accortezza da un ruolo all’altro, mettendo in gioco funzioni così diverse, spesso porta il genitore single a cristallizzarsi solo su una posizione: così, o diventa ultraprotettivo e sempre accondiscendente, o al contrario ultrarigido e sempre in posizione di divieto. Inutile dire che è proprio questa ‘non mobilità’ a mettere maggiormente a rischio la crescita dell’adolescente. È per questo che al genitore che affronta da solo l’ingresso in adolescenza dei propri figli occorre una forte auto-consapevolezza ed eventualmente la capacità di saper chiedere aiuto, convinto che se la fatica educativa è al di sopra delle proprie forze è necessario essere presi per mano e accompagnati nel viaggio. [1] 

Quest’ultimo aspetto è, per un genitore, uno degli aspetti più difficili dei quali prendere consapevolezza: cogliere l’impossibilità di fare autonomamente e comprendere che la difficoltà può essere tale che si abbia bisogno di un aiuto. Intendiamoci: questo non vuole dire necessariamente rivolgersi ad uno psicologo: significa piuttosto avere idea dei propri limiti e delle proprie difficoltà, significa avere consapevolezza di dove si possa arrivare da soli e dove, invece, sia necessario appoggiarsi a qualcuno per avere aiuto. Chi possa essere il dispensatore di questo aiuto, poi, è la famiglia stessa a decidere: potrebbe essere un adulto competente col quale il figlio/figlia abbiano una buona relazione, potrebbe essere un insegnante, un amico di famiglia o, in caso di assenza di una figura di riferimento, un professionista qualificato. Questo supporto potrebbe garantire due diversi risultati: da una parte sarebbe un buon ‘ponte comunicativo esterno’ per il figlio, costituendo la premessa di un’ulteriore possibilità relazionale tra genitore e figlio; dall’altra potrebbe alleviare il genitore dal peso di sentirsi solo, essendo supportato dall’aiuto di un’altra persona.  

Come sempre chi volesse/potesse condividere la sua esperienza può farlo contattandomi per mail (fabrizioboninu@gmail.com) oppure per telefono (3920008369). 

 

A presto…

Fabrizio Boninu

[1] Pellai, A. (2012), Questa casa non è un albergo!Feltrinelli, Milano, pp. 142-143

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Il compito degli educatori

Cuore-Mary

E’ più facile insegnare che educare,
perché per insegnare basta sapere,
mentre per educare è necessario essere
– Alberto Hurtado –

 

Quando accadono fatti di cronaca nera che coinvolgono bambini o adolescenti, vengono citate, tra le cause di quello che succede, la mancanza di figure educative che possano in qualche modo porre freno alla deriva apparentemente senza fine di questi fatti terribili. Chi è un educatore oggi? Il termine è veramente molto vago e potrebbe delineare tutti coloro che si occupano a vario livello di persone che abbiano bisogno di una guida. Sicuramente è un educatore il genitore, è un educatore l’insegnante, è un educatore l’allenatore sportivo.

Secondo il dizionario Treccani, l’educatore è colui il quale ‘educa, e soprattutto chi per vocazione o per professione compie l’ufficio di educare i giovani’. Punto principale di questa definizione è il termine educare: l’etimologia del termine deriva dal latino e-ducere, letteralmente condurre fuori, ma anche trarre da e sottolinea il lavoro maieutico di portare fuori l’adulto dal ragazzo, di riuscire ad insegnargli a come diventare grande. Se non ci sono dubbi sul fatto che gli adulti abbiano questo immenso potere, ce ne sono invece tanti sul come si fa l’educatore. 

Gli insegnanti o i formatori continuano a fare interventi caratterizzati dalla tendenza a spiegare, a moraleggiare, puntando esclusivamente sugli argomenti logici o sugli sforzi informativi. Siamo portati con i soggetti in età evolutiva ad esortare e a fare la predica. Ci convinciamo che il fulcro della nostra missione sia consigliare, offrire suggerimenti o soluzioni. Come educatori tendiamo sempre prima di tutto ad insegnare, argomentare, persuadere; per allontanare la complessità e la sofferenza possiamo rassicurare, simpatizzare, consolare, sostenere; quando il disagio in noi aumenta allora attendiamo a sottrarci, cambiare argomento, scherzare, distrarre; infine quando gli allievi non corrispondono più alle nostre aspettative allora etichettiamo, ridicolizziamo, umiliamo, giudichiamo, critichiamo, biasimiamo, diamo ordini, minacciamo… Magari in nome di una cultura democratica.

Siamo insomma disposti a fare di tutto per fuggire dal compito arduo dell’ascolto delle emozioni e delle storie dei nostri interlocutori. I bambini, i ragazzi che hanno difficoltà ad accettare l’altro, così come quelli che vivono l’esperienza di essere considerati diversi, sono soggetti che hanno massimamente bisogno di un ascolto attivo. Dietro la rabbia, l’arroganza, il disprezzo, l’onnipotenza che sottendono i comportamenti razzisti violenti, ci sono a ben vedere sentimenti che tendono ad essere mascherati, negati e trasformati nel loro contrario: la solitudine che spinge alla coesione compensativa del gruppo violento, l’impotenza che si tramuta in arroganza onnipotente, la paura che diventa il coraggio nei confronti dei più deboli magari perché provenienti da altrove. E ascoltare, per un educatore, non significa certo accettare schemi violenti a manipolatori, bensì favorire una circolarità dell’ascolto, promuovere nel gruppo classe la possibilità di lasciare esprimere e legittimare sentimenti, punti di vista, storie di vita che hanno una loro radicale originalità. [1]

Il punto che reputo importante del passo che vi ho riportato è la difficoltà che spesso gli adulti hanno nel rapportarsi con la realtà emotiva dell’altro. Presi come siamo dal voler imporre, con difficoltà riusciamo (se ci riusciamo!) a fermarci ad ascoltare la realtà dei ragazzi, condividerne la visione del mondo, comprendere le scelte, supportarne le paure. Il confronto coi ragazzi, e parlo per esperienza diretta, richiede, prima di entrare in contatto con l’altro, l’entrare in contatto profondo con se stessi, con le proprie paure, con la propria visione del mondo. Ed è un terreno  nel quale non ci piace avventurarci, specie se diamo per scontato che diventando adulti abbiamo anche acquisito il potere di non dover più confrontarci con parti di noi che non ci piacciono e che non hanno necessità di essere rinvangate.

Il confronto coi ragazzi invece ci porta spesso su quel terreno e faremmo di tutto per evitarlo. Più evitiamo questo confronto, più ci irrigidiamo nei confronti del bambino/ragazzo, più questo sente la nostra distanza rendendo questo un circolo vizioso che si alimenta di continuo, diventando problematico spesso durante l’adolescenza, età nella quale tutte le dinamiche appaiono particolarmente amplificate. Come si spezza il cerchio? Con l’ascolto, un ascolto attivo, un ascolto partecipe, un ascolto interessato, che faccia sentire l’altro coinvolto in quello che ci riguarda. Un ascolto che parta dal nostro stesso ascolto, dalla conoscenza, dalla comprensione e dall’accettazione di quello che noi sentiamo e proviamo. Solo in questo modo potremmo metterci a disposizione per l’altro. Non è sicuramente una cosa facile: dopotutto anche a noi è stato insegnato di crescere mettendo da parte quanto più possibile la nostra realtà emotiva.

Solo recuperando quello che ci appartiene possiamo utilizzarlo come ponte per comunicare con chi, in fondo, vuole essere aiutato a tirare fuori  e a capire come maneggiare quello che sta faticosamente iniziando a sentire. 

 

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

 

[1] Foti, C. (2012), La mente abbraccia il cuore, Edizioni GruppoAbele, Torino, pag. 185

 

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Storie di ordinaria sofferenza

Storie di ordinaria sofferenzaUn giorno come tanti, in studio. Il penultimo appuntamento di un martedì è con un ragazzo nuovo. Lo chiameremo Luca.

Luca, per quanto odi questo termine, è un ‘normale’ ragazzo di 12 anni. Va bene a scuola, fa sport, è integrato nel gruppo dei suoi amici. Apparentemente non ha nulla di cui parlare e, perlomeno nei primi istanti, mi chiedo cosa ci faccia li con me. Avverto un non detto, una paura che aleggia sopra la normalità della sua vita di dodicenne. Mi  racconta tante cose, è aperto e si fida della mia curiosità, mi racconta delle sue passioni, mi introduce ai suoi sentimenti. Come se stesse entrando in un territorio minato, avverto il cambio di clima emotivo e, mentre inizia a parlare del fratello spiazzandomi, come solo gli adolescenti riescono, inizia a piangere.

Piange molto, piange lacrime amare che cerca di nascondere. Piange e io non so che fare. Non riesco a capire cosa lo abbia fatto piangere, non riesco a capire che cosa lo stia spaventando tanto, non riesco a capire cosa stiano esprimendo quelle lacrime. Non so se fermarmi o se chiedergli cosa non vada, se interpreterà meglio il mio silenzio o le mie parole. Alla fine è lui a spezzare il momento. Sempre continuando a piangere, mi dice che è così triste perché una persona ha apostrofato suo fratello col termine ‘frocio’. Ci sta male, soffre per la cattiveria delle persone e sente di non essere in grado di proteggere il fratello dall’insensibilità altrui.

Mi trovo subito a pensare cosa fare. Cercare di fargli capire quanto le persone a volte siano insensibili e non si accorgano di quanto possano fare male? Cercare di fargli comprendere quello che sente? Il mio voler fare non mi permette bene di accorgermi di ciò a cui sto assistendo: il mio spiazzamento di fronte alla bellezza, alla pulizia dei sentimenti di un ragazzo che piange per il modo ignobile in cui viene apostrofato il fratello. Mi inorgoglisce pensare di avere a che fare con una persona così bella. Penso che se ci fossero tante persone così, il mondo sarebbe un posto migliore, le persone baderebbero di più a non ferirsi. La verità è che mi emoziona. Mi emoziona profondamente. Mi fa, per l’ennesima volta, amare profondamente quello che faccio, mi fa amare il mio privilegio di poter assistere, spesso nascosta dietro alla sofferenza e alle lacrime, alla bellezza delle persone. Mi emoziona profondamente poter pensare al grande insegnamento che, magari del tutto inconsapevolmente, questo ragazzo mi sta dando. Mi emoziona profondamente la sensibilità con la quale riesce ad aprirsi davanti ad uno sconosciuto e comunicare in un solo istante le paure che prova. Mi emoziona e lo ringrazio per questo.

Sono convinto che condividere un disagio di questo tipo sia profondamente terapeutico, perché diamo la possibilità a noi stessi di far emergere i sentimenti che temiamo e che non sappiamo come gestire. Ed è profondamente terapeutico trovare una persona che non rimane indifferente a ciò che ti ferisce.

Di un’altra cosa sono convinto: di quanto profondamente mi rattristi che un ragazzo debba piangere perché le persone non accettino che il fratello potrebbe essere omosessuale. Per l’ignoranza che ancora circonda le scelte di vita che una persona può (o può non) fare. Per la superficialità con la quale le persone spesso feriscono. Non ho soluzioni per quello che mi racconta, non posso prepararlo a proteggere meglio il fratello di quanto non faccia, ne a cambiare le persone. Posso solo invitarlo a comunicare quello che prova, in primis al fratello stesso, lasciando che sappia che l’epiteto che gli rivolgono lo colpisce molto, gli provoca tutta una serie di emozioni. E che sappia che quello che prova o quello che deve subire il fratello non lascia tutti indifferenti.

A cominciare da me. 

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

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La costruzione di un buon dialogo interiore (2)

dialogo interiore2Una delle tematiche nelle quali in adolescenza è indubbiamente necessario sviluppare un buon dialogo interno è sicuramente il tema della sessualità:

Ugualmente, il supporto che ragazzi devono ricevere li metterà nelle condizioni di saper fronteggiare e avere controllo sulle influenze provenienti dal mondo esterno, in particolare in tema di sessualità. È fondamentale che ogni genitore e insegnante li aiuti a sapersi districare nella giungla di condizionamenti negativi che cercano di incidere sullo sviluppo psicofisico, sull’adozione di attitudini e valori che si traducono poi in scelte comportamentali e stili di vita. Solo avendo a disposizione adulti competenti e aperti, disponibili a parlare e ad essere di orientamento in un percorso tortuoso quale è spesso l’educazione sessuale, preadolescenti e adolescenti potranno interiorizzare messaggi significativi che diventeranno di riferimento in momenti cruciali della propria vita. In questo senso è fondamentale che i genitori, in primo luogo, se possibile supportati dalla scuola, riescano a definire i tempi e modi di un’educazione affettiva e sessuale che sappia comunicare il valore relazionale ed emotivo che la sessualità riveste nella vita di ciascuno di noi, allontanando all’equazione che sempre più spesso il mercato gli stessi media propongono i ragazzi per cui la sessualità viene esclusivamente identificata con uno strumento che procura eccitazione e piacere. [1]

L’autore sottolinea come sia necessario sviluppare un dialogo interiore per evitare che il peso delle voci che provengono dall’esterno non abbiano un contraltare e possano così avere campo libero. Se così fosse, come spesso succede in adolescenza, si rischierebbero comportamenti dettati più dalle spinte esterne che dalle motivazioni interne. Questa capacità porterà ad agire in base al proprio sentire. La focalizzazione riguarda il tema della sessualità che in adolescenza gioca un ruolo molto forte anche a causa dei cambiamenti fisici che caratterizzano questo periodo della vita. Se un adolescente non è riuscito a costruire un buon dialogo su queste tematiche con una persona per lui significativa, correrà il rischio di non riuscire ad instaurare un suo dialogo circa quelle che poi saranno le sue stesse scelte sessuali. Se non è riuscito ad instaurare un dialogo con l’altro, probabilmente incontrerà difficoltà anche nel dialogo con se stesso (o stessa naturalmente!), non avrà una posizione sua rispetto a quello che succede intorno a lui. Potrà essere disorientato e temere quello che può succedere dal momento che non ha idea di cosa provocherà in lui.

Gli esiti possono essere estremi come spesso accade in adolescenza: il ragazzo potrà buttarsi a capofitto nell’agito, nascondendo la paura per ciò che sta succedendo, dimostrando ancora una volta che non è necessario nessun dialogo interiore, nessuna consapevolezza nel fare le cose. Oppure, di contro, essere timoroso ed evitante riguardo alla sfera sessuale. Nel primo caso avremo un adulto che continua a non essere in grado di instaurare un dialogo con se stesso, nel secondo una persona spaventata da ciò che non conosce. Naturalmente sono posizioni estreme che, nella loro purezza, non esistono. Sono, però, indicative di due diversi atteggiamenti nei confronti di diverse realtà che, secondo me, sono imparentate dalle stesse cause: l’incapacità nella costruzione di un proprio dialogo interiore.

È dunque necessario che questo processo venga non solo messo in moto ma anche coltivato nel tempo di modo da riuscire ad attecchire nella mente e nel cuore dei giovani ragazzi. Solo così sarà possibile autonomizzarli, rendendoli in grado di capire il valore delle scelte che effettuano ogni giorno. E solo così saranno scevri dalla possibilità che si trasformino in burattini nelle mani di voci esterne, voci che spesso, solo per il fatto di urlare di più, vengono considerate più credibili.

Ed il punto di partenza di questa piccola rivoluzione è alla portata di tutti: basta semplicemente imparare a prestare loro attenzione.

Che ne pensate? Che tipo di dialogo interiore siete riusciti a costruire con voi stessi?

A presto…

Fabrizio Boninu

[1] Pellai, A. (2012), Questa casa non è un albergo!, Feltrinelli, Milano, pp. 186-188

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La costruzione di un buon dialogo interiore (1)

dialogo interiore2Il post di oggi  ha come tema la costruzione e lo sviluppo del proprio personale dialogo interiore. Cosa si intenda con questa espressione è presto detto: il dialogo interiore è la capacità che abbiamo di parlare con noi stessi. Sembra una cosa di poco conto, penserete. Chi non è in grado di parlare con se stesso? In realtà non è così scontata perché se è vero che è un’attitudine che abbiamo da sempre, è anche vero che ciò che fa la differenza è quanto riusciamo a prestare attenzione a cosa ci diciamo e al modo in cui ce lo diciamo. La premessa fondamentale per avere un buon dialogo interiore riguarda il fatto che si abbia una buona capacità introspettiva, la capacità in altre parole di guardare in se stessi. Se manca questa è molto difficile che si possa avere la consapevolezza di ciò che ci si vuol dire. Quante volte ci capita di parlare tra noi e di non avere la più pallida idea di ciò che ci si sta dicendo? Questo dialogo avviene in continuazione rispetto a quello che succede nella nostra vita e, dato che costituisce una realtà assodata della nostra stessa esperienza, spesso non ci facciamo caso, non ne siamo per nulla consapevoli e ce ne rendiamo conto solo nel momento in cui questo dialogo provoca una forte emozione (rabbia, smarrimento, paura ecc). La vera differenza, allora, a mio avviso è data soprattutto dalla capacità di ascoltarsi. Ascoltarsi, infatti, prevede che mettiamo attenzione a ciò che ci diciamo.

Abbiamo detto che possediamo questa capacità di parlarci, sia a voce alta che a mente, da sempre. Credo invece che la capacità di prestare attenzione a ciò che stiamo dicendo sia una capacità acquisita e che dipenda molto dalle relazioni che riusciamo a costruire con le persone ed, in ultima analisi, con noi stessi. La capacità di ascolto è costruita sulla relazione con gli altri nel momento in cui viene interiorizzata. Mi spiego meglio: credo dipenda da come ci ascoltano gli altri, dal continuo rimando rispetto a ciò che diciamo, da ciò che ci restituiscono col dialogo le altre persone, a come questo ci fa riflettere su noi stessi. Tramite questo riusciamo a portare sempre più consapevolezza in ciò che avviene in noi, nei nostri pensieri e nei nostri dialoghi. Più sperimentiamo questo dialogo, più iniziamo a sperimentare la necessità dell’ascolto, dapprima degli altri rispetto a quello che diciamo per poi interiorizzarlo e farlo nostro. Questo confronto è necessario durante tutta la vita, ma una delle fasi della vita nelle quali gli individui iniziano a sperimentare in maniera molto forte la necessità di ascolto è sicuramente l’adolescenza. E’ il periodo della vita nel quale il dialogo deve necessariamente passare dall’esterno all’interno, passare, cioè, dalla prospettiva che siano gli altri a dirci cosa sia o non sia giusto fare (tipico del punto di vista dei bambini), all’idea che possiamo iniziare a diventare autonomi nell’esplorare le infinite possibilità che riguardano la nostra vita. Questo porta spesso gli adolescenti ad un disperato bisogno di condividere ciò che sta succedendo e di riceverne delle restituzioni. Porta anche spesso ad un isolamento nel momento in cui non ci si sente ascoltati e nessuno sembra capire quanto sia importante quello che si ha da condividere.

Il brano che vi riporto riassume ciò che intendo dire e quanto il dialogo interiore debba, per crescere e diventare sempre più consapevole, essere supportato dal dialogo reale:

Diviene cruciale, come adulti, impegnarsi perché i nostri figli sperimentino quindi un clima di ascolto e dialogo ideale, sia in famiglia che a scuola. Questa è la premessa fondamentale per generare competenze non soggetto in età evolutiva. Crescere deve significare prima di tutto imparare a dialogare e ascoltarsi in modo efficace e competente, fattore di protezione che eviterà al minore di fuggire in territori a rischio, alla ricerca di facili compensazioni presentate come attraenti dal mondo esterno. È inoltre di fondamentale importanza che sviluppino un sano dialogo interiore, basato su un atteggiamento di positiva introspezione. È questa una risorsa di indubbio valore che li aiuta a elaborare elementi e informazioni dalle proprie esperienze passate e presenti, a valutare i pro e i contro e prevedere le possibili conseguenze derivate dalle loro scelte e dalle loro azioni. Tale capacità di sapere conversare con se stessi condiziona il modo con cui essi interagiscono e rispondono agli stimoli provenienti dal mondo esterno. In particolare, acquisiranno l’abilità di fare scelte in base al proprio sentire, e non perché sollecitati o spinti da altri. Se i minori non sentono di poter contare sulle proprie voci interne, danno sempre molto peso alle voci provenienti dall’esterno.[1]

– Continua –

[1] Pellai, A. (2012), Questa casa non è un albergo!, Feltrinelli, Milano, pp. 186-188

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A scuola di violenza

A scuola di violenzaSono rimasto colpito, come molti di voi credo, dall’ennesimo caso di cronaca riguardante un episodio di violenza scolastica. In breve il racconto (come apparso sul quotidiano L’Unione Sarda): un insegnante di disegno di una scuola di Cagliari, è stato denunciato dai genitori di un suo alunno sedicenne perché lo avrebbe schiaffeggiato. L’episodio risale al 29 ottobre scorso. Sempre stando a quanto riportato dal quotidiano, il ragazzo era stato ripreso diverse volte perché disturbava la lezione ed era stato infine mandato fuori dall’aula. Il professore sostiene di essere stato aggredito dal ragazzo e di avergli dato uno schiaffo per difendersi. Nell’articolo si riporta anche la posizione dei genitori del ragazzo che qualificano l’episodio come ingiustificabile.

A corredo dell’articolo, i commenti dei lettori all’episodio rendono molto bene la posizione generale su questo tipo di episodi: ‘Non credo che il professore abbia torto ma credo che i genitori oltre allo schiaffo del prof dovrebbero darglielo anche loro. Coraggio prof io sono con te.’, ‘Il prof. ha fatto benissimo, due ceffoni ben dati quando ci vogliono fanno solo bene. Io li darei anche a certi genitori che sono più cafoni dei loro figli’, ‘Siamo arrivati all’assurdo non solo non sono in grado di educare i figli ma si permettono pure di denunciare. …… mio padre mi avrebbe preso a calci …..povera Italia !’, ‘Se i fatti si sono svolti come riporta la cronaca:PIENA SOLIDARIETÀ AL DOCENTE. Sono una madre di tre figli e ho avuto molto dalla scuola per i miei ragazzi, ai quali ho sempre insegnato rispetto per le istituzioni’, e ancora ‘Se ai miei tempi un insegnante fosse arrivato al punto di darmi uno schiaffo e lo avessi riferito a casa ne avrei preso il doppio dai miei genitori’, ‘Confido nel Giudice chiamato ad esprimersi sull’accaduto affinché dia un paio di calci nel sedere a quel genitore degno di cotanto figlio!’, ‘Purtroppo questi teppisti da strapazzo riescono a compromettere la vita è la serenità di una intera comunità provocando all’inverosimile e non consentendo di fare lezione.. Ma la cosa grave è che sono anche spalleggiati da genitori incapaci ad educare che in queste situazioni hanno sempre la denuncia facile per raggranellare qualche soldo. Fosse stata mia madre, lui avrebbe aggiunto su me altri sonori ceffoni dopo quello del professore’, ‘Difesa totale nei confronti del professore’, e infine ‘Perché non denunciarli ai tribunali dei minori per l’inadeguatezza della loro educazione?’.

Il tono dei commenti è sorprendentemente simile. Sostanzialmente abbiamo la condanna dei genitori, la condanna del ragazzo e il supporto dell’insegnante. Lo schieramento è palese. Nessuno si chiede cosa abbia fatto degenerare in questo modo la situazione. Nessuno ipotizza che questo sia solo l’ultimo anello di una catena molto lunga che vede noi adulti coinvolti nella sempre più marcata incapacità di fornire modelli positivi ai ragazzi. Si parte lancia in resta con l’accusa, non sembra esserci spazio per una riflessione, per un’interrogarsi che non ha facili ricette.

Il disagio all’interno delle scuole sta diventando sempre più evidente e palpabile, ed è qualcosa che travalica sempre più spesso il contesto scolastico e assurge a fatto di cronaca. Alcuni punti sembrano però chiari e compaiono anche in questa vicenda: il più evidente è l’allentamento dell’alleanza genitori/insegnanti. Se un tempo c’era il riconoscimento sociale del ruolo dell’insegnante e della sua funzione educativa, ora spesso sembra di assistere ad una battaglia tra due eserciti schierati che sembrano non condividere gli stessi obiettivi. In questo scollamento gli insegnanti si trovano soli a fronteggiare difficoltà che, per paura che sfocino in denunce, vengono lasciate perdere e non contenute. Quest’ultimo aspetto, il ricorso frequente a denunce, non fa che esacerbare ulteriormente le posizioni, disimpegnando gli insegnanti.

Qual è la soluzione a tutto questo? Non ho facili consigli da dare, perché ritengo la situazione particolarmente complessa. Mi vengono in mente, invece, una serie di condizionali: andrebbe rivista la nostra scelta educativa, andrebbe favorito il confronto tra posizioni diverse, andrebbe coltivato il rispetto delle persone e della loro funzione, andrebbe svelenito il clima, andrebbe rinsaldata l’alleanza tra le figure che, a vario titolo, si occupano dell’educazione dei ragazzi. Andrebbero fatte tante cose in effetti. Andrebbe anche evitato uno schieramento aprioristico su posizioni facili (ha ragione l’insegnante/hanno ragione i genitori) che non solo ci fanno perdere la complessità della vicenda, ma che temo non aiutino a comprendere quello che succede.

Che ci sia spesso un atteggiamento esecrabile da parte di alcuni ragazzi è, purtroppo sempre più frequente. Che quei ragazzi siano cresciuti con modelli adulti quantomeno discutibili è un altro tassello del puzzle. Che le cose possano essere risolte additando un colpevole, questo è un aspetto del quale non sono poi tanto sicuro

Come sempre chi volesse/potesse condividere la sua esperienza può farlo contattandomi per mail (fabrizioboninu@gmail.com) oppure per telefono (3920008369). 

 

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

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Alunni, insegnanti & Facebook

Alunni, insegnanti & FacebookEccoci nuovamente a settembre. L’inizio di un nuovo anno scolastico porta sempre con sé un misto di paure e desideri. Lavoro spesso con ragazzi che frequentano le scuole e mi capita di interagire anche con i loro insegnanti. Il rapporto tra questi due ruoli è sempre stato complesso e delicato nella nostra società per la funzione che svolgono ma, negli ultimi tempi, si è aggiunto un fattore nuovo, i social network come Facebook o Twitter, che rendono il quadro ancora più complesso. Avendo a che fare con persone che si occupano di scuola, capita  di sapere che i ragazzi chiedano di interagire in tanti modi, così che possano avere un contatto diretto con, per esempio, gli insegnanti. Hanno la mail personale, spesso formano con altri studenti gruppi su Whatsapp che consentono di comunicare con tutti i membri della classe, hanno i contatti di Facebook tramite i quali possono interagire con gli insegnanti stessi.

Da questa disponibilità nasce il dilemma: questa possibilità di contatto aiuta od ostacola il rapporto tra alunni e docenti? Credo che l‘interazione possa essere particolarmente proficua per entrambi gli attori in gioco sempre che si sia consapevoli dei mezzi che vengono utilizzati e, soprattutto, che vengano osservate alcune semplice regole da ambo le parti: entrambi dovrebbero per esempio prestare attenzione a non sovrapporre il proprio profilo scolastico con quello privato: quest’ultimo dovrebbe, a mio avviso, essere distinto da quello che si usa per scuola. La sovrapposizione e mescolanza di profilo pubblico e privato ingenera una serie di confusioni che non sono facilmente gestibili nell’ambito di un rapporto come quello tra alunni ed insegnanti.  

Altro fattore che gli insegnanti dovrebbero prendere in considerazione riguarda lo sbilanciamento di potere nel rapporto tra loro e gli alunni. Il rapporto infatti non è paritario, ed è impossibile che lo diventi nel momento in cui sono amici su Facebook. La relazione è sbilanciata da una serie di disparità, prima fra tutte quella per cui un professore, per lavoro, giudica il suo alunno. Sarebbe più proficuo, quindi, non giocare a fare gli amici dei propri allievi: i ragazzi possono trovare amici tra i coetanei; se ricercano la presenza di un adulto è perché desiderano qualcuno che, affiancandoli, possa aiutarli nelle loro scelte

Da questo punto ne consegue un altro: se i professori e gli alunni condividessero la bacheca di Facebook questo probabilmente potrebbe portare ad una minore libertà e ad una minore spontaneità nel comportamento dei ragazzi. Tanto per fare un esempio: come potrebbero dei ragazzi scherzare su un professore della loro scuola se uno stesso insegnante della scuola è presente e legge le loro bacheche? Anche se virtuale, la bacheca di Facebook (o di Twitter, o di Instagram ecc) è uno spazio privato anche se nell’era della condivisione totale andrebbe ridefinito il significato delle parole privato o pubblico. Proprio questa possibile confusione potrebbe ingenerare fraintendimenti complicati da gestire rispetto al ruolo, alla professione, al pubblico e al privato, al rapporto che si può costruire tra alunni e insegnanti.

Quale soluzione può esserci? Ostracizzare il mondo virtuale come luogo di comunicazioni non rientra nei miei obiettivi (sarebbe abbastanza strano screditare un aggettivo che compare nel nome del mio sito!), ma credo sia necessario trovare un modo per interagire che possa permettere ad entrambi gli attori in gioco di far si che l’esperienza sia positiva. Se per esempio i ragazzi potessero accedere ad una pagina di discussione con gli insegnanti che fosse solo professionale, si potrebbe creare uno spazio di incontro ulteriore tra alunni ed insegnanti. 

La materia è attualmente discussa e diverse sono le correnti di pensiero. Alcune scuole nel mondo sono arrivate a vietare per regolamento questo tipo di realtà: (qui un articolo che si occupa della materia). In Italia non si hanno ancora notizie di scuole che abbiano fatto passi di questo tipo. Insomma una materia in divenire, che rende necessario riflettere circa una maggiore consapevolezza nell’utilizzo di questi mezzi. 

Come sempre se ci fossero insegnanti o ragazzi o genitori che volessero/potessero condividere la loro esperienza possono farlo contattandomi per mail (fabrizioboninu@gmail.com) oppure per telefono (3920008369). 

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

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Ci siamo separati a causa di nostro figlio!

Ci siamo separati a causa di nostro figlio!Il post di oggi prende spunto da una aspetto che noto spesso durante le terapie nelle quali sia coinvolta una famiglia con almeno un figlio. Vi ho già descritto il mio modo di lavorare con i bambini o con ragazzi adolescenti: quando il ragazzo (o la ragazza!) è minorenne, invito i genitori per conoscere meglio quella che è la situazione familiare. Capita allora che i genitori, soprattutto ma non solo, quando è presente un figlio adolescente, inizino a raccontare di come divergano le strade educative tra i due. Il papà accusa la madre di essere troppo indulgente e bonaria, la madre si difende dicendo che sa invece come prendere il figlio/a e accusa a sua volta il partner di non saper ‘maneggiare’ i figli e di essere, al contrario, troppo rigido e severo. Mi è capitato che questa ‘lotta educativa’ fosse talmente forte ed esasperante, che in alcuni casi entrambi ritenevano fosse meglio separarsi piuttosto che condividere queste differenze così marcate nello stile educativo dei figli. Queste divergenze insanabili rispetto al modo con cui affrontare l’educazione dei figli non è altro che, a mio avviso, la classica ciliegina sulla torta. E’ quantomeno inverosimile che un figlio, per quanto sia provocatorio, sopratutto durante l’adolescenza, possa portare due persone che condividono una stessa visione del loro ruolo genitoriale a separarsi per causa sua. E’ più probabile che quel figlio si sia infilato tra le crepe nel rapporto tra i suoi genitori e sia riuscito ad allargarle.

A questo proposito vi riporto il brano di un testo particolarmente interessante e piacevole da leggere. Si intitola Questa casa non è un albergo! Adolescenti: istruzioni per l’uso, ed è scritto da Alberto Pellai, medico e psicoterapeuta dell’età evolutiva, nonché conduttore della trasmissione radiofonica ‘Questa casa non è un albergo’ in onda su Radio24 e che ha raccolto in questo testo parte delle esperienze e delle comunicazioni che quotidianamente arrivano in trasmissione:

L’ingresso in adolescenza pone un figlio di fronte ad un dato di fatto: il suo bisogno di lealtà, la sua idealità, la sua voglia di riparare ciò che la vita gli ha fatto trovare ‘rotto’, spesso lo spingono a smascherare le ipocrisie del mondo degli adulti. Sono numerosi i figli che provocano e istigano i propri genitori a entrare in crisi in modo manifesto, quasi approfittando della propria adolescenza. Tantissime mamme papà approdano in consulenza psicologica dichiarando di essere sulle soglie della separazione per colpa dei differenti punti di vista sull’educazione di un figlio.

Anche nell’esperienza della trasmissione radiofonica, molti genitori attaccano dicendo ‘con mio figlio è un vero disastro’ ma, interpellati sull’intesa di coppia di fronte alle crisi del figlio, concludono la conversazione affermando ‘con il mio/a compagno/a di vita è un vero disastro’. 

Allora torniamo all’inizio: nessun figlio può essere la causa di separazione dei propri genitori. La coppia coniugale non si sfascia di fronte alle fatiche educative imposta dalla crisi di crescita di un figlio. Solitamente i compiti educativi per un figlio diventano distruttivi per una coppia perché si innestano su un terreno d’intesa molto fragile a causa della scarsa intesa che già preesiste tra uomo e donna.[1] 

Sono d’accordo con quanto sostiene l’autore. Credo sia improbabile che un figlio, qualunque sia l’età, possa essere causa della rottura del rapporto tra i genitori. Può sicuramente essere un fattore enorme di stress per il rapporto stesso, ma ribadisco il fatto che se esiste una condivisione rispetto al ruolo educativo che i due genitori sentono di svolgere è inverosimile che un figlio ne causi la rottura, per quanta forza possa mettere nell’attaccare il legame.

Spesso i figli sembrano introdursi con la forza nei ‘punti deboli’ della coppia genitoriale: questo processo è teso più a verificare la robustezza e la veridicità del legame delle persone che lo circondano, e quanto queste, soprattutto i suoi stessi genitori, possano reggere e reggerlo. Ma questo ‘attacco’ non è rivolto allo sfaldamento del legame coniugale, quanto piuttosto a testarne la valenza. Non si può, dunque, attribuire a questo movimento, dettato tra l’altro dalla fase di vita che ragazzi adolescenti si trovano a vivere, la causa di un possibile allontanamento tra i membri della coppia genitoriale. Se si imputa al rapporto genitori-figli la causa dell’allontanamento tra i membri della coppia sono certamente possibili due aspetti: il primo è quello di trovare un facile capro espiatorio circa le difficoltà della propria relazione, il secondo aspetto rilevante è di non riuscire a vedere qual è stato il nostro ruolo nella accadere degli eventi. So che è una posizione decisamente più difficile, ma credo più utile per cercare di comprendere quello succede. 

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

[1] Pellai, A. (2012), Questa casa non è un albergo!, Feltrinelli, Roma, pag. 92

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