L’empatia fa la differenza in terapia?

L'empatia fa la differenza in terapiaIl post di oggi riguarda un interessante articolo del Corriere della Sera che tratta il tema del rapporto tra medico e paziente. Secondo uno studio condotto su 21 mila pazienti diabetici, il rapporto che si instaura tra medico e paziente è fondamentale e necessario alla riuscita della terapia. Questo non deve sorprendere, alla luce del peso che i fattori relazionali giocano nel fidarsi o meno del percorso terapeutico che si intraprende. Provate a pensare alla vostra esperienza personale: seguireste più volentieri e più assiduamente una cura prescritta da un medico di cui vi fidate e con il quale avete instaurato un buon rapporto, oppure seguireste comunque la cura anche senza questa premessa? Naturalmente credo che la risposta sia scontata e testimonia appunto dell’importanza che la relazione, un fattore considerato immateriale e non importante nella terapia, perché difficilmente valutabile, viene spesso messa in secondo piano, dopo la cura. In realtà la relazione è da considerare parte importante e fondamentale della cura stessa. In questo gioca un ruolo la capacità del medico di riuscire a stabilire una relazione empatica. Non è scontato e non è un fattore di poco conto.

Empatia è la capacità di relazionarsi con i vissuti e i sentimenti dell’altro, comprendendoli ed accettandoli cercando di rimanere fuori dal giudizio e dalla critica. E’ un aspetto importante nella relazione, ma diventa fondamentale se le due persone coinvolte sono all’interno di una relazione terapeutica. Lo studio, per il quale, qualora lo vogliate vedere, c’è un link diretto alla fine del post, ha rivelato che quelli che avevano un medico empatico hanno seguito meglio le terapie e sono stati ricoverati ben tre volte meno in ospedale per complicanze legate alla loro malattia. Il motivo è che questi malati, secondo lo studio, hanno aderito meglio alle prescrizioni perché sono state spiegate loro con chiarezza e pazienza, e da qualcuno che aveva ottenuto la loro fiducia.

L’empatia del medico è stata valutata tramite questionari che sono stati somministrati ai pazienti. E’ interessante notare come questo aspetto venga annoverato tra i criteri di successo dagli stessi operatori sanitari per cui è forse più evidente come l’importanza della relazione sia parte integrante della cura. Ovviamente la relazione, in una professione come quella sanitaria, comporta un carico emotivo decisamente pesante e complicato da gestire soprattutto per quegli operatori che non hanno competenze o non hanno investito su questo tipo di conoscenza a livello personale (penso soprattutto a reparti con malati gravi o con malattie terminali) può portare a far si che i medici disinvestano sulla relazione per non essere investiti o coinvolti in un aspetto emotivo che può essere impattante da gestire. 

La consapevolezza sull’importanza della relazione sta, però, incrinando questo disinvestimento a favore del fatto che la preparazione, esperienza ed aggiornamento devono rimanere (…) le prime qualità da ricercare in professionisti nelle mani dei quali si mette la propria salute, tuttavia, in un periodo in cui la medicina viene sempre più percepita, dagli stessi medici, come fin troppo informata da algidi algoritmi, tecnologia e obblighi amministrativi, l’importanza di stabilire una sintonia emotiva con i pazienti forse dovrebbe essere riscoperta e valorizzata, anche per rivendicare alla professione medica la sua titolarità di «arte».

Insomma, uno studio ed una riflessione interessante sul peso della relazione nel mondo della medicina.

Qualora voleste leggere l’articolo cliccate qui 

L’articolo è di Luigi Ripamonti. 

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

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La paura di aver paura

La paura di aver pauraQuesto post è dedicato ad una delle emozioni più ancestrali che guida la vita dell’uomo: la paura. Cos’è la paura fondamentalmente? Come abbiamo accennato, è una delle emozioni primarie che accomuna gli uomini agli animali, una sensazione istintuale attraverso la quale, percependo un pericolo reale o presunto, vengono attivate tutta una serie di reazioni fisiche e psicologiche che fanno percepire un senso di pericolo o un bisogno di fuga, le sensazioni fondanti della paura stessa. Ovviamente esistono gradi diversi di attivazione di questa emozione. I gradi sarebbero in ordine crescente: timore, ansia, paura, panico, terrore. Se ci pensiamo, la sensazione di paura è l’emozione che ci ha garantito la sopravvivenza evolutiva. Perché allora questa emozione è una delle più vituperate? Se è stata selezionata filogeneticamente, è evidente che ha delle implicazioni rispetto al nostro stesso profilo evolutivo. Eppure, come dicevo, è una delle emozioni dalle quali si cerca di sfuggire più spesso. Come se ci facesse paura la stessa idea di poter avere paura. In effetti è una delle cose dalle quali cerchiamo di fuggire più spesso. Semplicemente non vogliamo avere paura, vogliamo sentirci sicuri e protetti. Eppure questa odiosa emozione si ripresenta spesso all’improvviso, soprattutto sotto la forma familiare dell’ansia, disturbo percepito con sempre maggior fastidio.

Ma se c’è una cosa che credo di aver imparato in questi anni, è quello che più che fuggire dovremmo imparare a stare. Stare sull’emozione, stare sulla sensazione, stare sul disagio. Anche se questo stare è scomodo, pesante, difficile. Anche se vorremmo fuggire a gambe levate facendo finta di niente. Credo che proprio qua si annidi il punto. Se fuggiamo, se facciamo finta di non averla, non possiamo portare l’attenzione su cosa l’ha causata, su quali siano le ragioni che quella paura ci fa sentire, qual è il senso di questa paura rispetto alla nostra storia. Se riusciamo a stare, a non fuggire, possiamo apprendere qualcosa di nuovo su di noi, cosa ci spaventa, cosa provoca in noi. Non è una cosa da poco perché comporta una nuova consapevolezza su se stessi. E non è neanche una cosa facile perché va contro tutta la nostra esperienza che è appunto quella di sfuggire, di cercare di evitare ciò che ci fa stare male. Se è una reazione comprensibile (chi vuole stare male?), credo che alla lunga sia controproducente dal momento che la fuga non permette di affrontare o conoscere il nodo che quella paura ha portato. 

In merito a questo c’è un brano che descrive molto bene ciò che intendo: credo che una buona salute mentale sia determinata non tanto dall’evitare le emozioni negative, quanto nella ricchezza di espressioni emozionali differenti che possiamo mettere in campo. Non è negativo avere paura di una situazione nuova, ma può diventare disfunzionale se non provo a cercare risorse, dentro o fuori di me, che mi permettano di provare il coraggio di affrontare la mia paura, piuttosto che “rimuoverla” attribuendo ad altri o alla situazione il mio senso di sofferenza. Non è detto che riesca a superare la mia paura, ma posso provarci. Se non creo questa condizione, è probabile che la paura prenda il sopravvento e mi faccia credere che quello è il solo modo di affrontare l’altro o le situazioni in genere. [1]

La mancata accettazione di queste nostre emozioni ci porta spesso ad agire la rabbia o la deresponsabilizzazione che, se ci pensiamo bene, non fanno altro che allontanarci ancora una volta dalla nostra paura, e ripetono inesorabilmente quel circolo vizioso per cui non ci conosciamo-ciò che intravediamo non ci piace e ci spaventa-fingiamo che non esista-continuiamo a non conoscerci. L’unico modo per spezzare il circolo, per quanto doloroso sembri, è quello di portare la propria attenzione sul momento stesso del disagio e quindi, in buona sostanza, cercare di accogliere la nostra stessa emozione.

Nonostante possa farci paura l’idea di avere paura.

Che ne pensate?

presto…

Fabrizio 

[1] Rosci, M. (2010), Scuola: istruzioni per l’uso, Giunti Demetra, Firenze, pag. 164

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Carnage

CarnageIl film del quale voglio parlarvi oggi si intitola Carnage, è del 2011 ed è diretto dal noto regista Roman Polanski. Il film ha un cast a dir poco azzeccato: una coppia di genitori, la coppia apparentemente più realizzata, è interpretato da Kate Winslet e Christoph Waltz, rispettivamente Nancy e Alan Cowan, mediatore finanziario e avvocato, mentre l’altra coppia vede assieme Jodie Foster e John C. Reilly rispettivamente Penelope e Michael Longstreet, l’una scrittrice e l’altro venditore di articoli per la casa.

Un indizio su quello che il film mostra è dato dal titolo: carnage in inglese significa infatti carneficina. Ed è ad una vera e propria carneficina di educazione, buone maniere, di buone impressioni, apparenze ed esteriorità ma sopratutto di genitorialità quella a cui assistiamo. La trama è apparentemente molto semplice: durante una lite al parco, che noi spettatori appena intravediamo all’inizio del film, il figlio della prima coppia, colpisce con un bastone il figlio della seconda coppia. Le due famiglie decidono, perciò di incontrarsi per cercare di capire cosa sia successo e per discutere, da persone civili, in merito a cosa fare con i due ragazzi. La prima coppia, i coniugi Cowan, si recano a casa dei coniugi Longstreet e l’intero film si svolge sostanzialmente nel loro soggiorno. Il film è assolutamente geniale per quanto riguarda la sottolineatura di tutto ciò che dei genitori non dovrebbero fare nella gestione di problematiche relative ad un figlio: pensare solo a loro stessi. Il pretesto dell’incontro per discutere dei ragazzi si trasforma infatti molto velocemente in una vera e propria lotta tra i partecipanti senza nessuna esclusione di colpi. Ognuno di loro ha da ridire sul comportamento dell’altro in un continuo turbinio di alleanze variabili (uomini contro donne, donne contro uomini , donne contro donne, moglie contro mariti mariti contro mogli ecc.) che porta ben presto a mettere in assoluto secondo piano le vicende dei figli per i quali i quattro si erano inizialmente incontrati. Penelope (Jodie Foster) ha una stizza che riguarda il pregiudizio che lei ha sul fatto che gli altri due possano essere buoni genitori con i loro metodi. Il marito Michael diventa una sorta di furia rispetto a tutti i finti buonismi della moglie che poi, alla fine, sbotta in maniera molto pesante rispetto all’altra coppia. Per quanto riguarda Nancy (Kate Winslet) e il marito Alan la prima è assolutamente insoddisfatta del comportamento molto poco presente del marito nei confronti della discussione che si sta svolgendo e del suo continuo rispondere al telefono, mentre il marito ha un atteggiamento tracotante e arrogante su molte delle posizioni che vengono fuori durante la discussione.

La realtà è che ognuno di loro è preso da quelli che sono i suoi problemi personali, rispetto a se stessi e rispetto alla loro vita coniugale. L’incidente con i figli sembra semplicemente lo spunto per fare un bilancio di tutto ciò che sotto la patina di rispettabilità, onorabilità e decoro bolle all’interno della loro vita. Ognuno di loro è impegnato dapprima a salvare le apparenze, poi a negare, infine a vomitare, non solo in senso figurato come vedrete, tutto ciò che li scontenta all’interno della conversazione, ma più in generale della loro vita. Il risultato è assolutamente spiazzante: quattro adulti che, invece che con le mani come fanno i loro ineducati figli, si massacrano l’uno con l’altro con parole forse ben più pesanti e potenti di un bastone.Mi rendo conto di come sia difficile cercare di descrivere il film e ciò che succede. Un insieme di sovrapposizioni di piani formali e informali lo rende difficilmente descrivibile a parole. Basti semplicemente citare la scena in cui Penelope deve accompagnare in bagno Alan: ormai iniziate a crollare le apparenze all’interno delle coppie, lei si preoccupa di cercare di mettere in ordine la casa mano a mano che passa. Di li a poco il vedere il rispettato avvocato Alan Cowan fisicamente in mutande sarà il prologo di quanto poi saranno messe a nudo tutte le debolezze, le fragilità, le incomprensioni, le distanze sia all’esterno che all’interno delle coppie.

Rimane la constatazione del fatto di come una coppia genitoriale impegnata più su temi di coppia, o con così tante e profonde incomprensioni al suo interno, possa difficilmente riuscire a fare ciò che in quell’occasione era chiamata a fare: i genitori.

Solo alla fine le due donne sembrano d’accordo su un fatto: che quello sia il peggiore giorno delle loro vite. Probabilmente è solo il giorno in cui hanno potuto dare voce alla loro profonda insoddisfazione.

Qualora doveste vederlo (o lo aveste già visto naturalmente) fatemi sapere che ne pensate.

A presto…

Fabrizio

P.s.:  i figli delle due coppie, nella saggezza propria di molti ragazzi, risolvono da soli i lori problemi, senza l’intervento dei genitori!

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L’ipersessualità è una malattia?

L'ipersessualità è una malattiaVi riporto i risultati di uno studio svolto negli Stati Uniti che dimostrerebbe come l’ipersessualità (sex addiction) possa essere considerata un vero e proprio disturbo mentale. Lo studio è stato condotto dalla University of California di Los Angeles (Ucla) che avrebbe testato i criteri per diagnosticare come disturbo. Il team che ha svolto l’indagine, composto da un’equipe di psichiatri, psicologi, terapisti di coppia ed assistenti sociali che hanno validato i criteri individuati, considerandoli utili per poter arrivare a una diagnosi di questo tipo di problema che in Italia riguarda il 6% degli uomini e il 3% delle donne. Questo team di esperti sarebbe arrivato alla considerazione che la sex addiction sarebbe una forma di patologia e che andrebbe inserita nella revisione del DSM (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders) il testo che contiene tutti i criteri diagnostici delle patologie oggi ufficialmente riconosciute. Per essere ammessi alla classificazione nel DSM-V, la cui nuova edizione (ora siamo al DSM-IV) è prevista per il 2013, le classificazioni nosografiche devono essere non solo molto precise ma anche temporalmente definite. Nell’articolo si fa cenno ai sintomi rilevabili nella sex addiction: i criteri diagnostici (…) includono una serie di sintomi (…) tra cui la ricorrenza ossessiva di fantasie sessuali, manifestazioni di dipendenza sessuale che durano sei mesi o più e che non sono riconducibili ad altre cause come abuso di sostanze, disturbo bipolare. Inoltre, perché sia fatta una diagnosi di ipersessualità devono verificarsi attività o comportamenti legati alla sessualità anche in presenza di stati emotivi poco piacevoli come la depressione o il ricorso al sesso come strategia per combattere lo stress. In più, deve trattarsi di persone che hanno provato a ridurre o fermare la compulsione sessuale senza riuscirci e la cui vita di relazione e professionale è stata negativamente condizionata. La sex addiction sarebbe una di quelle dipendenze ‘nuove’per le quali si lavora alla classificazione, come la dipendenza nel gioco d’azzardo o lo shopping compulsivo. Secondo Claudio Mencacci, direttore del dipartimento di Psichiatria dell’Ospedale Fatebenefratelli di Milano il meccanismo è identico a quello che si verifica con la dipendenza da droghe o alcol perché vengono attivate le stesse aree del cervello e sarebbero le nuove frontiere per definire le patologie che stanno letteralmente esplodendo in questi ultimi anni come la dipendenza dal gioco d’azzardo o la dipendenza da internet.

Questo tipo di risultati, con le conseguenti classificazioni, mi lasciano spesso perplesso. Mi chiedo perché questo tipo d comportamento non può risultare tra i disturbi ossessivo compulsivi. Non potrebbero essere delle specificazioni di un disturbo più ampio? Il DSM sarebbe così molto più ‘pratico’ dal momento che qualunque patologia ufficialmente riconosciuta rientrerebbe all’interno di una classificazione più ampia che la ricomprende e la significa meglio. La strada che si sta seguendo, invece, è totalmente contraria e assistiamo ad una continua suddivisione e segmentazione delle patologie in quadri sempre più circoscritti e limitati. A cosa porta questa parcellizzazione dei disturbi psichiatrici, questa continua rincorsa a definire qualunque tipo di disturbo umano e farlo rientrare in una categoria diagnostica a parte? Temo sia essenzialmente dovuta a motivi economici. Il fatto che esiste una diagnosi, che venga ufficialmente riconosciuta, che sia condivisa, comporta non solo la nascita dello specialista che se ne dovrebbe occupare ma anche, e soprattutto, della terapia farmacologica sottostante. E non dimentichiamo di quanto possa essere potente la spinta delle case farmaceutiche per vedere riconosciute delle patologie per le quali, poi, sarà necessario indicare e chiarire il farmaco da utilizzare. Tutto questo, lungi dal migliorare la comprensione del comportamento umano, rende se vogliamo ancora più difficoltoso capire le ragioni di una persona. E ci si trova spesso davanti a diagnosi per le quali risulta difficile capire la ragione.

Intanto il link: qui

L’articolo è di Irma D’Aria

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio

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Settimana del benessere psicologico

settimana-benessere-psicologico giustaDal 07 al 13 ottobre si svolgerà, promossa dall’ordine degli Psicologi della Regione Sardegna, la prima edizione della Settimana del Benessere Psicologico. L’iniziativa consiste in una serie di proposte (seminari, workshop, conferenze) che permettano di avvicinare le persone ad una professione, quella dello psicologo e dello psicoterapeuta, spesso percepite come lontane e distanti. Si terranno, quindi, una serie di dibattiti, seminari, e aperture di studi con la finalità di avvicinare la nostra professione alle persone che ne sono interessate.

Ho aderito con entusiasmo a questo progetto, pensando di offrire un colloquio di consulenza gratuito a coloro che ne fossero interessati (bambini, adolescenti, adulti, coppie e famiglie). Chi volesse approfittare dell’iniziativa può contattarmi tramite:

– telefono: 392 0008369;

– mail: fabrizioboninu@gmail.com.

I colloqui si svolgeranno presso il mio studio in Piazza Salento, 7 Cagliari.

Coloro che invece volessero un elenco completo di tutte le iniziative che diversi colleghi svolgeranno durante l’intera settimana può cliccare su Calendario Eventi Settimana del Benessere Psicologico. Sarete reindirizzati sulla pagina del sito dell’Ordine degli Psicologi dell Sardegna all’interno della quale troverete, divise giorno per giorno, tutte le iniziative che sono state programmate durante tutta la settimana. Spero l’iniziativa riscuota il successo e la visibilità che penso meriti.

Fatemi sapere che ne pensate.

A presto…

Fabrizio Boninu

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La ‘depressione’ da rientro…

La 'depressione' da rientro...Il post di oggi è perfettamente in linea con quello che è il momento dell’anno che stiamo attraversando: il ritorno dalle ferie. Alzi la mano chi, rientrando da un periodo più o meno lungo di vacanza, non è stato assalito dallo scoramento al pensiero della routine che lo stava per accogliere. Lavoro, scuola, bollette, casa da pulire, obblighi e doveri che, confrontati con il periodo magico delle ferie sembrano essere sempre più difficili da digerire e da riprendere. Ecco allora quel senso di scoramento a cui accennavo prima, l’impressione della difficoltà di adattarsi, la paura di non essersi riposati abbastanza, la voglia di posticipare ulteriormente quel ritorno alla normalità che solamente il calendario obbliga a riprendere e che, se fosse per noi, ci vedrebbe ancora lontani dalle incombenze quotidiane.

Tutto questo è vero, ma in parte è eccessivo a cominciare dal termine che viene utilizzato per descriverlo: depressione. Il termine depressione indica una patologia per la quale la persona non vede più prospettive e non riesce più ad intravedere o a programmare il proprio futuro. Il problema del quale stiamo parlando adesso è in realtà, o dovrebbe essere, molto più blando e durare solo un periodo limitato di tempo. Se durasse diversi mesi potremmo parlare di un episodio depressivo ma nel caso difficilmente la ragione di questo potrebbe essere il rientro dalle ferie!

Rimane il fatto che molti di noi sentono questo sconforto al momento di tornare dalle ferie: cosa possiamo fare per agevolare la ripresa della vita di tutti i giorni? Ho trovato interessante questo articolo che si occupa del tema. Vi rimando alla sua lettura per una visione completa. Tra i punti che vengono evidenziati e che sarebbero utili per un migliore superamento dello scoramento da rientro i più utili mi sono sembrati:

  • Valorizzare i benefici: utilizzare l’esperienza appena conclusa per interiorizzare la sensazione di benessere che si ha avuto durante le ferie. I benefici possono essere estesi non gettandosi a capofitto nelle ritualità quotidiana ma cercando di riprendere gradualmente la nostra solita vita. Ricordando che se non ci fosse una quotidianità alla quale tornare probabilmente neanche le ferie avrebbero lo stesso valore o significato;
  • Approfittare dello ‘stato di grazia’: il secondo suggerimento ha a che fare con la possibilità di far fruttare quello che abbiamo sperimentato nelle ferie, riguardo sopratutto la rottura della ritualità e della meccanicità della vita quotidiana che non lascia spazio a nuove aperture o a nuove prospettive. E’ possibile approfittare appunto dello stato di grazia post ferie ed introdurre nella quotidianità queste aperture, che permettano di spezzare la routine anche nelle singole giornate?;
  • Svagarsi tutto l’anno: non fate delle ferie l’unico momento dell’anno in cui si riesce a staccare la spina. Possiamo trovare tanti piccoli momenti, anche nel corso di una stessa giornata, in cui possiamo ricavarci un piccolo momento per noi, in cui concederci quello che ci fa stare meglio. Sorprendetevi facendo delle cose, anche minime, che non vi aspettate da voi stessi;
  • Usare bene la nostalgia: questo è uno dei punti più interessanti: invece che struggersi di nostalgia per quello che abbiamo appena passato e che non abbiamo più possiamo, dosando la nostalgia, utilizzarla o per superare momenti critici oppure per motivarci intimamente a fare qualcosa che non siamo proprio contenti di fare. Il ricordo della piacevolezza dell’esperienza permette di lenire lo scoramento per il fatto che quell’esperienza stessa sia passata!

Qualora lo voleste leggere, vi lascio il link dell’articolo:

http://27esimaora.corriere.it/articolo/la-depressione-post-ferie-non-esiste-e-non-fatevela-venire/

L’articolo è del Corriere della Sera ed è firmato da Anna Meldolesi.

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

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Trasloco (temporaneo!) dal vicino:)

Trasloco (temporaneo!) dal vicinoVi segnalo un mio articolo sul blog della mia amica/collega Carla Sale Musio dal titolo: LA DONNA DEL DONGIOVANNI (potete cliccare sul titolo per essere reindirizzati al post). Il post è una ‘risposta’, o forse sarebbe meglio dire una integrazione, ad un altro articolo pubblicato da Carla il 24 Agosto e avente come tema la figura del dongiovanni. In esso Carla sostiene la tesi per la quale un uomo dongiovanni sia maggiormente interessato a mascherare una propria latente omosessualità piuttosto che ad impegnarsi nel rapporto con la partner stessa.

Concentrandosi sulla figura maschile, rimane in ombra quale sia il ruolo della donna che sceglie come partner un uomo di questo tipo e sopratutto quale possano essere i motivi reconditi per cui tale scelta viene mantenuta o reiterata nel tempo. La mia riflessione, partendo da questi punti, individua tre diversi ‘tipi’ di donna e pone l’accento più sull’esistenza di una coppia dongiovanni, nella quale entrambi hanno interesse a che questo tipo di relazione funzioni, piuttosto che solamente su un uomo dongiovanni.

Non voglio svelarvi altro; non vi resta che leggere il post e farmi, anzi farci sapere che cosa ne pensate. 

A presto…

Fabrizio Boninu

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Le sette (1)

Le sette (1)Il post di oggi è dedicato ad un tema molto particolare del quale si sente parlare sono in relazione ad efferati fatti di cronaca oppure in circostanze particolari: le sette. Il termine setta deriva dal latino secta e significa seguire. Il termine setta è oggi considerato riduttivo e limitante, soprattutto per la sua forte connotazione negativa, tanto che in molti casi si preferisce utilizzare il termine ‘culto’ o ‘confessione’. Utilizzerò qui il  termine setta per motivi di chiarezza, senza connotazione di valore. Genericamente, vengono identificate come  sette i gruppi formati da cultori legati a qualche tipo di adorazione religiosa, sociale, politica. Quello delle sette è, in realtà un fenomeno molto più complesso e io mi concentrerò specificamente su un aspetto molto forte dell’organizzazione stessa: la possibilità che alcuni individui vengano ‘cooptati’ all’interno di un gruppo con caratteristiche particolari.

Ma andiamo con ordine. Innanzitutto cosa è una setta? Le sette sono gruppi organizzati che presentano una serie di caratteristiche comuni. Una setta si raccoglie generalmente attorno ad un individuo, molto spesso definito carismatico o con una forte personalità. Spesso il capo promette qualcosa a coloro che seguono la setta (salvezza eterna, una vita migliore,…). La vera offerta che sembra catalizzare l’attenzione della persona che si decide a seguire il gruppo è però più subdola e sottile e difficilmente la persona se ne può sottrarre: è l’offerta di occuparsi di prendere le decisioni al posto nostro, di poter fare quello che deve essere fatto anche al posto nostro. Il capo di una setta è molto diverso, nella funzione, da quello che potrebbe essere un prete o un mullah. Queste figure, all’interno delle religioni di riferimento, sono dei tramiti rispetto alla religione stessa, officiano un rito che fa avvicinare al dio, ma non sono il fulcro del rito stesso. In una setta, invece, il leader può diventare un vero e proprio oggetto di culto all’interno della setta stessa. Non è più un tramite ma il fine della cerimonia stessa. Spesso viene divinizzato, gli vengono conferite caratteristiche ‘magiche’ o poteri salvifici e questo, se accettato e condiviso dai membri del gruppo, consente al capo di avere una presa molto stretta e salda sulla vita delle persone che seguono la setta. Le difficoltà di abbandono dei membri nascono spesso dalla credenza che il capo, dotato di poteri sovrannaturali, come un dio irato per l’abbandono non si risparmierà di affliggere atroci sofferenze alla persona che ha osato lasciare il suo stesso dio. È lo stesso meccanismo, basato sul plagio, che consente agli sfruttatori di prostitute, di costruire una sorta di gabbia mentale, fatta di paure e terrore, della quale la persona riuscirà difficilmente a liberarsi nel corso della vita.

Nella divinizzazione del capo questo diventa spesso l’aspetto principale all’interno della vita della setta e costituisce il fulcro dell’organizzazione quotidiana del movimento. Va notato come spesso, nelle fasi iniziali della nascita di una setta, il capo sostenga di avere un rapporto privilegiato o costante con un dio ‘ufficiale’ e riconosciuto. Questo tramite con le religioni riconosciute, permette al capo o alla setta stessa, di non essere percepita come potenzialmente eversiva o particolarmente strana. Nel momento in cui questo tramite non è più necessario, spesso viene lasciato decadere e semplicemente non è più essenziale. Il capo diventa egli stesso il dio da venerare e osannare e questo non lascia posto ad un altro dio. Esistono vari modi attraverso i quali il leader può acquistare questo potere sui suoi seguaci. Da un lato possono essere utilizzate delle tecniche di vera e propria manipolazione mentale basata soprattutto sulla destabilizzazione e sulla ricostruzione di un nuovo senso di sé e di una nuova percezione della realtà. La tecnica principale consiste nel mettere profondamente in discussione tutto ciò che appartiene al passato dell’individuo. Tutto viene vagliato e criticato di modo che il novizio non possa più sentirsi sicuro di tutto ciò che era la sua la realtà, che l’ha accolto fino a quel momento della sua vita.

– Continua –

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Un genitore è per sempre…

Un genitore è per sempre...Il post di oggi è dedicato ad un fatto di cronaca, che mi ha colpito molto. E’ abbastanza recente, ed è successo in Italia. Un uomo, dell’età di 68 anni, dopo il divorzio da sua moglie ha chiesto il disconoscimento della paternità anche per la figlia, figlia biologica della ex moglie ma non sua, che aveva invece riconosciuto come sua figlia, dandole il cognome, quando si era sposata con la madre. La figlia, (ex figlia?), si è opposta fermamente alla richiesta dell’uomo (ex-padre?) perché, a suo dire lesivo del suo diritto di identità. Il caso ha suscitato, come si poteva immaginare, non poche polemiche rispetto soprattutto al ruolo attuale dei genitori. La prima sezione del TAR del Lazio ha respinto le richieste dell’uomo, sostenendo che la scelta di essere padre, anche se il figlio non è biologicamente suo, non può essere revocata né cancellata per legge.

Ora, naturalmente non conosco i dettagli personali di questa famiglia, il dolore o la rabbia che possono avere spinto quest’uomo a pensare di poter fare una così clamorosa marcia indietro rispetto alle scelte che aveva sentito di poter compiere nel momento in cui ha dato il suo cognome alla bimba. Rimane semplicemente lo sgomento di fronte alla leggerezza con cui si pensa al proprio ruolo di genitori. Un padre può davvero pensare di poter disconoscere un figlio dopo che ha passato gran parte della sua vita a stare al suo fianco? E’ pensabile che una scelta di questo tipo non comporti danni psicologici pesanti rispetto all’identità di un figlio che si trova, improvvisamente, a dover ristrutturare l’idea che ha di se stesso e della sua famiglia? Ma soprattutto è pensabile che questa persona sia ancora un genitore? Che padre sarebbe dopo la sentenza che gli impedisce di disconoscere la figlia? Un padre per legge? Il caso è particolarmente delicato anche per la posizione della figlia. La cosa che più salta agli occhi è il concetto stesso di paternità. Paternità biologica e paternità affettiva. Nel caso specifico si parla di paternità affettiva: deve essere considerata meno vincolante di quella biologica? Io non credo.

Credo che una volta che si è assunta una responsabilità di fronte ad un bimbo, sia esso biologico o meno, si deve mantenere la lealtà sulla scelta che si è deciso di compiere. Pensandoci mentre scrivo, credo che, con un figlio adottivo, la lealtà debba essere ancora più ferrea, perché si dovrebbe essere ancora e più consapevoli della scelta che si sta andando a fare, consapevolezza che, spesso, passa in secondo piano per figli biologici per i quali sembra bastare il legame di sangue. In un momento storico in cui le identità sembrano farsi liquide, rarefatte, e i ruoli sempre più invisibili, dove è possibile diventa madri surrogate, o padri adottivi, o si presta il proprio corpo per una gravidanza, sembra passare in secondo piano il significato vero della genitorialità, che prescinde dal legame di sangue e dall’aver biologicamente dato la vita. Quando si sceglie e si decide di diventare genitori, si diventa genitori per sempre. Questo comporta l’avere un patto di lealtà nei confronti dei propri figli. Ovviamente questo non vuol dire l’obbligatorietà dei rapporti tra genitori e figli per tutta la vita. La scelte di ognuno di noi possono portare ad allontanare le persone che ci stanno vicino o ad interrompere i rapporti, compresi quelli più stretti come tra genitori e figli. Ma per quanto i figli possano deludere i genitori o, viceversa, i genitori si trovino nella impossibilità di mantenere un rapporto con loro, o ancora che entrambi, genitori e figli, per varie ragioni non vogliano mantenere i contatti, quello che credo debba essere fatto salvo è che non si può tornare indietro. La lealtà sta in questa impossibilità di tradire il patto fondante del rapporto. Io sono tuo genitore, io sono tuo figlio. E anche se le circostanze della vita possono portare ad un allontanamento, non possono arrivare a mettere in discussione questa verità fondante. Bene ha fatto, a mio parere, il TAR a rigettare la richiesta del padre. L’innovazione nella sentenza è stata dare più peso al legame che si era creato tra padre e figlia piuttosto che accogliere la richiesta del padre.

Il grande merito di questi casi credo sia costringere ognuno di noi a fare i conti e riflettere su aspetti della nostra vita che, perché acquisiti, diamo spesso per scontati. Forse è il caso che ci fermiamo a riflettere su cosa voglia dire essere genitori oggi. Biologici o adottivi credo non faccia alcuna differenza.

Che ne pensate?

presto…

Fabrizio

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Quella ‘brutta bestia’ dell’adolescenza…

Quella 'brutta bestia' dell'adolescenza...Ho letto qualche tempo fa un articolo che mi ha fatto riflettere sulla considerazione di quell’età ingrata che è l’adolescenza. Ingrata, naturalmente sia per gli adolescenti che si trovano a dover affrontare un cambiamento molto importante, sia per i genitori che questo cambiamento, talvolta, sono restii ad accettare. Il brano è stato scritto  da Norah Ephron, celebre sceneggiatrice e regista americana, scomparsa nel giugno del 2012. Nel testo, si fa riferimento spesso alla figura della madre ma, naturalmente, credo sia applicabile anche alla figura padre.

L’adolescente investe il genitore moderno come uno shock gigantesco, in gran parte perché è così simile all’adolescenza che hai passato anche tu (genitore). Il tuo adolescente è ombroso. Il tuo adolescente è arrabbiato. Il tuo adolescente è cattivo. Peggio, il tuo adolescente è cattivo con te. Il tuo adolescente dice parole che non ti era permesso pronunciare mentre crescevi, non che non le avessi mai sentite, prima di leggere il Giovane Holden. Il tuo adolescente fuma marijuana, che magari hai fumato anche tu, ma non prima dei diciott’anni. Il tuo adolescente sta senz’altro facendo sesso in modo stupido e sconsiderato, cosa che tu non hai fatto fino almeno a vent’anni. Il tuo adolescente si vergogna di te e cammina dieci passi avanti in modo che nessuno pensi che siete collegati in qualche modo. Il tuo adolescente è ingrato. Ricordi vagamente di essere stata accusata dai tuoi genitori di essere ingrata, ma di che cosa dovevi essere grata? Quasi niente. I tuoi genitori non erano impegnati nelle cure parentali (termine che, secondo l’autrice, avrebbe sostituito l’essere genitore). Erano solo genitori. Almeno uno dei due beveva come una spugna, mentre tu hai un comportamento esemplare. Hai dedicato anni e anni della tua vita a far sentire ai tuoi figli che ti sta a cuore ogni singola emozione abbiano mai provato. Hai riempito ogni secondo di veglia della loro vita con attività culturali. Le parole “Mi annoio” non sono mai uscite dalle loro labbra, perché non hanno avuto il tempo di pronunciarle. I tuoi figli hanno tutto quello che potevi dare – tutto e di più se si contano le sneakers. Li ami in modo spropositato più di quanto ti amavano i tuoi genitori. Eppure sembra siano venuti fuori esattamente come sono sempre venuti fuori gli adolescenti. Anche peggio. Cos’è successo? Dove hai sbagliato?  Per di più, grazie ai progressi dell’alimentazione moderna, il tuo adolescente è grande e grosso, probabilmente più grosso di te. La paghetta settimanale del tuo adolescente equivale al prodotto interno lordo del Burkina Faso, un piccolo Paese colpito dalla povertà di cui né tu né il tuo adolescente avete mai sentito parlare fino a poco tempo fa, quando entrambi avete passato parecchi giorni a lavorare su una ricerca di scienze sociali per la scuola. Il tuo adolescente è cambiato, ma in nessuno dei modi che speravi quando ti rimboccavi le maniche per cambiare il pargolo. E sei cambiata anche tu. Da un essere umano moderatamente nevrotico e discretamente allegro, in un rottame  irritabile, acido e maltrattato. Ma niente paura. C’è un posto dove puoi andare per farti aiutare . Puoi andare da tutti i terapisti e i consulenti cui ti sei rivolta negli anni prima che i tuoi figli diventassero adolescenti. (…) Ed ecco cosa ti diranno: “L’adolescenza è per gli adolescenti, non per i genitori. E’ stata inventata per aiutare i figli attaccati – o troppo attaccati – a separarsi, in preparazione del momento inevitabile in cui lasceranno il nido”; ” Ci sono cose che si possono fare per rendere la propria vita più facile” (…) Ed è completamente falso. L’adolescenza è per i genitori, non per gli adolescenti. E’ stata inventata per aiutare i genitori attaccati – o troppo attaccati – a separarsi, in preparazione del momento inevitabile in cui i loro figli lasceranno il nido. Non c’è quasi niente che possiate fare per rendervi la vita più facile, tranne aspettare che finisca. (…) Oh, il dramma del nido vuoto. L’ansia. L’apprensione. Come sarà la vita adesso? Avrete qualcosa da dirvi, voi due, una volta che i vostri figli saranno andati? Farete sesso adesso che la presenza dei figli non è più una scusa per non farlo? 

L’articolo è a mio avviso interessante, a parte per l’ironia che lo pervade, per due ragioni particolari: 

A)Innanzitutto, pone l’accento sulla vicinanza di quelle che possono essere le attitudini dell’adolescente e dei genitori. Sarebbe interessante che, all’approssimarsi dell’adolescenza dei figli, i genitori ricordassero attraverso quali momenti, quali emozioni, quali turbamenti sono passati quando erano loro ad essere adolescenti;

B) Inoltre l’articolo, a mio avviso, rimescola molto bene le carte all’interno della famiglia ‘attribuendo’ l’adolescenza e i suoi cambiamenti non solo alla persona che fisicamente li sta vivendo, ma a tutta la famiglia, genitori in primis, che si trovano a dover affrontare e fronteggiare questi cambiamenti. Non parliamo dunque di un adolescente, ma di una famiglia adolescente volendo sottolineare, con questa espressione, il fatto che tutti, all’interno del nucleo familiare, siano coinvolti in questa età di passaggio: genitori, figli, fratelli. Questo rende il processo più circolare, magari più complesso, sicuramente più affascinante. Se è vero, infatti, che l’adolescente in prima persona vive il cambiamento della sua vita, è altrettanto vero che in famiglia i rapporti cambiano, le relazioni mutano, gli equilibri si trasformano. Per tutti i membri, non solo per uno. Cambiano le relazioni tra gli appartenenti alla famiglia per il solo motivo che si trovano ad interagire con un adulto e non più come un bambino. Volete che questo non influisca sulle dinamiche familiari?

Insomma un interessante punto di riflessione che porta l’adolescenza lontano dal mondo solipsistico e solitario con cui in famiglia si percepisce il cambiamento, attribuendolo esclusivamente a colui il quale, in quel momento, è anagraficamente l’adolescente della famiglia, contribuendo a riportare il tema all’interno di una serie di relazioni, in prima fila quelle familiari, che sarebbe il caso di non tralasciare. Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

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Il cancro? Uccide più al cinema che nella realtà…

Il cancro Uccide più al cinema che nella realtà...Ho trovato questo interessante articolo di Repubblica nel quale si riportano i risultati di uno studio di due medici italiani, Giovanni Rosti, dell’ospedale Cà Foncello di Treviso e Luciano De Fiore, dell’Università La Sapienza di Roma, che hanno cercato di capire, confrontando diversi film, quale fosse la rappresentazione data sulla malattia del cancro. I risultati sono stati presentati al congresso della Società europea di oncologia medica (Esmo), a Vienna. L’analisi è consistita nel visionare 82 film che, questo è il risultato più eclatante, forniscono una percezione assolutamente distorta della malattia e dei suoi esiti. Nella maggioranza dei film presi in esame, gli ammalati sono ricchi, giovani, non soffrono ma muoiono spesso. Questo tipo di rappresentazione distorcendo completamente la realtà, non fa si che su questi malattie si creino ritratti veritieri della realtà delle cose. Ed è come se questo influisse sulla nostra percezione di rischio.

Ci sono così malattie sovra rappresentate come per esempio le malattie tumorali, che ingenerano una vera e propria fobia mentre altre patologie, ugualmente facenti parte della realtà e magari altrettanto gravi o potenzialmente invalidanti che, non venendo rappresentate accuratamente, finiscono in una sorta di dimenticatoio cognitivo per cui noi quasi ci dimentichiamo che esistano. Lo stesso fenomeno si può riscontrare in altri settori della nostra vita. Mi viene in mente l’iper-rappresentazione (mediatica e sociale) che avviene ad ogni incidente aereo che fa si che, nella nostra mente, il rischio di morire di un incidente aereo abbia un peso enorme rispetto, per esempio, al morire in un incidente stradale che è, per lo meno statisticamente, molto più probabile. Percepiamo l’aereo come pericoloso mentre la macchina no.

Tornando all’articolo, l’aspetto che, secondo me, deve far riflettere di più è l’errata rappresentazione dell’esito della malattia che termina spesso con la morte delle persone coinvolte quando, in molti tipi di tumore, se diagnosticato per tempo, la percentuale di guarigione è ormai molto alta. L’articolo sottolinea come ci siano, però, segni di un cambiamento in questa rappresentazione come per esempio nel film ‘La prima cosa bella‘ di Virzì, con protagonista Stefania Sandrelli, nel quale viene rappresentato per la prima volta un hospice oncologico che è quello dove il suo personaggio è in cura. Come sempre, si tratterebbe di avere un minimo di sensibilità e attenzione per una realtà che, se ben veicolata, permette alle persone di nutrire più speranze che paure. E, in questo come in altri campi, l’atteggiamento col quale si affronta il male è parte fondamentale della cura.

Intanto il link dell’articolo: http://www.repubblica.it/salute/medicina/2012/10/01/news/come_il_cinema_racconta_male_il_cancro-43601906/

Come detto, l’articolo è di Repubblica ed è di Arnaldo D’Amico.

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

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Il terapeuta riparatore

Il terapeuta riparatoreIl post di oggi è dedicato all’analisi di una figura purtroppo diffusa in terapia: quello del terapeuta riparatore. Il terapeuta riparatore è il terapeuta che, dimenticandosi la necessaria distanza dalla vita dell’individuo con cui si trova a lavorare, si schiera per una soluzione e, forte della sua posizione all’interno della terapia stessa, spinge affinché il paziente attui la soluzione da lui suggerita. Questo tipo di situazione è molto più frequente di quanto non sembri, soprattutto per situazioni che richiederebbe una maggiore apertura mentale e una maggiore capacità collaborativa del terapeuta come per esempio, quelle terapie per le quali la persona, sentendo molto forte e toccante vivere la sua omosessualità, chiede al terapeuta di guarirlo. L’aspetto più pericoloso avviene quando il terapeuta prende per buona e cerca di soddisfare questa richiesta. Questo tipo di situazioni sono, secondo me esecrabili per due ordini di motivi: innanzitutto la terapia non si svolge correttamente, dato il peso che le convinzioni, sociali, morali o religiose del terapeuta stesso, in una parola le sue convinzioni personali, vengono adoperate ed utilizzate per stabilire arbitrariamente ciò che è giusto oppure no per la vita di un altro individuo; in secondo luogo ratifica e prosegue, in una vera e propria spirale auto perpetuante, lo stereotipo per cui stili di vita bollati a lungo come non ‘normali’ siano vere e proprie malattie, quando l’omosessualità da ormai 39 anni, è stata derubricata definitivamente anche dai manuali diagnostici che noi professionisti utilizziamo nella nostra pratica clinica.

Eppure, nonostante queste premesse, è possibile trovare professionisti che pensano sia possibile curare quella che non è una malattia, assecondando più i desideri reconditi del terapeuta piuttosto che riuscendo ad accogliere quelle che sono le istanza più intime di accettazione e di rispetto che il paziente va cercando, e anzi, disconoscendole e disconfermandole ancora una volta. Vi riporto, a questo proposito, un brano tratto da un testo che affronta molto bene il punto di vista del quale stiamo parlando:

Dopo la derubricazione dell’omosessualità  come diagnosi clinica, il DSM-IV del 1974 (il manuale diagnostico usato per fare le diagnosi) prevedeva la nuova categoria dell'”omosessualità egodistonica”: il disagio e la sofferenza rispetto al proprio orientamento sessuale venivano considerati un disturbo psichiatrico. Questa categoria clinica venne in seguito rimossa nel 1987, quando si comprese che l’egodistonia può far parte del percorso evolutivo di un individuo omosessuale in un contesto eterosessista. Proprio sul concetto di egodistonia si soffermano i terapeuti riparativi. Questi permangono impermeabili alle numerose ricerche e dichiarazioni delle associazioni dei professionisti della salute mentale. Le cosiddette ‘terapie di conversione’ sono residui del paradigma patologico (…), secondo cui gli ‘omosessuali non gay’, coloro i quali non riescono a conciliare l’orientamento sessuale con il sistema di valori, possono cambiare il loro orientamento sessuale. E’ il vecchio concetto di egodistonia rispolverato, insostenibile alla luce delle oramai assodate acquisizioni scientifiche e deontologicamente impraticabile a fronte dei pesanti effetti sulla salute mentale dei soggetti che vi si rivolgono. In questo tipo di trattamento direttivo-suggestivo il terapeuta rinuncia alla sua posizione di neutralità, di chi interroga e si interroga insieme al paziente, diventando mero esecutore della richiesta e propugnatore di norme morali e religiose.” [1]

Credo che il massimo che possiamo dare alle persone con le quali abbiamo la fortuna di lavorare, sia accoglierle e rispettarle. Comprenderle più che cambiarle. Ascoltarle più che curarle. Non è semplicemente una proposta di buon senso, visto che anche deontologicamente non potremmo imporci, ne imporre la nostra volontà o le nostre convinzioni sui nostri pazienti. Può essere vero che ci siano temi coi quali può non piacere lavorare ma, in questo caso, sta alla professionalità del terapeuta riconoscerlo ed esplicitare al paziente stesso la sua inidoneità per lavorare su quella tematica. Chiunque voglia curare ciò che non è in grado di rispettare non è semplicemente in grado di fare questo mestiere, perché è la prima persona a non avere conoscenza di se stessa.

E se una persona non è in grado di essere chiara con se stessa come può aiutarne un’altra?

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio

[1] Chiari, C., Borghi, L. (2009), Psicologia dell’omosessualità, Carocci, Roma, pp. 173-174

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Storia di Francesca (2)

Storia di Francesca (2)La laurea triennale e la successiva laurea specialistica sembravano più dei passatempi che delle e vere e proprie aspirazioni professionali per Francesca. La famiglia le metteva fretta ma mai abbastanza perché portasse a compimento il suo corso di studi. Altro fattore era il peso. Francesca era molto sovrappeso. Sembrava incastrata in un corpo non suo, poco femminile e poco disponibile ad essere impiegato nel gioco della seduzione adulta. Anche il suo corpo riusciva a proteggerla da quella serie di definizioni ed indipendenze o cambiamenti che la vita porta ad affrontare giunti sulla soglia dell’età adulta.

Si trovava in un corpo enorme che, come tutto quello che la circondava, dava per scontato nella sua vita, una sorta di corazza con la quale chiedeva al mondo di lasciarla stare dove si trovava, di permettere alle cose che caratterizzavano la sua vita di rimanere così com’erano. Di non cambiare. Anche in terapia assistemmo a questa duplice richiesta: assicurami che cambieremo tutto affinché nulla cambi. Ovviamente questa prima richiesta così contraddittoria, doveva essere, più che sbrogliata, esplicitata. Doveva essere chiaro che uno dei meccanismi all’interno del quale Francesca si dibatteva era che tutto cambiasse affinché tutto restasse uguale.

Ma nel momento in cui questa richiesta è stata esplicita e in qualche misura smascherata, le cose hanno iniziato a fluire meglio. Quando si agisce un meccanismo che è un automatico, non ci si accorge neanche più di farlo, diventa una sorta di punto fermo nella nostra vita che non ci si disturba neanche più di mettere in discussione. Nel momento in cui ci si prende la briga di guardare l’automatismo, di non farlo continuare ad essere tale, di iniziare a domandarsi perché le cose devono seguire pedissequamente quello schema, ecco già questo porta ad un incrinatura nell’automatismo stesso e lo mette in discussione. Questo è quello che è successo con Francesca. Gli automatismi hanno iniziato a lasciare il posto dapprima ad alcune domande mai poste, in seguito ad alcuni cambi di prospettiva che hanno portato ad una vero e propria rivoluzione nella sua vita. Dopo anni si è laureata, iniziando un tirocinio che le interessa e la soddisfa. Ha iniziato a fare delle scelte indipendenti, come quella di viaggiare con alcune sue amiche in giro per capitali europee. Va a trovare alcuni suoi amici che vivono all’estero, senza porsi poi tanti problemi su chi si occuperà di casa. Ma il grande cambiamento di Francesca ha riguardato il cibo e il suo aspetto fisico.

Francesca, quando ha iniziato ad intuire cosa potesse voler dire avere un corpo come il suo, ha iniziato seriamente a pensare a come fronteggiare questo aspetto della sua vita. Seguita da un nutrizionista, ha deciso di iniziare seriamente una dieta che, non senza sacrifici ma con enormi risultati, l’ha portata a perdere ben 30 kg rispetto al peso iniziale che aveva al momento in cui ha iniziato la terapia. Ora è semplicemente un’altra persona. Molto più curata, molto più consapevole della sua femminilità, inizia a permettersi di far intravedere la persona che per tanto tempo ha preferito celare. Le dico sempre che dovrei pubblicare una foto del prima e dopo la terapia, per testimoniare quanto la nostra percezione  spesso influenzi il modo in cui noi ci relazioniamo col mondo. Il percorso di Francesca non è finito, ma il mio supporto sta iniziando ad essere meno impegnativo. Francesca è in grado di riconoscere i suoi risultati, quello che ha ottenuto e come vorrebbe che fosse il suo futuro. Ed è stato un onore per me poter accompagnare una persona alla scoperta di se stessa. 

presto…
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