Bullismo omofobico: risponde il dr. Federico Ferrari

omofobia-a-scuola-500x281

Il post di oggi, concomitante con questo nuovo inizio anno scolastico, ha come tema un argomento del quale ci siamo già occupati, (Bullismo omofobico: risponde il dr. Jimmy Ciliberto), un fenomeno che, come detto, ha radici profonde ma che solo ultimamente è diventato un argomento dibattuto nelle cronache nazionali. Sto parlando di bullismo omofobico e questa attenzione testimonia finalmente una maggiore sensibilità dell’opinione pubblica su temi legati alla violenza omofobica. Abbiamo visto come il bullismo omofobico sia l’atteggiamento o il comportamento violento tramite il quale una persona viene presa di mira da un coetaneo (o da un gruppo di coetanei) in una relazione all’interno della quale il rapporto di potere non è paritario. La persona prescelta viene oppressa con vari atteggiamenti (derisione, minacce, insulti, esclusione…) ed il pretesto per l’attacco è dato, appunto, dalle scelte sessuali o dall’orientamento sessuale (reale o presunto) della vittima.

Per continuare a parlare di questo importante tema, ho pensato di rivolgermi ad un collega che, per professione, è un profondo conoscitore della materia. Mi riferisco a Federico Ferrari, psicologo, psicoterapeuta e autore, insieme ai colleghi Paolo Rigliano e Jimmy Ciliberto, del testo Curare i gay? Oltre l’ideologia riparativa dell’omosessualitàedito da Cortina. Federico dedica la sua attenzione e il suo impegno anche a tematiche legate all’orientamento sessuale e all’identità di genere. Chi volesse ulteriore dettagli sul libro citato può cliccare qui mentre chi volesse saperne di più sul dr. Ferrari può cliccare qui.

Ciao Federico, innanzitutto grazie per aver accettato l’invito e benvenuto! Direi di partire dalla definizione di bullismo omofobico: come potremo descriverlo?

Quando si parla di “bullismo” di solito ci si riferisce a relazioni tra pari (compagni, colleghi, etc.) nelle quali uno o più cercano di affermarsi agendo varie forme di violenza, ci possono essere allora una o più vittime, scelte per il fatto di essere facili da isolare dagli altri, non solo deboli, ma anche portatrici di caratteristiche che le rendono meno “popolari”, almeno secondo i bulli. Infatti in queste situazioni l’obiettivo del “bullo” è di affermare la propria forza di fronte ad un pubblico, attaccando qualcuno che in qualche modo possa meritare, agli stessi occhi del pubblico, la violenza che subisce. Spesso in realtà gli spettatori della violenza non intervengono per ben altri motivi, ma il loro silenzio alimenta la sensazione del bullo di apparire forte e quella della vittima di solitudine e disvalore. Per questo il bullismo omofobico, ossia agito su qualcuno per il fatto che è o appare omosessuale, non ha bisogno di contesti strettamente antiomosessuali per proliferare: è sufficiente che siano contesti, per così dire, “eterosessisti”, ovvero in cui l’omosessualità non è presa in considerazione, e non si afferma la necessità di difenderne il valore paritario rispetto all’eterosessualità. In molti ambienti, specie tra gli adolescenti, l’omosessualità è ancora qualcosa di cui non si parla se non come insulto, e questo ne fa una caratteristica catalizzante per i comportamenti di bullismo. Per il bullo probabilmente se non fosse l’omosessualità sarebbe qualcos’altro, perché si tratta di un individuo insicuro, scarsamente empatico, che cerca pretesti per affermarsi in modo facile e prepotente, ma le persone omosessuali (o che secondo gli stereotipi correnti lo sembrano) rappresentano un gruppo a rischio per il fenomeno del bullismo. Per altro ad oggi ci sarebbe un discorso a parte da fare sulle forme della violenza e le trasformazioni cui va incontro a fronte della massiccia diffusione dei social network e delle relazioni virtuali…

In base alla tua esperienza, è una realtà diffusa oppure un fenomeno di nicchia?

In generale si tratta di un fenomeno ampiamente sottovalutato: laddove è infatti più probabile che si verifichino episodi di bullismo omofobico è anche dove di solito si presta minore importanza alla tutela delle differenze di identità sessuale. Di conseguenza si genera un substrato specialmente fertile per questo tipo di fenomeno, e contemporaneamente si distoglie l’attenzione dai segnali di un suo possibile verificarsi. Oppure, quando si identifica, si tende ad attribuirlo ad altro. Per altro anche le modalità con cui questi atti si manifestano dipendono in parte dal contesto culturale: possiamo incontrare contesti “conservatori” in cui sono presi come bersaglio ragazze o ragazzi che hanno fatto il proprio coming out contro tutto e tutti, ma capitano anche contesti per così dire “liberali” in cui vengono vittimizzati ragazzi effeminati perché non si definiscono omosessuali, e l’etichetta con cui vengono stigmatizzati diventa quella del “gay che non si accetta” (del genere: “…dillo che sei gay!”). Spesso infatti le dinamiche sono più complesse di ciò che sembra, e chi è preso di mira lo è su tutta una serie di aspetti di “divergenza” dal gruppo, di cui l’omosessualità (o l’idea di essa) rappresenta solo una categoria esplicativa stigmatizzata/ante intorno alla quale si organizzano gli “insulti” e la “maldicenza” verso il diverso. Quello che davvero hanno però in comune questi contesti è di essere luoghi in cui non c’è spazio per la diversità e il rispetto dell’unicità, in cui la sessualità viene fagocitata dalla norma sociale rimanendo in bilico tra vergogna e vanità. In questi spazi il bullo agisce la sua violenza a partire dalle norme implicite, usandole come arma di umiliazione, e i suoi spettatori, nella più classica dinamica della “banalità del male”, gli danno ragione, o non riescono a trovare un torto sufficiente nella sua violenza per intervenire, perché significherebbe mettersi a loro volta contro delle regole che in parte condividono…

Cosa provocano questi attacchi alla persona colpita, e quali sono le reazioni più comuni a questo tipo di discriminazioni?

Naturalmente il bullismo può avere diversi livelli di gravità, ma chi ne è vittima può vivere l’inferno. In generale per la vittima ne scaturiscono sentimenti di profonda solitudine, umiliazione, ingiustizia e rabbia, che facilmente però possono evolvere in senso di impotenza e di disperazione. Si aggiunga a tutto ciò il fatto che, per la natura del fenomeno, chi di solito è scelto come vittima è anche qualcuno che in quel dato contesto si profila già come più fragile, magari solo perché l’ultimo arrivato, magari perché stigmatizzato, altre volte perché in difficoltà nei rapporti interpersonali, o in crisi rispetto a sé, o per tutte queste cose insieme. Si aggiunga che gay e lesbiche scoprono la propria omosessualità in un contesto che non la prevede, dopo aver passato i primi anni della propria vita senza prevederla nemmeno loro, e non di rado in adolescenza si trovano ad essere insicuri e combattuti su come gestire ed integrare nella propria identità questa nuova informazione su di sé. Ecco quindi che la vittimizzazione può trasformare un passaggio di crisi e di fatica personale in un’idea di sé senza speranza, in un senso d’indegnità traumatico, che mina la possibilità di trovare un valore di sé. Se poi pensiamo che l’omosessualità è ancora un tabù in molte famiglie, che i e le giovani omosessuali e bisessuali spesso non sentono la possibilità di parlare di questa parte di sé con i propri genitori, chiedere aiuto può diventare impossibile. Se dunque viene a mancare qualunque sostegno e il bullismo colpisce nell’indifferenza totale, il senso di disperazione può spingere anche a decisioni drastiche, nelle quali la richiesta di aiuto e la voglia di farsi del male non sono sempre distinguibili l’una dall’altra.

La maggior parte di questi episodi avviene durante la preadolescenza e l’adolescenza, età nelle quali i ragazzi sono per molto tempo a scuola. Prendiamo in considerazione come si comportano gli altri attori di questa istituzione: gli insegnanti come affrontano questi episodi?

E’ chiaramente difficile generalizzare. Molto dipende dalla competenza e dalla sensibilità dei singoli insegnanti, dalla loro formazione sui temi della discriminazione e dell’identità sessuale, ma anche dal loro modo di intendere il proprio ruolo di educatori. E su questo non basta davvero un generico impegno ad andare oltre la trasmissione di un sapere tecnico, per garantire le buone maniere ed il rispetto reciproco, è necessario farsi carico delle relazioni con i ragazzi.

Da un lato, è fondamentale la prevenzione perché in un contesto in cui i pari valorizzano il rispetto, la dinamica del bullismo non si sviluppa. Le occasionali uscite aggressive o violente vengono respinte da chi assiste. Coloro che maggiormente faticano a mettersi nei panni degli altri, e tendono a ricorrere alla prepotenza, hanno occasione di sperimentare strategie di autoaffermazione differenti e talvolta di apprendere l’empatia. Prendersi il tempo per coltivare con la classe i temi del confronto e del rispetto, farsi promotori di uno spazio in cui il valore della pluralità e della differenza si fanno parte integrante dell’insegnamento e del modo di stare a scuola non è semplice, perché significa creare una cornice di dialogo tra sistemi di valori diversi, in cui il rispetto della persona umana rappresenti una premessa irrinunciabile. Dobbiamo riconoscere che spesso le condizioni in cui gli insegnanti lavorano semplicemente non permettono un lavoro di questo respiro. Spesso questo tipo di intervento viene però attivato ai primi segnali di bullismo, quando il clima in classe comincia a farsi teso e difficile per alcuni, e ci sono state delle prime occasioni di violenza psicologica o fisica.

Dover lavorare sull’urgenza, e muoversi di fronte a casi di violenza conclamata è per molti versi già una sconfitta, ma è soprattutto estremamente complesso, richiedendo di tenere insieme più istanze, a volte anche opposte. Da un lato è fondamentale intercettare i segnali della violenza psicologica, o agita fuori dal campo visivo degli insegnanti, oltre che quella eventualmente palese ed agita in classe. Poi si tratta di creare lo spazio e il tempo adeguato perché la vittima si senta libera di denunciare la violenza, senza sentirsi ulteriormente stigmatizzata come “quello o quella che chiede la protezione dall’insegnante”. Dall’altro lato, è necessario attivarsi verso il bullo sanzionando tempestivamente i suoi comportamenti, assicurandosi che le regole che ogni istituto dovrebbe avere per casi di questo tipo, siano attuate senza se e senza ma. Tuttavia ogni intervento “contro il bullo”, se non si riesce ad attuarlo in una cornice di preoccupazione nei suoi confronti, evitando la caccia alle streghe, coinvolgendo sinergicamente la famiglia, è destinato a fallire, rafforzando ulteriormente le sue istanze di prepotenza: trasformare il bullo nel mostro psicopatico della situazione, umiliarlo perché impari a rispettare l’autorità, e altre sciocchezze simili non fanno che aggiungere violenza ad un contesto evidentemente già disfunzionale, rischiando di spostare la violenza ad altri spazi ed altri luoghi in cui alla fine esploderà, se possibile aumentata. Infine è necessario assodare il coinvolgimento della classe, capire il ruolo degli spettatori, e considerare i pro ed i contro di un intervento con loro, recuperare un’attività di prevenzione che è mancata in partenza.

Mentre le scuole come istituti che fanno?

Le scuole sempre di più sono chiamate a pensare il problema in anticipo, creare programmi di prevenzione e protocolli di azione. Una volta di più diviene fondamentale però che siano gli interventi preventivi ad avere la priorità. Creare occasioni di formazione continua per gli insegnanti su ogni forma di differenza, inclusa le differenze di identità sessuale. Solo maneggiando con maggiore confidenza questi temi, affrontando i propri stessi pregiudizi, recuperando i dati della scienza, gli insegnanti possono farsi promotori e mediatori di spazi di confronto e di dialogo tra gli studenti. Oggi, se possibile, è ancora più difficile per due ragioni. La prima, propria piuttosto di alcune realtà di frontiera, è che sono gli stessi insegnanti a sentirsi “bullizzati”: in contesti che ne sminuiscono la dignità e l’autorevolezza, e in cui un allievo violento può trovare nel resto della classe un pubblico supportivo ad uno scontro con i rappresentanti stessi di un’istituzione di cui la maggioranza del suo gruppo non capisce più il significato. In questi casi è il contesto istituzionale allargato che sta mancando nell’offrire senso e risorse ad intere fette di popolazione, alimentando una violenza diffusa che certamente finirà per trovare sfogo sui soggetti divergenti, quale che sia la caratteristica che li rende tali.

La seconda, più legata a certi contesti “conservatori”, è che sembra crescere il numero di quelli che considerano i propri valori come un “diritto alla discriminazione”. Questo lo abbiamo visto banalmente nel caso di progetti di educazione all’affettività, accusati di farsi promotori di una fantomatica “ideologia del genere” perché semplicemente incoraggiavano gli studenti a superare alcuni stereotipi sessuali, che sono provati essere alla base della violenza sulle donne e di quella omofobica. Quando questo modo di intendere i valori diviene dominante, l’insegnante può sentirsi incapacitato ad affermare la regola del rispetto proprio a causa del suo “mandato di rispetto dei valori di tutti”, o per timore di dover affrontare genitori che difendono il diritto dei figli ad esprimere idee omofobiche, o che contestano l’idea che l’insegnante intervenga sui valori insegnati in famiglia. In questi casi è fondamentale che la scuola (dal preside al ministro) sostenga gli insegnanti, perché non si trovino lasciati soli nell’affermare il proprio mandato educativo.

All’interno della famiglia, come pensi dovrebbero comportarsi i genitori dei ragazzi presi di mira? 

Chiaramente la famiglia dovrebbe essere prima di tutto un luogo protettivo in cui non debbano ripetersi le dinamiche che hanno reso possibile il bullismo altrove. Un ragazzo gay o una ragazza lesbica o bisessuale devono poter parlare della propria identità sessuale, e quindi del fatto che questa è divenuta il pretesto per prenderli di mira. Diversamente, il rischio è che per paura di dover fare un coming out a casa, le vittime di bullismo non parlino delle prese in giro nemmeno con i propri genitori. Anche quando si tratti solo di una percepita omosessualità, se il ragazzo o la ragazza pensa che i propri genitori trovino la cosa sbagliata o vergognosa, possono provare vergogna nel dire di essere trattati come tale.

In secondo luogo quando il proprio figlio riferisce di essere vittima di bullismo è fondamentale attivarsi immediatamente, prima di tutto con la scuola, poi, se appare indicato dalle circostanze, con i genitori del bullo, in casi estremi con le forze dell’ordine. E’ importante avere determinazione senza alimentare un clima di scontro: l’obbiettivo è quello di garantire la sicurezza del ragazzo senza metterlo al centro di un conflitto tra fazioni. L’aspetto fondamentale, in ogni caso, è che il senso di solitudine venga spezzato, che i ragazzi sentano il supporto e la fiducia negli adulti. Poi può essere utile provare a lavorare con questi ragazzi sulle loro strategie interpersonali, per capire se nel contesto specifico queste risultino funzionali o se per qualche ragione li stiano predisponendo in modo particolare alle prevaricazioni dei prepotenti.

Mentre le famiglie dei bulli a cosa dovrebbero prestare attenzione?

Certamente a non sottovalutare i comportamenti del figlio, non etichettarli come “bravate” o “ragazzate”, che è poi un modo di non occuparsi di loro, di sminuire il problema ed in definitiva di non occuparsene. Il “bullo” ha molto bisogno della sua famiglia: ha bisogno di sapere che non ne perderà l’affetto per ciò che ha fatto, ma che ciò che ha fatto avrà delle conseguenze. Spesso manca un sistema etico di riferimento forte, dei modelli coerenti e affettivamente presenti in grado di trasmettere il senso del bene e del male. Talvolta, quando il “bullo” è parte di un “branco”, di un gruppo cioè in cui si è assistito ad una diffusione della responsabilità, e ciascuno si è sentito solo di andare dietro agli altri, ciò che è importante è aiutarlo a sviluppare la forza di opporsi agli altri quando viene passato un limite, nonché modi diversi di affermarsi nel gruppo, credere in sé, scoprire di avere qualità diverse e più importanti che non la capacità di attaccare ed umiliare gli altri.

Come possiamo collaborare per far si che episodi come questi diventino sempre più ostracizzati?

Mi vengono in mente due cose: offrire formazione per gli insegnanti e per i ragazzi spazio e tempo per imparare a confrontarsi, conoscersi e rispettarsi.

Un grazie di cuore a Federico per la disponibilità nell’essersi prestato alle mie domande. Il tema è vasto e ci torneremo ancora con altri interventi. Credo sia un ulteriore, importante passo per introdurre questo argomento in un dibattito che coinvolga più sedi possibili. 

Se ci fossero persone interessate a testimoniare o a condividere la loro esperienza, naturalmente in forma assolutamente anonima (a meno che non desiderino il contrario!), possono contattarmi telefonicamente (3920008369) o per mail (fabrizioboninu@gmail.com).

Come sempre fatemi sapere che ne pensate.

A presto…

Fabrizio Boninu

Tutti i diritti riservati

Bullismo omofobico: risponde il dr. Jimmy Ciliberto

bullismoIl post di oggi ha come tema un fenomeno che ha radici profonde ma che, complici alcuni fatti di cronaca con risvolti particolarmente tragici, è diventato argomento dibattuto nelle cronache nazionali. Sto parlando del bullismo omofobico e questa attenzione testimonia una maggiore sensibilità dell’opinione pubblica su temi legati alla violenza omofoba, argomento, questo, che possiamo considerare strettamente legato al dibattito più ampio che interessa la possibile approvazione in parlamento di una legge che regoli le unioni civili. Ma torniamo a noi: cosa si intende con il termine bullismo omofobico? Sostanzialmente consiste in atteggiamenti o comportamenti violenti tramite i quali una persona viene presa di mira da un coetaneo (o da un gruppo organizzato di suoi coetanei) in una relazione all’interno della quale il rapporto di potere non è paritario. La persona prescelta viene oppressa con vari atteggiamenti (derisione, minacce, insulti, esclusione…) ed il pretesto per l’attacco è dato, appunto, dalle scelte sessuali o dall’orientamento sessuale (reale o presunto) della vittima.

Per parlare di questo importante tema ho pensato di rivolgermi ad una persona che, per professione, è un conoscitore della materia. Mi riferisco a Jimmy Ciliberto, psicologo, psicoterapeuta, autore, insieme ai colleghi Paolo Rigliano e Federico Ferrari del testo Curare i gay?, edito da Cortina. Jimmy da tempo dedica la sua attenzione a tematiche legate all’orientamento sessuale e all’identità di genere. Chi volesse ulteriore dettagli sul libro può cliccare qui mentre chi volesse saperne di più sul dr. Ciliberto può cliccare qui.

Ciao Jimmy, innanzitutto grazie per aver accettato l’invito e benvenuto! Direi di partire dalla definizione di bullismo omofobico: come potremo descriverlo?

Ciao Fabrizio e grazie a te per il tema che hai deciso di trattare.

Possiamo definire generalmente bullismo omofobico quell’insieme di comportamenti apertamente squalificanti e discriminatori assunti da una o più persone nei confronti di un ragazzo o di una ragazza omosessuale (o solo considerati tali), proprio a causa del loro presunto o reale orientamento non eterosessuale. Questa è però una definizione molto generale, per quanto utile a capire di cosa stiamo parlando. Penso che il fenomeno sia molto più complesso, e come tale vada trattato, altrimenti si rischia di considerarlo come una nuova etichetta diagnostica che riguarda solo la persona che mette in atto il comportamento vessatorio.

Io preferisco parlare di contesti eterosessisti che favoriscono, a diverso grado, un insieme di dinamiche che hanno l’effetto di far sentire la persona non eterosessuale (o presumibilmente tale) sola, impotente, isolata, colpevole, proprio per le caratteristiche che la rendono unica.

Penso inoltre che le dinamiche discriminatorie non siano elicitate tanto dall’orientamento non eterosessuale in sé, quanto da tutti gli aspetti che rimandano ad una idea di maschio e femmina che sfida la dicotomia esistente.

In base alla tua esperienza, è una realtà diffusa oppure un fenomeno di nicchia?

Purtroppo constato ancora che negli ultimi anni della scuola primaria e nella scuola secondaria di primo grado, quelli durante i quali nascono le situazioni di bullismo omofobico, la situazione è stagnante. Le parole che rimandano alla non eterosessualità di una persona vengono usate come presa in giro e insulto, pochissimi insegnanti si sentono competenti e a proprio agio nel parlare di queste tematiche, e l’idea che un proprio alunno o una propria alunna possano essere omosessuali continua a rimanere, nella maggior parte delle situazioni, una “non idea”.

Diversa è la situazione nella scuole secondarie di secondo grado, dove emergono differenze significative tra Istituti e Istituti. Affianco a contesti non dissimili a quelli di cui sopra, esistono realtà (principalmente nei grandi centri urbani) che accolgono la diversità, sia tra pari che con gli adulti.

Cosa provocano questi attacchi alla persona colpita?

Come ho detto prima, questi comportamenti hanno l’effetto di far sentire la persona non eterosessuale (o presumibilmente tale) sola, impotente, isolata, colpevole, proprio per le caratteristiche che la rendono unica. Se la persona vive poi in un contesto che sente come non sufficientemente supportivo, od addirittura collusivo con quello che a scuola lo discrimina, possono esserci conseguenze più complesse che possono andare dallo sviluppo di una sintomatologia ansioso-depressiva, all’assunzione di comportamenti a rischio, od anche (raramente per fortuna) all’ideazione suicidaria.

E quali sono le reazioni più comuni a questo tipo di discriminazioni?

Parlare di reazioni comuni è molto difficile, possiamo però affermare che sono ancora troppe le situazioni in cui c’è collusione, soprattutto tra i pari, o sottovalutazione della portata del problema da parte degli adulti.

La maggior parte di questi episodi avviene durante la preadolescenza e l’adolescenza, età nelle quali i ragazzi sono per molto tempo a scuola. Prendiamo in considerazione come si comportano gli altri attori di questa istituzione: gli insegnanti come affrontano questi episodi?

Purtroppo non ci sono risposte omogenee: a fronte di docenti che affrontano la situazione in maniera complessa, promuovendo discussioni con i ragazzi, parlando con le famiglie, attivando anche risorse extra qualora necessario (progetti educativi, supporti psicologici etc), troviamo anche insegnanti che si limitano ad intervenire in maniera punitiva, oppure altri ancora che non intervengono perché sentono di non avere gli strumenti o perché pensano che non rientri tra le loro mansioni.

Mentre le scuole come istituti che fanno?

Ritroviamo la stessa eterogeneità di cui sopra. Alcune scuole non prendono minimamente in considerazione la questione, altre organizzano momenti di riflessione a prescindere dalla presenza o meno di comportamenti discriminatori.

All’interno della famiglia, come pensi dovrebbero comportarsi i genitori dei ragazzi presi di mira? 

Rassicurare i figli che il loro amore prescinde dall’orientamento sessuale e dall’identità di genere, mettersi in posizione d’ascolto e chiedere ai figli stessi cosa possano fare per aiutarli. È fondamentale che i ragazzi e le ragazze sentano di valere, soprattutto per la propria famiglia d’origine.

Mentre le famiglie dei bulli a cosa dovrebbero prestare attenzione?

Non mi piace pensare alle famiglie dei bulli, ma alle famiglie in generale, che a loro volta sono parte di comunità locali via via più ampie. Dobbiamo fare lo sforzo di uscire di modalità di azione basata sulla risposta alle urgenze, in maniera parcellizzata, ed iniziare ad abbracciare una modalità di pensiero e azione più sistemica e dialogica.

Hai dei suggerimenti da dare agli attori coinvolti in queste vicende per affrontare episodi di questo tipo?

Come dicevo prima, ascoltare questi ragazzi, vederli, restituire in maniera forte il fatto che loro valgono per la loro straordinaria unicità.

Alle famiglie e alle scuole, invece, il mio invito è quello di rendere chiaro, nelle loro comunicazioni e nelle loro azioni, che una persona vale ed è unica a prescindere dal proprio orientamento sessuale .. un modo semplice, ma potente è quello di usare una comunicazione che non dia per scontato l’eterosessualità di una persona, mai …

Come possiamo collaborare per far si che episodi come questi diventino sempre più ostracizzati?

Penso che le azioni da compiere debbano essere più che altro nella direzione di renderli sempre meno sensati ed attraenti. Come dicevo sopra, penso sia fondamentale lavorare con gli insegnanti, di ogni ordine e grado, e con coloro che formano gli insegnanti, nei contesti universitari e post universitari, affinché interiorizzino sempre più profondamente un cambio di premesse, tale da consentire una comunicazione, nell’accezione più ampia del termine, che veicoli il messaggio che anche le persone non eterosessuali sono presenti nelle loro teste, indipendentemente dal fatto che ci sia una persona esplicitamente glb.

 

Ringrazio di cuore Jimmy Ciliberto per la disponibilità nell’essersi prestato alle mie domande. Il tema naturalmente è vasto e ci torneremo ancora con altri interventi. Credo sia un ulteriore, importante passo per introdurre questo argomento in un dibattito che coinvolga più spazi possibili.

Se ci fossero persone interessate a testimoniare o a condividere la loro esperienza, naturalmente in forma assolutamente anonima (a meno che non desiderino il contrario!), possono contattarmi telefonicamente (3920008369) o per mail (fabrizioboninu@gmail.com).

Come sempre fatemi sapere che ne pensate.

A presto…

Fabrizio Boninu

Tutti i diritti riservati

MyFreeCopyright.com Registered & Protected

 

Vuoi ricevere tutti i post de LO PSICOLOGO VIRTUALE?

Iscriviti GRATUITAMENTE alla newsletter e riceverai ogni nuova pubblicazione direttamente sulla tua mail. 

​Per iscriverti, clicca su NEWSLETTER e segui le semplici istruzioni. ​

#Iononriparo (2)

just-love

–  Attaccare continuamente l’autoconsapevolezza del reprobo, tramite l’istigazione alla confusione, all’incertezza e all’insicurezza, la promozione di ogni dinamica di autosqualifica e l’imposizione di immagini degradate precostituite. Si lede in questo modo nelle persone omosessuali un diritto umano cruciale: quello di potersi valorizzare nelle forme affettive amorose che più corrispondono alla propria autenticità. Si impedisce al diverso di esprimersi alla pari con gli altri: è la strada maestra per raggiungere anche tutti gli altri obiettivi. In questo modo si impedisce al deviante – e ai suoi familiari – ogni alternativa esistenziale, sociale, etica e prima ancora psicologica. Egli deve vedere davanti a sé solo la distruzione di ogni prospettiva e del futuro, una completa mancanza di speranza e di senso, perdendo ogni sfiducia e aspettativa di bene.

–  Impedire in tutti modi che il soggetto elabori una visione alternativa positiva di sé e della propria affettività: ogni tecnica deve essere impiegata per rendere il soggetto incapace di operare un distacco dalla visione negativa in cui è cresciuto. Egli deve trovarsi così senza punti di riferimento, bandito e disprezzato dalla comunità di appartenenza, squalificato eticamente e psicologicamente e dunque leso nel proprio Sé. Deve arrivare ad autoaccusarsi di negare i valori di correttezza, di seguire le leggi di Dio, della natura, dell’ordine fecondo del mondo.

– Sottoporre le persone omosessuali – e la loro famiglie – a predizioni negative catastrofiche, imputando loro un destino maligno e infelice; e lanciare profezie di sventura perché fatalmente sia avverino. D’altronde, è facile fare profezie negative sul triste destino degli oppressi, perché distruggere le possibilità è assai più facile che costruirne. Ecco perché in questi testi c’è un’insistenza drammatica sulla disperazione e la negatività di ogni cosa che riguarda il gay, così come una massificazione deterministica. Perché se venisse fuori che tante sono le possibilità e le forme di vita, allora vorrebbe dire che differenti sono i destini che le persone omosessuali possono avere. E, dunque, è possibile sottrarsi al percorso nefasto che si vorrebbe loro imporre come destino. Addirittura, è possibile vivere serenamente. Che fine farebbero, allora, le minacce alle profezie apocalittiche così facilmente sollecitate? [1]

Divisione, contrapposizione, espulsione, istigazione, patologizzazione sono solo alcune delle caratteristiche di questo tipo di teorie che basano il loro successo sulla divisione tra una (presunta) normalità da perseguire e un’anormalità da colpire e ostracizzare. Questo bisogno di etichettamento porta a non considerare la storia dell’individuo, le sofferenze che, spesso per la colpevole repressione sociale che ancora circonda le scelte sessuali individuali, caratterizzano la sua vita e anzi, approfittando di questa debolezza e di questo bisogno di (presunta) normalità, cerca di instillare il bisogno di accettazione nel paziente insistendo su quanto potrebbe essere migliore una scelta sessuale che sia socialmente approvata e non repressa ed ostacolata e come questo potrebbe significare minore sofferenza per il soggetto stesso. Quest’ultimo, affidandosi e fidandosi del suo terapeuta, ritiene che una scelta di questo tipo possa essere preferibile e possa evitare alcune sofferenze sebbene sia una scelta che  si accompagna alla repressione e al rinnegare i propri istinti più naturali, più ‘normali’ proprio perché innati

É contro questo tipo di deriva patologizzante che ci siamo impegnati, mettendoci anche la faccia, per ribadire la scorrettezza di questo tipo di pratiche. Pressioni di questo tipo sono profondamente scorrette qualunque sia il tema, dal momento che il terapeuta non ha il compito di dire al suo paziente cosa debba fare/essere, quanto di cercare di capire con lui quali scelte siano più adatte nella sua vita.  E, non dimentichiamolo, costituisce una violazione profonda del Codice Deontologico degli Psicologi il quale, all’articolo 3, sancisce come lo psicologo è consapevole della responsabilità sociale derivante dal fatto che, nell’esercizio professionale, può intervenire significativamente nella vita degli altri; pertanto deve prestare particolare attenzione ai fattori personali, sociali, organizzativi, finanziari e politici, al fine di evitare l’uso non appropriato della sua influenza, e non utilizza indebitamente la fiducia e le eventuali situazioni di dipendenza dei committenti e degli utenti destinatari della sua prestazione professionale.

Insomma ancora una volta il rispetto della persona che ci si siede davanti dovrebbe venire prima di tutte le nostre considerazioni personali, morali o religiose che siano. Questa attenzione è premessa per me indispensabile per svolgere con correttezza e attenzione il delicato lavoro che abbiamo scelto di portare avanti. 

Come sempre chi volesse/potesse condividere la sua esperienza può farlo contattandomi per mail (fabrizioboninu@gmail.com) oppure commentando il post.  

A presto…

Fabrizio Boninu

[1] Rigliano, P., Ciliberto, J., Ferrari, F. (2012), Curare i gay?, Raffaello Cortina Editore, Milano, pp. 170-172

Tutti i diritti riservati 

MyFreeCopyright.com Registered & Protected

Vuoi ricevere tutti i post de LO PSICOLOGO VIRTUALE?

Iscriviti GRATUITAMENTE alla newsletter e riceverai ogni nuova pubblicazione direttamente sulla tua mail. 

​Per iscriverti, clicca su NEWSLETTER e segui le semplici istruzioni. ​

#Iononriparo (1)

just-loveQualche tempo fa io e la mia collega Carla Sale Musio, aderendo alla campagna nazionale di sensibilizzazione sul tema, abbiamo pubblicato la foto con la scritta #iononriparo. Molti contatti ci hanno chiesto cosa volesse dire quel cartello, a cosa si riferisse e cosa non riparassimo. La maggior parte delle persone pensava fosse legato al fatto che ‘non ripariamo i matti’, e che semplicemente aiutiamo le persone ma non le aggiustiamo. Sicuramente è vero che, nel senso letterale del termine, non ‘ripariamo’ nessuno, ma in realtà il focus di quella campagna era molto più specifico e si riferiva alla netta contrarietà che noi, e moltissimi altri colleghi, nutriamo nei confronti delle cosiddette teorie riparative nei confronti dell’omosessualità. Grazie a questa foto, mi sono reso conto che poche persone conoscono queste posizioni e sarebbe forse il caso di cercare di capire cosa siano e su quali princìpi si basino. Le cosiddette teorie riparative, dette anche terapie di conversione, sono terapie che hanno come finalità la negazione dell’orientamento sessuale dell’individuo e il suo riorientamento verso una sessualità percepita come normale, quindi sostanzialmente ed esclusivamente la sessualità eterosessuale. Le terapie di conversione basano la loro efficacia sulla repressione del proprio desiderio primario per l’assecondamento di un desiderio sessuale considerato più ‘normale’ o socialmente accettato. Gran parte di queste teorie sono sostenute da psicologi o terapeuti fortemente legati ad organizzazioni religiose, ottica che necessariamente altera da principio il lavoro con la persona omosessuale. Queste posizioni sono fortemente osteggiate dalle associazioni di psicologi e psichiatri, sia americani che europei, in quanto forzerebbero la terapia con il paziente verso esiti imposti socialmente e contribuirebbero all’associazione omosessualità=malattia, associazione rinnegata da tempo da tutte le più importanti organizzazioni internazionali di psicologi, nonché dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. 

Quali sono i princìpi sui quali queste teorie si basano? Quali sono le premesse che fondano questa classificazione tra una sessualità ‘accettata’ e una invece inaccettabile e da modificare? Questo lavoro è basato sulla disanima fatta nel testo Curare i gay?(in fondo al post, come sempre, trovate tutti i riferimenti bibliografici) che ha provato a classificare i presupposti metodologici dei quali questo tipo di teorie si fa forte:

– Contrapporre in modo rigido identità maschile e femminile, dentro l’unico ordine naturale possibile, quello eterosessuale. Dunque tutto ciò che si discosta da questo schema binario non può che essere patologia o peccato, più spesso tutti e due.

– Sottoporre l’omosessualità di cui il soggetto è malato a ogni sorta di denigrazione e squalifica – psicologica, etica, religiosa – e precludere al soggetto stesso ogni bene e valore in cui pure il soggetto crede e che gli viene imputato di negare per definizione a priori.

– Contrapporre in modo insanabile il bene e il male, secondo una logica “tutto o nulla”.

– Espellere l’omosessualità dall’Ordine dell’umanità: essa non esiste se non come patologia, chi vuole farne un’identità si contrappone ai principi e alle forme eterne in cui si incarna il progetto di Dio per l’umanità.

– Legittimare, non condannandolo, l’odio sociale, il disprezzo fino all’ostracismo, fino agli attacchi fisici – a partire dalla riprovazione fino all’espulsione da parte della propria famiglia; se il deviante è soggetto all’isolamento e all’emarginazione, che implica la mancanza di ogni supporto, questo è una conseguenza del suo essere. 

– Instaurare un vero e proprio processo di patologizzazione basato sulla disumanizzazione delle persone omosessuali, per arrivare a contestarne l’esistenza. Tale processo si svolge attraverso varie tappe: separare “gli omosessuali” da “i normali”; indicarne le tappe di una progressiva degenerazione; evidenziarne i segni patologici affinché i sani possano esercitare il proprio acume diagnostico; eliminare tutto ciò che contrasta con questa visione, fino a leggerne i segni positivi come contro reazione compensatore fraudolenta; costruire una visione catastrofica deterministica del loro destino; evitare sempre di analizzare il contesto in cui diversi sono costretti a vivere. Viene instaurato un circolo vizioso autogiustificantesi: dal metaforico si passa al corpo e poi al simbolico e quindi al comportamento. Dal disordine del desiderio si passa alla immoralità del comportamento, al danno provocato al proprio fisico, rintracciando in esso i segni che dicono la morbosa malvagità del gay, e poi di nuovo si giunge alla condanna psicologico-morale, stabilita definitivamente in sede etico-religiosa: i gay sono moralmente disonesti perché oggettivamente disordinati.

– Strutturare così un perfetto meccanismo di circolarità paranoica, che genera generalizzazione (“tutti gli omosessuali sono uguali”, cioè malati, ma anche “tutti i gay sono uguali”, cioè perversi), personalizzazione (ciò che vedo dei comportamenti è proprio come la persona è), insensatezza (per essere così devono per forza avere qualcosa di sbagliato), deresponsabilizzazione (se sono così è solo colpa loro). Quando si fa fatica a trovare ciò che si cerca, lo si suppone, e allora scatta il delirio di riferimento e di persecuzione: è il grande complotto della lobby gay, la congiura degli insospettabili corrotti contro gli innocenti.

 

– CONTINUA –

[1] Rigliano, P., Ciliberto, J., Ferrari, F. (2012), Curare i gay?, Raffaello Cortina Editore, Milano, pp. 170-172

Tutti i diritti riservati 

MyFreeCopyright.com Registered & Protected

 

Vuoi ricevere tutti i post de LO PSICOLOGO VIRTUALE?

Iscriviti GRATUITAMENTE alla newsletter e riceverai ogni nuova pubblicazione direttamente sulla tua mail.

 

​Per iscriverti, clicca su NEWSLETTER e segui le semplici istruzioni. ​

Storie di ordinaria sofferenza

Storie di ordinaria sofferenzaUn giorno come tanti, in studio. Il penultimo appuntamento di un martedì è con un ragazzo nuovo. Lo chiameremo Luca.

Luca, per quanto odi questo termine, è un ‘normale’ ragazzo di 12 anni. Va bene a scuola, fa sport, è integrato nel gruppo dei suoi amici. Apparentemente non ha nulla di cui parlare e, perlomeno nei primi istanti, mi chiedo cosa ci faccia li con me. Avverto un non detto, una paura che aleggia sopra la normalità della sua vita di dodicenne. Mi  racconta tante cose, è aperto e si fida della mia curiosità, mi racconta delle sue passioni, mi introduce ai suoi sentimenti. Come se stesse entrando in un territorio minato, avverto il cambio di clima emotivo e, mentre inizia a parlare del fratello spiazzandomi, come solo gli adolescenti riescono, inizia a piangere.

Piange molto, piange lacrime amare che cerca di nascondere. Piange e io non so che fare. Non riesco a capire cosa lo abbia fatto piangere, non riesco a capire che cosa lo stia spaventando tanto, non riesco a capire cosa stiano esprimendo quelle lacrime. Non so se fermarmi o se chiedergli cosa non vada, se interpreterà meglio il mio silenzio o le mie parole. Alla fine è lui a spezzare il momento. Sempre continuando a piangere, mi dice che è così triste perché una persona ha apostrofato suo fratello col termine ‘frocio’. Ci sta male, soffre per la cattiveria delle persone e sente di non essere in grado di proteggere il fratello dall’insensibilità altrui.

Mi trovo subito a pensare cosa fare. Cercare di fargli capire quanto le persone a volte siano insensibili e non si accorgano di quanto possano fare male? Cercare di fargli comprendere quello che sente? Il mio voler fare non mi permette bene di accorgermi di ciò a cui sto assistendo: il mio spiazzamento di fronte alla bellezza, alla pulizia dei sentimenti di un ragazzo che piange per il modo ignobile in cui viene apostrofato il fratello. Mi inorgoglisce pensare di avere a che fare con una persona così bella. Penso che se ci fossero tante persone così, il mondo sarebbe un posto migliore, le persone baderebbero di più a non ferirsi. La verità è che mi emoziona. Mi emoziona profondamente. Mi fa, per l’ennesima volta, amare profondamente quello che faccio, mi fa amare il mio privilegio di poter assistere, spesso nascosta dietro alla sofferenza e alle lacrime, alla bellezza delle persone. Mi emoziona profondamente poter pensare al grande insegnamento che, magari del tutto inconsapevolmente, questo ragazzo mi sta dando. Mi emoziona profondamente la sensibilità con la quale riesce ad aprirsi davanti ad uno sconosciuto e comunicare in un solo istante le paure che prova. Mi emoziona e lo ringrazio per questo.

Sono convinto che condividere un disagio di questo tipo sia profondamente terapeutico, perché diamo la possibilità a noi stessi di far emergere i sentimenti che temiamo e che non sappiamo come gestire. Ed è profondamente terapeutico trovare una persona che non rimane indifferente a ciò che ti ferisce.

Di un’altra cosa sono convinto: di quanto profondamente mi rattristi che un ragazzo debba piangere perché le persone non accettino che il fratello potrebbe essere omosessuale. Per l’ignoranza che ancora circonda le scelte di vita che una persona può (o può non) fare. Per la superficialità con la quale le persone spesso feriscono. Non ho soluzioni per quello che mi racconta, non posso prepararlo a proteggere meglio il fratello di quanto non faccia, ne a cambiare le persone. Posso solo invitarlo a comunicare quello che prova, in primis al fratello stesso, lasciando che sappia che l’epiteto che gli rivolgono lo colpisce molto, gli provoca tutta una serie di emozioni. E che sappia che quello che prova o quello che deve subire il fratello non lascia tutti indifferenti.

A cominciare da me. 

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

Tutti i diritti riservati 

MyFreeCopyright.com Registered & Protected

L’eterocentrismo: le sentinelle in piedi

L'eterocentrismo le sentinelle in piediLa riflessione di oggi parte da una fenomeno abbastanza recente ma che sta incontrando una discreta rilevanza mediatica: le cosiddette sentinelle in piedi. Il 5 Ottobre abbiamo assistito alla nuova manifestazione, in diverse piazze d’Italia, dei rappresentanti di questa associazione. Ma chi sono le sentinelle in piedi e qual è il loro obiettivo? Come riporta il sito nazionale sentinelle in piedi è una resistenza di cittadini che vigila su quanto accade nella società e sulle azioni di chi legifera denunciando ogni occasione in cui si cerca di distruggere l’uomo e la civiltà. Ritti, silenti e fermi vegliamo per la libertà d’espressione e per la tutela della famiglia naturale fondata sull’unione tra uomo e donna.
La nostra è una rete apartitica e aconfessionale: con noi vegliano donne, uomini, bambini, anziani, operai, avvocati, insegnanti, impiegati, cattolici, musulmani, ortodossi, persone di qualunque orientamento sessuale, perché la libertà d’espressione non ha religione o appartenenza politica, ci riguarda tutti e ci interessa tutti.
[1]

Cosa significhi nella loro visione distruggere l’uomo e la civiltà è facilmente riassumibile: sono contrari a qualunque tipo di unione che non sia tra uomo e donna. La loro è una visione prettamente eterocentrica, fondata sull’idea che l’unione eterosessuale sia l’unica possibile e da tutelare a discapito di qualunque altra forma relazionale. Come qualunque ‘centrismo’ anche questo è basato sul presupposto che la propria posizione sia migliore delle altre. Mossi dall’intento di voler preservare la famiglia ‘naturale’ (sulla ridefinizione dell’aggettivo naturale in una società come la nostra ci sarebbe da scrivere un trattato!), le sentinelle in piedi lottano perché altre persone non godano degli stessi diritti civili dei quali gode una famiglia eterosessuale. Sono sempre più convinto del fatto che, se una mobilitazione è contro i diritti di qualcun’altro, abbia come presupposti delle premesse discutibili.

Il ‘centrismo’ più famoso, in psicologia, è sicuramente l’egocentrismo. Userò le parole di Claudio Foti, psicologo e psicoterapeuta, per descrivere cosa sia l’egocentrismo e tracciare un parallelismo tra i due ‘centrismi’ citati:

l’egocentrismo non coincide con l’affermazione sana del Sé, anzi l’egocentrismo rivela un qualche fallimento nel processo di integrazione e di espansione del Sé. L’atteggiamento egocentrico del soggetto con carenze narcisistiche, che rincorre conferme e puntelli esterni alla propria grandiosità immaginaria, rivela un deficit di autostima, un’incompiutezza profonda della soggettività, una mancanza di autonomia vitale. Le cause profonde del suddetto deficit va ricercata peraltro nella frustrazione traumatica di alcuni bisogni di valorizzazione e di integrazione del Sé che non sono state soddisfatte nell’infanzia.

(…) L’atteggiamento egocentrico del soggetto alla ricerca avida di gratificazioni immediate per sé, insensibile agli interessi delle persone che gli stanno a fianco rinvia ad una debolezza del sé. L’Ego del soggetto egocentrico non è un’ego forte, ricco e vitale, bensì un Ego impoverito dall’incapacità di trarre soddisfazione da quelle dimensioni dell’esistenza che presuppongono il rispetto per l’altro. Questo soggetto non riesce a percepire e ad integrare bisogni fondamentali, che lo spingerebbero a valorizzare la dimensione relazionale e comunicativa dell’essere umano, una dimensione che implica la sensibilità e la capacità di identificazione nei confronti dell’altro. [2]

L’eterocentrismo, così come l’egocentrismo, si accompagna al ritenere come degna di comprensione e accettabile solamente la propria idea di realtà e, nel caso specifico, a non ritenere accettabile l’idea che esistano altre realtà familiari, altre idee di famiglia, altre idee di amore che non sottraggono, ma anzi aggiungono complessità ad una dimensione, la vita relazionale, nello stesso tempo privata e sociale, intima e pubblica. E credo sia chiaro, inoltre, come questa visione ego/eterocentrica non lasci spazio alcuno alla dimensione relazionale, alla sensibilità e alla capacità di identificazione con l’altro. Ammantati da un apparente savoir-faire silente, le sentinelle in piedi portano avanti un messaggio univoco e discriminatorio: la mia realtà è migliore della tua! Come per l’egocentrismo, anche l’eterocentrismo così estremizzato non può non essere indice di debolezza, di intransigenza, di rigidità di visione, un monolite che non lascia spazio a dubbi, alle domande, all’altro. La visione eterocentrica è, in’ultima analisi, profondamente egoistica nella prospettiva monodimensionale che persegue. 

Ogni ampliamento dei diritti non dovrebbe essere vissuto come un pericolo, non dovrebbe mobilitare sentinelle che veglino, non dovrebbe semplicemente costituire motivo di scontro. Se viene vissuto in questo modo, sarebbe interessante chiedersi il perché del senso di minaccia avvertito dall’altro, il motivo di tanta rigidità e di tanta chiusura. Probabilmente aiuterebbe a far luce sulla necessità di tanta intransigenza.

Spero arrivi un momento nel quale le sentinelle, continuando a leggere (magari anche libri che confutino tesi diverse rispetto a quelle nelle quali credono!), possano finalmente mettersi sedute e godersi l’evoluzione della società senza sentirsi minacciate. Se poi da silenti diventassero dialoganti sarà fatto un passo in più per cercare di superare lo scoglio di egocentrismo che preclude la vista di ogni posizione diversa dalla propria.

 

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

[1] www.sentinelleinpiedi.it

[2] Centro Studi Hansel e Gretel (2008), Adultocentrismo: il mondo dominato dagli adulti, Sie Editore, Torino, pp. 8-9

 

Tutti i diritti riservati 

MyFreeCopyright.com Registered & Protected

 

Io censuro

Io censuroRicevo, qualche mese fa, un commento ad un mio articolo riguardante i terapeuti riparatori. In questo post sostenevo la pericolosità, per l’intera categoria professionale, dei colleghi che, reputandosi depositari di una verità da imporre agli altri, si trovano a voler cambiare e a voler guarire aspetti della personalità che da tempo sono stati derubricati nella comunità scientifica dalle categorie di patologie mentali.  (Il post è stato pubblicato il 14.07.2013. Clicca Il terapeuta riparatore per leggere l’articolo). Nel commento mi si accusa di “nascondere e sottrarre risposte”, perciò ho pensato che la pubblicazione integrale, ed una integrazione, dello scambio non possa che fugare i possibili dubbi di qualsivoglia censura operata da parte mia.

Questo il commento: Repubblica quest’anno ha pubblicato una lettera di un ragazzo “omosessuale” che “riteneva la sua condizione una sfortuna e diceva di avere pensato al suicidio. E’ UNO SCANDALO che a questi ragazzi non venga detta la verità e cioè che Jung e Adler, i pilastri della psicananalisi curavano l’omosessualità. Quanto agli psicanalisti che l’hanno curata e la curano dal 1950 al 2014, e che hanno scritto abbondantemente su questo, un piccolo elenco – MOLTO parziale – è il seguente: EDMUND BERGLER, ELIZABETH MOBERLY, CHARLES SOCARIDES( HOMOSEXUALITY A FREEDOM TOO FAR, IRVING BIEBER( HOMOSEXUALITY A PSYCHOANALITIC STUDY), BENJAMINK KOFFMAN , JANELLE HALLMAN, DEAN BYRD, RICHARD COHEN ( COMING OUT SRAGHT), JOE DALLAS, BOBBY MORGAN, STANTON JONES, JEFFREY SATINOVER, JOSEPH NICOLOSI (SHAME AND ATTACHMENT LOSS), JOHN LAWRENCE HATTERER( CHANGING HOMOSEXUALITY IN THE MALE),ETC…

SPERO CHE PRIMA O POI QUALCUNO CHIEDA GIUSTIZIA DELL’OCEANO DI CONOSCENZE E INFORMAZIONI CHE GLI PSICOLOGI – COME LEI – HANNO SISTEMATICAMENTE NASCOSTO E SOTTRATTO AI RAGAZZI IN CERCA DI RISPOSTA.

Questa la mia risposta: Salve Federico, benvenuto. Guardi l’unico scandalo di questa sua mail è la scortesia del tono che usa. E’ a conoscenza del fatto che scrivere tutto in maiuscolo equivale ad urlare? E ancora sostiene che io nasconda informazioni. Le sembra che se volessi nascondere informazioni creerei un blog pubblico? O pubblicherei il suo commento? Ma veniamo a noi. Capisco la spinosità dell’argomento, e sono a conoscenza del fatto che molti miei (ben più illustri) colleghi hanno sostenuto la curabilità dell’omosessualità (con risultati che definire discutibili è un puro eufemismo). Non conosco le loro motivazioni, anche se per molti di loro giocò un ruolo rilevante la fede o l’età. Elizabeth Moberly era teologa per esempio. Parliamo di come una realtà personale venga traslata su questioni sociali. Ben altro numero di colleghi ha di fatto smentito una volta per tutte questo delirio patologizzante, depennando definitivamente l’omosessualità nel 1973 (41 anni fa) quando l’American Psychiatric Association rimosse l’omosessualità dal DSM (il Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders), negando così la sua precedente definizione di omosessualità come disordine mentale (fonte Wikipedia).

Tutto il resto sono illazioni non più approvate dalla comunità scientifica. Lei è naturalmente libero di credere ciò che vuole, ma la differenza tra me e lei è che io non voglio imporre le mie risposte su quella che è la vita di un’altra persona per cui l’unica cosa che mi sento di fare è provare un profondo rispetto. E stia pur certo che nessuna mia risposta influenzerà le scelte delle persone che ho la fortuna di incontrare nel mio lavoro. Grazie per l’intervento!

Potremmo aggiungere un riferimento particolare su Joseph Nicolosi, uno dei massimi esponenti delle cosiddette terapie riparative. Nicolosi, psicologo statunitense, è noto essenzialmente per le sue teorie riparative sull’omosessualità. Nicolosi ha espresso la strategia nella sua interezza, ne ha indicato scopi, metodi ed esiti, rispetto ai quali è molto più lucido dei suoi seguaci, preferendo al termine ‘guarigione’ quello più ambiguo e confusivo di ‘cambiamento’.  Le sue posizioni sono inequivocabili, al contrario di quelle dei nuovi terapeuti fautori della ‘terapia dell’identità sessuale’, che sembrano prendere le distanze da lui, apparendo meno drastici e netti, ma in realtà sostengono la promozione dell’eterosessismo sociale (e di conseguenza l’omonegatività che ne è corollario). Nicolosi basa il suo insegnamento sulla pretesa di essere ‘scientifico’, laico persino, sottacendo le premesse fondamentaliste, da lui poste come un dato di fatto indiscutibile. Da lui tutti i vari movimenti, religiosi e no, hanno preso ispirazione e alimento. [1]

Il guaio delle teorie riparatorie è che, avendo come premessa il fatto di sapere cosa sia o non sia giusto per l’altro, cercano di imporre una soluzione, una ‘cura’ per l’appunto su quello che è il sentire dell’altro. Non avendo alcuna verità in tasca, penso semplicemente di poter cercare di comprendere, più che cambiare o guarire, la persona che mi si siede davanti ed, in generale, le persone che incontro. Diffido di coloro che pensano di poter guarire o modificare l’altro perché non condivido nulla della loro premessa epistemologica: io so cosa è giusto fare per te. Se pensate che debba fare questo non rivolgetevi a me perché, semplicemente, non sono  in grado di (e non voglio!) farlo! E spero che questo post chiarisca una volta di più come la censura non mi appartenga, per quanto le idee o le posizioni di cui si parla siano agli antipodi dal mio modo di pensare.

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

[1]Rigliano, P., Ciliberto, J., Ferrari, F. (2012), Curare i gay?, Raffaello Cortina Editore, Milano, pag. 15

Tutti i diritti riservati

MyFreeCopyright.com Registered & Protected

Il terapeuta riparatore

Il terapeuta riparatoreIl post di oggi è dedicato all’analisi di una figura purtroppo diffusa in terapia: quello del terapeuta riparatore. Il terapeuta riparatore è il terapeuta che, dimenticandosi la necessaria distanza dalla vita dell’individuo con cui si trova a lavorare, si schiera per una soluzione e, forte della sua posizione all’interno della terapia stessa, spinge affinché il paziente attui la soluzione da lui suggerita. Questo tipo di situazione è molto più frequente di quanto non sembri, soprattutto per situazioni che richiederebbe una maggiore apertura mentale e una maggiore capacità collaborativa del terapeuta come per esempio, quelle terapie per le quali la persona, sentendo molto forte e toccante vivere la sua omosessualità, chiede al terapeuta di guarirlo. L’aspetto più pericoloso avviene quando il terapeuta prende per buona e cerca di soddisfare questa richiesta. Questo tipo di situazioni sono, secondo me esecrabili per due ordini di motivi: innanzitutto la terapia non si svolge correttamente, dato il peso che le convinzioni, sociali, morali o religiose del terapeuta stesso, in una parola le sue convinzioni personali, vengono adoperate ed utilizzate per stabilire arbitrariamente ciò che è giusto oppure no per la vita di un altro individuo; in secondo luogo ratifica e prosegue, in una vera e propria spirale auto perpetuante, lo stereotipo per cui stili di vita bollati a lungo come non ‘normali’ siano vere e proprie malattie, quando l’omosessualità da ormai 39 anni, è stata derubricata definitivamente anche dai manuali diagnostici che noi professionisti utilizziamo nella nostra pratica clinica.

Eppure, nonostante queste premesse, è possibile trovare professionisti che pensano sia possibile curare quella che non è una malattia, assecondando più i desideri reconditi del terapeuta piuttosto che riuscendo ad accogliere quelle che sono le istanza più intime di accettazione e di rispetto che il paziente va cercando, e anzi, disconoscendole e disconfermandole ancora una volta. Vi riporto, a questo proposito, un brano tratto da un testo che affronta molto bene il punto di vista del quale stiamo parlando:

Dopo la derubricazione dell’omosessualità  come diagnosi clinica, il DSM-IV del 1974 (il manuale diagnostico usato per fare le diagnosi) prevedeva la nuova categoria dell'”omosessualità egodistonica”: il disagio e la sofferenza rispetto al proprio orientamento sessuale venivano considerati un disturbo psichiatrico. Questa categoria clinica venne in seguito rimossa nel 1987, quando si comprese che l’egodistonia può far parte del percorso evolutivo di un individuo omosessuale in un contesto eterosessista. Proprio sul concetto di egodistonia si soffermano i terapeuti riparativi. Questi permangono impermeabili alle numerose ricerche e dichiarazioni delle associazioni dei professionisti della salute mentale. Le cosiddette ‘terapie di conversione’ sono residui del paradigma patologico (…), secondo cui gli ‘omosessuali non gay’, coloro i quali non riescono a conciliare l’orientamento sessuale con il sistema di valori, possono cambiare il loro orientamento sessuale. E’ il vecchio concetto di egodistonia rispolverato, insostenibile alla luce delle oramai assodate acquisizioni scientifiche e deontologicamente impraticabile a fronte dei pesanti effetti sulla salute mentale dei soggetti che vi si rivolgono. In questo tipo di trattamento direttivo-suggestivo il terapeuta rinuncia alla sua posizione di neutralità, di chi interroga e si interroga insieme al paziente, diventando mero esecutore della richiesta e propugnatore di norme morali e religiose.” [1]

Credo che il massimo che possiamo dare alle persone con le quali abbiamo la fortuna di lavorare, sia accoglierle e rispettarle. Comprenderle più che cambiarle. Ascoltarle più che curarle. Non è semplicemente una proposta di buon senso, visto che anche deontologicamente non potremmo imporci, ne imporre la nostra volontà o le nostre convinzioni sui nostri pazienti. Può essere vero che ci siano temi coi quali può non piacere lavorare ma, in questo caso, sta alla professionalità del terapeuta riconoscerlo ed esplicitare al paziente stesso la sua inidoneità per lavorare su quella tematica. Chiunque voglia curare ciò che non è in grado di rispettare non è semplicemente in grado di fare questo mestiere, perché è la prima persona a non avere conoscenza di se stessa.

E se una persona non è in grado di essere chiara con se stessa come può aiutarne un’altra?

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio

[1] Chiari, C., Borghi, L. (2009), Psicologia dell’omosessualità, Carocci, Roma, pp. 173-174

Tutti i diritti riservati
MyFreeCopyright.com Registered & Protected

Omogenitorialità (3)

Omogenitorialità (3)Ancora una volta ci troviamo, perciò, a dover sfatare un mito che è basato più su antichi preconcetti, o su altre posizioni, che legato a fatti concreti. Gli studi dimostrano che non esiste differenza tra i bambini cresciuti in diversi tipi di famiglie. In questo senso anzi tali dati evidenziano inoltre come crescere con due genitori dello stesso sesso non sia un fattore di rischio di per sé ma addirittura possa rappresentare un punto di forza. [1] Il possibile punto di forza sarebbe, indubbiamente, l’elasticità mentale. Cresciuti in un contesto ‘nuovo’ o comunque spesso non considerato come tradizionale soprattutto in alcuni paesi del mondo, i bambini cresciuti all’interno di famiglie omogenitoriali si trovano, fin da piccolissimi, a dover fare i conti col ‘diverso’ e per questo si allenano ad elaborare strategie che li renderanno più facilmente adattabili nella loro vita adulta.

Naturalmente, c’è un altro lato della medaglia che deve necessariamente essere considerato. Le famiglie omogenitoriali si trovano spesso a dover vivere in un contesto che non solo non le accetta ma le ostracizza come qualcosa di diverso e di strano. Questo fa si che la famiglia si trovi a dover vivere in un contesto più povero socialmente e, se non ha provveduto a crearsi un contesto sociale di supporto, rende problematica o solitaria la vita di queste famiglie. Tutto questo alla lunga può avere ripercussioni sulla vita della famiglia stessa quando, dal momento che risulta difficile condividere le proprie tematiche familiari con altri, si possono innescare situazioni conflittuali tra i genitori che alla lunga possono sfociare in situazioni di disagio. La necessità di un supporto sociale più ampio è il motivo per cui spesso, dall’esterno, le comunità omosessuali sembrano dei mondi a parte, come se fossero separate da un contesto sociale più ampio. E’ chiaro, invece, che se il contesto sociale fosse accettante e non giudicante si aprirebbero più possibilità di relazione tra diversi tipi di famiglie cosa che non sembra accadere quando il contesto sociale più ampio è, come detto, non accettante o giudicante.

Insomma la differenza, alla lunga, è fatta da tutti noi. Nel momento in cui questa realtà sarà vista semplicemente con una variante possibile della vita familiare, e non come un contesto potenzialmente pericoloso per far crescere un bambino, cambierà la percezione stessa della realtà e non verrà più avvertita come una scelta destabilizzante per la società. Mi rendo conto come questo cambio di prospettiva non sia per niente immediato o facile perché comporta la ristrutturazione di ciò che fino ad adesso è stato definito come famiglia. Ma, a mio avviso, è necessario iniziare a sfatare tutti quei falsi miti e quelle false immagini che rendono il confronto tra realtà diverse apparentemente impossibile. Molti di quelli che consideriamo passi avanti ed evoluzioni del nostro mondo sono stati ridicolizzati e derisi, ed ora sono consideriamo elementi irrinunciabili e fondamentali della nostra società. Pensate semplicemente a quello che si diceva della possibilità di concedere la possibilità di voto alle donne. Concedere loro il voto avrebbe portato alla fine della nostra società. Non mi sembra che niente di tutto questo sia avvenuto e anzi, la possibilità che le donne votino ha contribuito all’avanzamento dell’intera società.

Quando a guidarci è il pregiudizio l’unica strada percorribile è la chiusura. Un senso unico che porta al giudizio e all’esclusione. E’ necessario screditare tutto questo, cercando di passare dal giudizio alla comprensione. E il primo passo verso la comprensione è quello di guardare le cose per ciò che sono non facendosi guidare dal preconcetto o dalla paura che esse suscitano in noi. 

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio

[1] Chiari, C., Borghi, L. (2009), Psicologia dell’omosessualità, Carocci, Roma, pag. 28

Tutti i diritti riservati

MyFreeCopyright.com Registered & Protected

Omogenitorialità (2)

Omogenitorialità (2)La differenza allora può risiedere in quei due semplici termini: processi e strutture. Più che una questione di mere strutture la genitorialità sarebbe una questione di processi. Quale potrebbero essere le differenze tra i due termini? Non stiamo parlando di una differenza di valore (una è meglio dell’altra) quanto di una differenza di organizzazione: il termine struttura rimanda a qualcosa di statico, di immobile, qualcosa legato più al ruolo, il termine processuale ha a che fare con qualcosa in divenire, in costruzione, più legato alla funzione piuttosto che al ruolo. Un esempio renderà il discorso più concreto. Poniamo il caso di una donna sposata, con figli che improvvisamente rimane vedova. La funzione genitoriale strutturale vorrebbe che lei facesse da madre e non potesse in nessun caso fare le veci del genitore mancante. Nella realtà, invece, succede spesso che un genitore si accolli anche la funzione del genitore mancante, che si accolli l’intero processo della vita familiare. Che poi ci si riesca o no è un altro discorso. Quello che vorrei qui rimarcare riguarda la fluidità dei processi che ha a che fare con diverse situazioni che, nel corso della vita, possono portare alla ridefinizione delle funzioni in seno alla famiglia. Questa fluidità fa parte di tutte le famiglie, fa parte del naturale processo di cambiamento insito nella vita stessa. E’ la capacità di adattamento alle mutate condizioni che fa la differenza. E’ il processo, dunque, a fare una buona genitorialità, non la struttura.

Un altro dubbio che spesso nasce nel caso specifico dell’omogenitorialità riguarda invece la possibile differenza tra lo sviluppo dei bimbi cresciuto in una famiglia eterosessuale e i bambini cresciuti in una famiglia omosessuale. Anche in questo caso, a discredito delle tesi contrarie, possono essere riportati i risultati ottenuti in vari studi condotti sull’argomento.  

Gli studi che hanno messo a confronto sia il funzionamento genitoriale sia il benessere dei bambini cresciuti in famiglie omogenitoriali e in famiglie eterosessuali (…) evidenziano stili di funzionamento appropriati indipendentemente dalle diverse tipologie di composizione familiare. Nel caso specifico delle famiglie con coppia omosessuale, l’interesse dei ricercatori è volto a esplorare se e come l’orientamento sessuale di uno o entrambi i genitori possa influire su alcune variabili importanti per la crescita dei minori quali: lo sviluppo dell’identità sessuale e dell’identità di genere (identificazione di sé come maschio o femmina), l’interiorizzazione dei ruoli di genere (le aspettative circa come comportarsi in quanto uomini o donne) e dell’orientamento sessuale; l’adattamento emotivo e comportamentale; le relazioni sociali e, infine, il funzionamento cognitivo. A questo proposito le ricerche hanno trovato che i bambini cresciuti con genitori omosessuali presentano le stesse caratteristiche di bambini di età analoga cresciuti con genitori eterosessuali; condividono cioè con i loro coetanei le stesse probabilità di sviluppare un orientamento omo o eterodiretto: identificarsi con maschi o femmine, comportarsi coerentemente con il proprio genere percepito, avere un adeguato funzionamento cognitivo e sviluppare funzionali processi di sviluppo emotivo, sociale e comportamentale[1] 

Per una bibliografia completa vi rimando al testo citato. Citare singolarmente tutti i riferimenti avrebbe a mio avviso reso il testo poco scorrevole. 

– Continua –

[1] Chiari, C., Borghi, L. (2009), Psicologia dell’omosessualità, Carocci, Roma, pp. 110-111

Tutti i diritti riservati 

MyFreeCopyright.com Registered & Protected

Omogenitorialità (1)

Omogenitorialità (1)Il post di oggi è dedicato ad uno di quei temi che sembra suscitare sempre perplessità e discussione ma che, se si ha la voglia di interrogarsi e di porsi delle domande, rimane un argomento per il quale il confronto sembra alimentato più da pregiudizi che da dati oggettivi. Oggi voglio provare con voi ad esplicitare questi dati oggettivi, far parlare loro piuttosto che il pregiudizio. L’argomento è: può un bambino che cresce con genitori dello stesso sesso crescere ‘bene’? Stiamo parlando di omogenitorialità, un aspetto della società che sta iniziando a prendere piede, stante la totale mancanza di legislazione da parte dello Stato. Nonostante questo vuoto normativo, nelle ragioni del quale non entreremo, si diffondono sempre più famiglie che sono lo specchio dei tempi nei quali volenti o nolenti viviamo, una società nella quale la famiglia è ben lontana dallo stereotipo che continuano ripetutamente a propinarci, padre madre figlio maschio e figlia femmina, quando la realtà parla di famiglie ricostituite, famiglie allargate, famiglie monogenitoriali, famiglie adottive ecc. Eppure, quando si tratta di affrontare il tema della genitorialità, ci si domanda se una coppia di genitori dello stesso sesso sia adatta a crescere un bambino. Mai che questi dubbi sfiorino le migliaia di famiglie eterosessuali nelle quali ai genitori, per il solo fatto di essere genitori biologici del bambino, credo non venga mai domandato se siano o meno adatti a crescere il loro figlio. E sarebbero migliaia gli esempi che testimonierebbero dell’incapacità di genitori eterosessuali di svolgere le funzioni genitoriali.

Qual è allora la paura più grande rispetto alle famiglie omogenitoriali? Diciamo che il dubbio più grande riguarda il fatto che un figlio (o una figlia naturalmente) cresciuti all’interno di una famiglia con genitori dello stesso sesso, non favorisca l’identificazione nel bimbo col genitore dello stesso sesso e possa farlo crescere in maniera non adeguata. Il dubbio tradotto in termini pratici è che da coppie omosessuali possano ‘svilupparsi’ figli omosessuali. Se questa teoria fosse vera, non si capirebbe come possano nascere figli omosessuali in coppie etero. Lo sviluppo dell’identità di genere è qualcosa di ben più complesso di genitori etero=figli etero e viceversa. E’ uno sviluppo che coinvolge la formazione dell’identità dell’individuo, che ha come figure di identificazione non solamente i suoi genitori ma anche altri significativi per il bambino stessoSarebbe riduttivo pensare che il bimbo sia emanazione dei soli genitori vivendo la famiglia stessa in un contesto sociale più ampio.

Un altro punto dolente dell’argomento ha a che fare col rapporto che genitori omosessuali hanno coi loro figli. La posizione più comune è quella di coloro che non vogliono la possibilità per coppie omosessuali di adottare dei bambini. Ma come ci si dovrebbe comportare con i figli naturali? Mi spiego meglio: una donna ha dei figli con un uomo, suo marito. Dopo alcuni anni di matrimonio la coppia ha problemi. Si separano e la donna va a convivere con quella che diventa a tutti gli effetti la sua compagna. Quale sarebbe la posizione di coloro che non possono tollerare l’idea dell’omogenitorialità? Si dovrebbero portare via i figli alla donna? Affidarli al padre? O comunque bisognerebbe garantire il legame col genitore biologico per quanto abbia uno stile di vita ostracizzato a livello legislativo? E’ una questione che non sembra mai interessare coloro che si occupano di questo argomento. Credo che una delle prime cose che dovremmo fare a questo punto è quello di cercare di ridefinire il concetto stesso di genitorialità. Stante tutte le molteplici forme attraverso cui si può organizzare una famiglia, che cosa rende due persone due genitori? Vi riporto il passaggio di un testo per me molto esplicativo sulla questione: in questo senso il concetto stesso di genitorialità viene ridefinito. La funzione genitoriale non può più essere riduttivamente ricondotta ai legami di sangue (cosa che non si riscontra nelle famiglie con figli adottivi), alla presenza di entrambi i genitori (cosa che non pertiene nelle famiglie monogenitoriali) o alla presenza di un unico nucleo accudente (cosa che non avviene, ad esempio, nelle famiglie ricomposte). Una genitorialità funzionale basata sui processi più che sulle strutture, allora, dipende dalla capacità dei genitori di proteggere i figli in modo stimolante, insegnare loro il limite senza soverchiare, favorire l’autonomia nell’interdipendenza e affrontare i conflitti in modo cooperativo (Fruggeri, 2005). [1]

– Continua –

[1] Chiari, C., Borghi, L. (2009), Psicologia dell’omosessualità, Carocci, Roma, pag. 110

Tutti i diritti riservati

 MyFreeCopyright.com Registered & Protected

Succede…

Succede...Succede. Ogni tanto succede. Ogni tanto succede che un Paese faccia passi avanti verso una ‘normalità’ da molti agognata e percepita come non più rinviabile. Talvolta succede anche in Italia. Peccato che, come spesso avviene, questo passo avanti venga fatto dalle sentenze, perché la classe politica, così spesso indegna rappresentante di questo Paese, non sia ancora riuscita a dare un benché minimo indirizzo sociale a cambiamenti che ormai avvengono da tempo. Di cosa sto parlando? Della ormai famosa, per molti famigerata, sentenza della Corte di Cassazione che stabilisce come, in una causa per l’affidamento di un figlio, il fatto che la mamma conviva con una donna, sua compagna, non costituisca motivo per negarle la custodia e anzi, riconosce che sia fondamentalmente un pregiudizio” il fatto che “sia dannoso per l’equilibrato sviluppo del bambino il fatto di vivere in una famiglia incentrata su una coppia omosessuale”. Vi rinvio a questo link per una lettura dell’articolo apparso sul sito di Repubblica. La corte riconosce così che non ci sono gli strumenti per affermare che un bimbo con una coppia di genitori dello stesso sesso stia ‘peggio’ che in una coppia eterosessuale. E aggiungo che non ci sono gli strumenti neanche per affermare che, altro pregiudizio da sfatare, i figli di una coppia omosessuale crescano inevitabilmente con problemi di identificazione, avendo entrambi i genitori dello stesso sesso, che diventino cioè da grandi omosessuali a loro volta. Anche perché, se la stessa logica ferrea fosse applicata su coppie eterosessuali, non si capirebbe come da coppie eterosessuali nascano figli omosessuali. Naturalmente è partito l’apriti cielo da tutte quelle associazioni che si battono per il riconoscimento di un unico assetto familiare e che non riescono neanche a contemplare le diverse sfaccettature che i rapporti tra le persone possono avere. Anche questa volta capofila della battaglia contro, è stato il Vaticano che, con la consueta attenzione, delicatezza, rispetto e riguardo per la vita delle persone coinvolte in vicende simili, per bocca di un suo alto rappresentante arriva a dire che ‘l’adozione dei bambini da parte degli omosessuali porta il bambino a essere una sorta di merce’ ( Vincenzo Paglia, presidente del dicastero vaticano per la famiglia, arcivescovo, Corriere della Sera, 13.01.13). A parte che non si capisce per quale motivo i bambini diventino merce in caso di affidamento a famiglie omosessuali, specificamente nel caso in questione, ci si è concentrati  sul fatto che il padre del bambino fosse così inaffidabile che la Corte abbia scelto il ‘male minore’. E’ una bugia.

La Cassazione non ha optato per il male minore ma ha compiuto una scelta strategica basata sulla prospettiva migliore per il ragazzo, decretando ancora una volta, se mai ce ne fosse bisogno come  non ci sono certezze scientifiche a questi preconcettiAnzi a dire il vero esiste ormai una mole molto ampia di studi [1] che dimostra esattamente il contrario, e cioè che non esistono differenze nello sviluppo di bambini in coppie eterosessuali od omosessuali a nessun livello. Eppure non succede così spesso che questo sia un tema che la nostra classe politica abbia il coraggio di affrontare. E anche adesso, che ci ritroviamo sotto elezioni, e dovremmo prendere una decisione su chi guiderà questo paese, non sentiamo mai come intendono affrontare e risolvere alcuni temi di natura sociale che, accantonati o ignorati da troppo tempo, non possono essere più rinviati ne prorogati. Sappiamo tutto di spread, tasse, tassi, riforme fiscali ma un Paese non è solo economia. Certi temi devono semplicemente essere affrontati, devono essere prese delle decisioni che, mettendo da parte inutili e screditati pregiudizi e affrontando il tema da un punto di vista civile e maturo come questo Paese si vanta, spesso a torto, di essere, possa portare al riconoscimento dei diritti non solo dei minori, ma di migliaia di persone per le quali questa non è una battaglia di buone intenzioni ma riguarda la stessa vita, la sua organizzazione e il suo significato. Deve essere sanata una situazione che non può più essere tollerata. E sarebbe necessario che venisse affrontata dalla nostra classe dirigente, i nostri rappresentanti e non tramite sentenze e ricorsi. A volte succede che un Paese faccia passi verso la civiltà. A volte succede che un Paese faccia delle cose per TUTTI i suoi cittadini. A volte succede che i pregiudizi vengano abbattuti. A volte succede. Vorrei che succedesse decisamente più spesso.

 A presto…

Fabrizio

[1] Per chi volesse approfondire il tema, consiglio la lettura dell’esaustivo libro di Cristina Chiari e Laura Borghi (2009), Psicologia dell’Omosessualità, Carocci.

Tutti i diritti riservati

MyFreeCopyright.com Registered & Protected