Gli adolescenti e la noia (2)

Gli adolescentiSiamo solo profondamente consapevoli di quanto ci costi concedere loro questa vita così gremita, e di quanto loro, di contro, si annoino profondamente per tutto il ben di dio che nella nostra infinita generosità, abbiamo concesso loro: 

È opinione diffusa che gli adolescenti si annoino e che il tentativo di risolvere la loro noia sia all’origine di una serie preoccupante di azioni individuali e di gruppo, che lambiscono l’area delle condotte a rischio, fino a sconfinare in azioni direttamente scellerate. La sottocultura dei mass-media soffia sul fuoco di una rappresentazione che vede il nuovo adolescente disperato a causa della noia che lo affligge. E che gli impedisce di scorgere l’azione che lo potrebbe divertire e motivare, tanto da rendersi disponibile a qualsiasi azione che gli garantisca una scarica di adrenalina e lo svegli, restituendogli il gusto pieno della vita.

Consideriamo questa noia come base di tutte le ‘stranezze’ che accadono. Con sempre più risalto sui mezzi di comunicazione che tendono ad esaltare il fenomeno nei suoi aspetti più deleteri, rifiutandosi poi di aiutare a comprendere cosa abbia generato l’atto in se, qualunque impresa compiano attribuiamo la colpa alla noia, alla profonda noia delle loro vite vuote, vite nelle quali tutto (il vandalismo, il bullismo, l’abuso di sostanze, e così via) è legato a doppio filo con l’evitamento di una vita sazia, piena e prevedibile, una vita nella quale l’unico elemento di sorpresa e di vitalità sembra essere riposto solamente nella condotta a rischio

Si tratta di una delle rappresentazioni più scellerate messa a punto dalla cultura degli adulti. Essa parte dall’accusa rivolta agli adolescenti attuali di godere di una serie infinita di privilegi, quali mai nessuna generazione di adolescenti ha potuto godere; beni di consumo à go go, sesso libero, denaro in smodate quantità, libertà di movimento, facilitazioni scolastiche, azzeramento dei controlli, libera frequentazione degli amici, annullamento dell’obbligo militare, genitori disponibili a sponsorizzare la ricerca della propria vera vocazione per un trentennio: questi sono sono alcuni dei privilegi di cui godono i giovani maschi e femmine, in regime di pari opportunità, avvolti in nuvole di fumo di provenienza sospetta e preda di una strana ebbrezza che forse deriva dall’assunzione di beveroni enormi all’ora dell’happy hour, ammassati nei locali alla moda. 

E anche in questo frangente troviamo il modo di dare loro la colpa. Questi giovani adulti, circondati da tutti i privilegi possibili, sono talmente inetti da non preoccuparsi nemmeno di come rendere interessante la loro esistenza, sprecando in maniera sfacciata non solo tutto il tempo che hanno ma anche le opportunità a loro disposizione. Come osano essere così ingrati? Siamo arrivati all’immagine perfetta della nostra innocenza: noi che triboliamo per concedere loro i privilegi dai quali sono circondati, e che a nostra volta avremmo voluto avere, vediamo dissipata in questa maniera un tesoro dalle proporzioni enormi. E cosa dire, poi, dello smisurato spreco di tempo? Questo è la dilapidazione meno comprensibile per un adulto, forse per l’inesorabile senso di sfuggevolezza che, di contro, caratterizza le nostre vite. Ecco allora la continua rincorsa degli adulti a riempire il loro tempo o a sbraitare perché non ne sprechino, come se non dovessero fare esperienza di cosa significhi ‘tempo’ per loro.

Agli occhi degli adulti i nuovi adolescenti sono soverchiati dai privilegi, soddisfatti dai genitori prima ancora che possano desiderare alcunché, alle prese con una scuola che ormai ha ammainato le vele e non chiede nemmeno più che si parino gli enormi debiti accumulati in anni di pirateria scolastica. Così sarebbero esposti a soffrire gravemente di noia, non perché si trovano a giocarsi la giovinezza in assenza di occasioni e di stimoli, ma perché ne hanno troppi e hanno fatto, fin da piccoli, indigestione di privilegi e vizi di ogni tipo. Conseguentemente, ora non sanno più come gestire i loro il loro sconfinato tempo libero, perché hanno già fatto tutto, di corsa, troppo presto, senza alcuna fatica, ma senza neanche avere il tempo di gustarne il sapore. (…)

In questo contesto di soffocanti privilegi diventa scandaloso, agli occhi degli adulti invidiosi e mal disposti, che i ragazzi possano anche solo alludere al fatto che non sanno bene cosa fare, che si annoiano un po’. Se si annoiano in condizioni così stimolanti, vuol proprio dire che non sanno più trovare stimoli, che soffrono della noia in modo quasi allergico. (…) [1] 

– CONTINUA –

[1] Charmet, G., P. (2010), Fragile e spavaldo, Editori Laterza, Roma, pp. 107-111

 

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Gli adolescenti e la noia (1)

Gli adolescentiMi sono occupato diverse volte del tema dell’adolescenza, e sono consapevole della nomea che la considera uno dei momenti più critici nella vita dell’individuo. Sicuramente questa fase costituisce una sorta di crocevia di quello che sarà l’assetto adulto (relazionale, emotivo, sociale) che il ragazzo si appresta non solo a costruire ma anche ad esprimere, entrando in relazione in maniera nuova col mondo dei pari e con quello degli adulti, mondo quest’ultimo nel quale si appresta, appunto, ad entrare.

L’incontro tra il mondo dell’adolescenza e quello adulto non sempre è facile, anzi. Il più delle volte una serie di immagini cristallizzate e stereotipate rendono l’incontro tra i due mondi complesso e difficoltoso, e solo con pazienza e costanza si riescono a superare le incomprensioni. Il movimento di incontro deve avvenire da ambo le parti: l’adolescente spesso si rifugia nel mito dell’adulto ‘che non ascolta’ e, convinto di questa realtà, non fa nulla per aprirsi al confronto. Oppure insegue il mito della sua ‘incomunicabilità’, ponendo una vera e propria barriera alla possibilità di scoprirsi con l’altro. Gli adulti, d’altro canto, si rifugiano nel mito, sempre più in voga, dell’adolescente ‘difficile’, mito dietro al quale si nascondono molte delle tante incapacità comunicative e relazionali. Altro mito duro a morire è quello secondo il quale gli adolescenti comunichino solamente col gruppo dei pari, costruendo una perfetta scusante per quella mancanza di rapporto e dialogo che anche gli adulti sono stati in grado di costruire.

In questa difficoltà comunicativa e relazionale, gli adolescenti, a mio avviso, hanno una grande attenuante della quale quasi mai si tiene conto: non sanno cosa significhi essere adulti. Se un adolescente sta crescendo, si sta gradualmente portando verso l’età adulta. Non ha ancora fatto esperienza di cosa questo significhi e costruisce questo significato per l’appunto con la crescita. Un adulto, di contro, sa (o dovrebbe sapere) cosa significhi essere stato adolescente, dal momento che è una fase della vita che deve aver passato (e vissuto) per divenire adulto. Un adulto sa (o dovrebbe sapere) cosa significhi quel senso di straniamento fisico, emotivo, sociale, relazionale, che spesso gli adolescenti provano nella loro crescita. Sa (o dovrebbe sapere) quali picchi di felicità e quali vette di sconforto possano caratterizzare velocemente l’umore di una singola giornata. Gli adulti sanno (o dovrebbero sapere) quali malumori può significare un no, e quali chiusure può portare. Gli adulti lo potrebbero sapere se riuscissero a contattare e a dare voce dentro se stessi all’adolescente che sono stati, al ragazzo che è ancora dentro di loro, che forse non ha mai voluto diventare l’adulto che sono diventati. Se riuscissero a far partire questo dialogo tra il ragazzo che erano e l’adulto che sono diventati, riuscirebbero a stabilire una comunicazione migliore con gli adolescenti che hanno la fortuna di incontrare nelle loro vite. Purtroppo, invece, l’adolescente che sono stati viene spesso messo a tacere, soffocato dalle incombenze ‘da grandi’ che la vita adulta si trova a mettere davanti. L’adulto prende il sopravvento ed è da questa angolazione che si forma la famigerata presa di posizione nel rapporto con adolescenti (e bambini!) per la quale ‘sono io il grande, so io che cosa sia giusto per te’, tanto disprezzato all’epoca ma riapplicato pedissequamente ora che siamo diventati noi gli adulti e siamo dimentichi di cosa tutto questo significasse quando gli adolescenti eravamo noi.

Mettere in discussione questa posizione è estremamente complicato: comporta un confronto personale pesante da sostenere e i cui esiti, incerti e teorici, non rendono sicuramente più facile affrontare. Ecco perché ci si rifugia in stereotipi vaghi, e si ricorre ad immagini dietro le quali si nasconde la complessità di un mondo del quale sentiamo di non condividere più il linguaggio, sentendo, prima che nel rapporto con loro, di aver perso il rapporto con noi stessi, con la nostra stessa adolescenza e con il ragazzo che siamo stati.

Le immagini divengono, in quest’ottica, sempre più statiche e ferme, frasi fatte che contemplano, compatiscono e si beano di quanto gli adolescenti non sappiano cosa fare, rimarcando una distanza sempre più siderale tra il ‘loro’ ed il ‘nostro’ mondo. Fioriscono gli aneddoti più comuni: adolescenti che passano tutto il tempo di fronte alla tv o con videogiochi, ragazzi che non fanno nulla tutto il giorno, quelli che non sanno cosa vogliono, che non sanno godersi la giornata, quelli sempre in giro e quelli sempre a casa, quelli terribili o quelli troppo mansueti che ‘dottore, ci aiuti perché non è in grado di affrontare la vita’. Un’immagine scoraggiante e sconfortante: ragazzi che hanno tutto e che non sono in grado di essere contenti di nulla. Ragazzi profondamente annoiati da una vita troppo piena, una vita nella quale non capiamo neanche cosa sia quello che chiediamo loro.

– CONTINUA –

 

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Come parlare della morte ai bambini (2)

come parlare della morte ai bambini 2La domanda, allora, sorge spontanea: chi proteggono i genitori con la scelta del silenzio? Abbiamo paura di parlare al bambino dei nostri sentimenti, abbiamo timore di mostrare la nostra fragilità. E soprattutto siamo impreparati a discutere – usando termini che i bambini possono comprendere – e a rispondere alla miriade di domande che hanno da porci.

Sono gli adulti i primi in difficoltà nell’esporre le loro emozioni. I genitori si sentono impreparati a discutere e a confrontarsi su tematiche così vaste. Sono gli adulti a sentirsi in difficoltà nell’immaginare quale tipo di termini possano meglio essere utili per condividere con il bambino l’esperienza della morte. Sono gli adulti che si sentono inadeguati ad avere una conversazione con un bambino su un tema così ostico. Sono gli adulti che sentono la difficoltà di fronteggiare i figli con le loro domande, i dubbi, le paure, le speranze. Quello che gli adulti non si dicono è, in realtà, abbastanza semplice: la morte mette in crisi ognuno di noi. Ci obbliga a riflettere sulla nostra vita e sul suo senso, sul nostro destino, sulle nostre scelte. È questo il confronto che cerchiamo di evitare. Quello con noi stessi, con i nostri dubbi, le nostre paure, le nostre speranze. Quella serie di domande che un bambino, prima di imparare che di certe cose è sempre meglio non parlare, fa ai propri genitori con il desiderio di condividere queste emozioni

Come si può interrompere questa catena di silenzi? Una delle possibilità è quella di accogliere senza giudicare le manifestazioni del dolore: la rabbia, lo scoramento, la delusione, il pianto:

Piangere è uno sfogo utile. Spesso ciò che aiuta davvero è piangere con qualcuno per ricevere appoggio e contenimento affettivo. La condivisione affettuosa di un pianto intenso e non trattenuto è una premessa fondamentale. Essa veicola implicitamente un messaggio strutturante, che dovrà successivamente ed utilmente essere esplicitato: ‘Capisco la tua sofferenza, la trovo legittima, la tua sofferenza e anche la mia, insieme possiamo sostenerla. Il fatto che ci vogliamo bene è anche la risorsa con cui possiamo affrontare le paure, le ansie e le separazioni!’

Questo è un punto particolarmente importante. Il pianto potrebbe essere un momento di condivisione, un momento che accomuna le emozioni del bambino e del genitore, un momento nel quale ognuno può sentire accolto l’altro, ognuno coi propri mezzi. Accogliere e non giudicare o distrarre: frasi come ‘smetti di piangere’, ‘tanto piangere non serve a nulla’, ‘pensa ad altro’, torna a giocare’, ‘non ora’, sono frasi dette talvolta senza prestare troppa attenzione e che, invece di aiutare, possono far sentire soli e isolati. Non accolti appunto. E lascia la manifestazione del dolore incompiuta, incompleta e carente.

Tutti i genitori che mi chiedono cosa fare nel caso la morte entri nell’esperienza di vita di un bambino vengono invitati sul terreno della introspezione e della condivisione, convinto come sono che la cosa più utile sia parlare e con-dividere quello che si sta provando. Magari partendo da se stessi, da quello che si prova e da come ci si sente. Indubbiamente temo sia la scelta più ‘difficile’, più ardua da fare perché opposta a tutto quello che ci hanno insegnato, ma credo anche la più responsabile dal momento che permette di dare un senso, di significare un evento nella storia di vita del bimbo che, altrimenti, rimarrebbe inespresso e sospeso.

Per quanto dolorosa sia la perdita, i bambini non hanno bisogno di distrarsi, non hanno bisogno di pensare ad altro, non hanno bisogno di adulti per i quali quello ‘non è il momento adatto’. I bambini hanno un profondo bisogno di verità, hanno un profondo bisogno di adulti che si assumano la responsabilità di raccontare e condividere con loro questa verità, per quanto dolorosa sia anche per gli adulti

Parlare della morte ai bambini vuoi dire a prepararli a capire la realtà, aiutarli a crescere. Quando muore un nonno, una zia, un genitore, è indispensabile che la verità non venga taciuta o mascherata ai bambini. I bambini sono desiderosi di verità. Se al bambino non è permesso confrontarsi su questo tema cerca di comprenderlo da solo e a volte si crea delle fantasie assurde, il che è molto peggio dell’affrontare la dura realtà della morte. [1]

Verità, non bugie. Avete presente o vi è mai capitato (da genitori o da bambini) che alla morte di una animale domestico lo abbiate (o vi abbiano) semplicemente sostituito l’animale morto con un altro? L’intento è sempre lo stesso: cercare di non (far) vivere l’esperienza dolorosa della morte. Questa apparentemente innocua bugia è la rappresentazione di come affrontiamo la morte: sostituendo l’oggetto amato per non far soffrire. Se l’intento è comprensibile, non altrettanto comprensibili sono le conseguenze di questo gesto: insegniamo (o impariamo) che di alcune cose non si parla, che sono brutte, che sono da dimenticare. Vi invito a fare il contrario: fare una profonda dichiarazione di verità può essere doloroso, ma insegna una grande lezione: non c’è nulla che provo del quale mi debba sentire colpevole di parlare

Come sempre chi volesse/potesse condividere la sua esperienza può farlo contattandomi per mail (fabrizioboninu@gmail.com) oppure per telefono (3920008369). 

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

[1] Bolognini, N. (2010), Come parlare della morte ai bambiniSie Editore, Pinerolo, pp. 16-17

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Come parlare della morte ai bambini (1)

come parlare ai bambini della morteParlare di morte è difficile. All’interno della società che ha fatto dell’eterna giovinezza l’ideale più alto, anche solo nominare la sua nemesi mette in difficoltà. Quando ci troviamo ad affrontare l’argomento, stentiamo a trovare le parole adatte, oscillando tra frasi di circostanza e tentativi di rimozione. E sembra ancora più complicato parlare di un tema così complesso con bambini o con adolescenti. Come possiamo parlare di una cosa così dolorosa, così ineluttabile con persone che stanno appena iniziando a vivere la loro vita?

Eppure, per quanto non ci piaccia, è un’esperienza che entra a far parte della vita, spesso fin dalle prime battute. In terapia assisto a situazioni di questo tipo: genitori, peraltro molto premurosi e attenti alle esigenze dei loro figli, si trovano completamente in difficoltà e spiazzati riguardo al come affrontare un argomento così spinoso coi propri figli. La difficoltà è proporzionale al grado di vicinanza (parentale o emotiva) con la persona deceduta. ‘Non volevo farlo star male parlandogliene‘, mi ripetono spesso. Come se la persona cara potesse semplicemente svanire dalla vita o dai ricordi del bambino senza lasciare traccia. Naturalmente questo non è possibile e serve, allora, trovare un modo per condividere quello che avviene. Per farlo utilizzerò alcuni passi di un libro: trovate tutti i riferimenti bibliografici in fondo al post.

Partiamo da una prima considerazione: Gli adulti creano una rischiosa congiura del silenzio intorno al tema della morte. A volte si rimane in silenzio perché si è convinti che la psiche infantile non sia in grado di confrontarsi senza danni con un’esperienza di lutto. I bambini e gli adolescenti si trovano spesso nell’impossibilità di affrontare ed esprimere il lutto, perché non trovano negli adulti che li circondano e anche nella società stessa, un supporto educativo, psicologico ed emotivo adeguato alla perdita.

Questo punto è molto importante: gli adulti costruiscono una sorta di muro di silenzio intorno ai propri figli per non farli confrontare e per proteggerli da un tema doloroso. L’intento potrebbe essere lodevole, ma ogni muro ha una doppia valenza: se da un lato protegge, dall’altro isola. In questo caso, può proteggere da un dolore manifesto (ci sarebbe da chiedere chi protegga questo silenzio ma ci torneremo più avanti!) d’altro canto, però, isola profondamente il bambino che si trova a comprendere di dover gestire autonomamente i propri dubbi, i propri timori perché gli adulti intorno a lui non sembrano intenzionati a condividere con lui questo. Gli adulti utilizzano spesso questo meccanismo coi piccoli (non ne parlo=non esiste) ritenendo il silenzio una grande risorsa protettiva per i figli. In realtà spesso il silenzio genera mostri. Nel silenzio, nella mancanza di confronto, nell’impossibilità di condivisione, proliferano le paure che non possono essere espresse, e crescono dubbi che difficilmente vengono condivisi ma così imparano (e così riproporranno a loro volta da grandi), che di certe cose non si parla ed è meglio che ognuno le gestisca da solo

Andiamo avanti: Sovente i bambini rimangono esclusi dalle comunicazioni e dai rituali che accompagnano la morte di una persona amata. Tale esclusione riflette la grande difficoltà degli adulti nell’affrontare e nel condividere i sentimenti e le emozioni che seguono la perdita di una persona cara. Erroneamente pensiamo che i bambini debbano essere protetti dal tema della morte perché riteniamo che non possiedano gli strumenti psichici, intellettivi ed emotivi per poterlo sostenere. Crediamo che il dialogo con i nostri bambini arrechi loro un dolore insopportabile. Ma questo dialogo fa più male agli adulti, feriti ed impreparati ad affrontare un simile argomento, che non ai bambini desiderosi di verità e di condivisione. [1] 

I rituali funebri, qualsiasi essi siano e comunque vengano celebrati, hanno come scopo quello di sancire una chiusura, scrivere un nuovo capitolo relazionale tra la persona defunta e le persone legate a lui/lei. Anche per gli adulti ha un’alta valenza simbolica, perché permette ad un’esperienza così misteriosa e dolorosa di avere un senso, di essere ricompresa nella vita stessa delle persone che rimangono. Eppure capita che i genitori mi dicano di non aver fatto assistere i figli al funerale della persona amata. Pur comprendendo la difficoltà, temo che questa strategia ottenga in realtà risultati opposti a quelli sperati. Se l’intento, infatti, è quello di proteggere i propri figli, va presa anche in considerazione l’impossibilità, in caso di non partecipazione al rituale che viene celebrato, di salutare la persona amata. Non far partecipare i bambini a questo rito, non permette loro di chiudere l’esperienza di vita con quella persona. È come se l’evento rimanesse sospeso, non definito, aperto. Il bambino, che magari ha già sentito difficoltà a trovare persone con le quali condividere il dolore per la scomparsa della persona, si ritrova anche nell’impossibilità materiale di potergli dire addio e di poter, così, chiudere simbolicamente il percorso di vita con la persona deceduta

– Continua –

[1] Bolognini, N. (2010), Come parlare della morte ai bambiniSie Editore, Pinerolo, pp. 16-17

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Bullismo omofobico: risponde il dr. Jimmy Ciliberto

bullismoIl post di oggi ha come tema un fenomeno che ha radici profonde ma che, complici alcuni fatti di cronaca con risvolti particolarmente tragici, è diventato argomento dibattuto nelle cronache nazionali. Sto parlando del bullismo omofobico e questa attenzione testimonia una maggiore sensibilità dell’opinione pubblica su temi legati alla violenza omofoba, argomento, questo, che possiamo considerare strettamente legato al dibattito più ampio che interessa la possibile approvazione in parlamento di una legge che regoli le unioni civili. Ma torniamo a noi: cosa si intende con il termine bullismo omofobico? Sostanzialmente consiste in atteggiamenti o comportamenti violenti tramite i quali una persona viene presa di mira da un coetaneo (o da un gruppo organizzato di suoi coetanei) in una relazione all’interno della quale il rapporto di potere non è paritario. La persona prescelta viene oppressa con vari atteggiamenti (derisione, minacce, insulti, esclusione…) ed il pretesto per l’attacco è dato, appunto, dalle scelte sessuali o dall’orientamento sessuale (reale o presunto) della vittima.

Per parlare di questo importante tema ho pensato di rivolgermi ad una persona che, per professione, è un conoscitore della materia. Mi riferisco a Jimmy Ciliberto, psicologo, psicoterapeuta, autore, insieme ai colleghi Paolo Rigliano e Federico Ferrari del testo Curare i gay?, edito da Cortina. Jimmy da tempo dedica la sua attenzione a tematiche legate all’orientamento sessuale e all’identità di genere. Chi volesse ulteriore dettagli sul libro può cliccare qui mentre chi volesse saperne di più sul dr. Ciliberto può cliccare qui.

Ciao Jimmy, innanzitutto grazie per aver accettato l’invito e benvenuto! Direi di partire dalla definizione di bullismo omofobico: come potremo descriverlo?

Ciao Fabrizio e grazie a te per il tema che hai deciso di trattare.

Possiamo definire generalmente bullismo omofobico quell’insieme di comportamenti apertamente squalificanti e discriminatori assunti da una o più persone nei confronti di un ragazzo o di una ragazza omosessuale (o solo considerati tali), proprio a causa del loro presunto o reale orientamento non eterosessuale. Questa è però una definizione molto generale, per quanto utile a capire di cosa stiamo parlando. Penso che il fenomeno sia molto più complesso, e come tale vada trattato, altrimenti si rischia di considerarlo come una nuova etichetta diagnostica che riguarda solo la persona che mette in atto il comportamento vessatorio.

Io preferisco parlare di contesti eterosessisti che favoriscono, a diverso grado, un insieme di dinamiche che hanno l’effetto di far sentire la persona non eterosessuale (o presumibilmente tale) sola, impotente, isolata, colpevole, proprio per le caratteristiche che la rendono unica.

Penso inoltre che le dinamiche discriminatorie non siano elicitate tanto dall’orientamento non eterosessuale in sé, quanto da tutti gli aspetti che rimandano ad una idea di maschio e femmina che sfida la dicotomia esistente.

In base alla tua esperienza, è una realtà diffusa oppure un fenomeno di nicchia?

Purtroppo constato ancora che negli ultimi anni della scuola primaria e nella scuola secondaria di primo grado, quelli durante i quali nascono le situazioni di bullismo omofobico, la situazione è stagnante. Le parole che rimandano alla non eterosessualità di una persona vengono usate come presa in giro e insulto, pochissimi insegnanti si sentono competenti e a proprio agio nel parlare di queste tematiche, e l’idea che un proprio alunno o una propria alunna possano essere omosessuali continua a rimanere, nella maggior parte delle situazioni, una “non idea”.

Diversa è la situazione nella scuole secondarie di secondo grado, dove emergono differenze significative tra Istituti e Istituti. Affianco a contesti non dissimili a quelli di cui sopra, esistono realtà (principalmente nei grandi centri urbani) che accolgono la diversità, sia tra pari che con gli adulti.

Cosa provocano questi attacchi alla persona colpita?

Come ho detto prima, questi comportamenti hanno l’effetto di far sentire la persona non eterosessuale (o presumibilmente tale) sola, impotente, isolata, colpevole, proprio per le caratteristiche che la rendono unica. Se la persona vive poi in un contesto che sente come non sufficientemente supportivo, od addirittura collusivo con quello che a scuola lo discrimina, possono esserci conseguenze più complesse che possono andare dallo sviluppo di una sintomatologia ansioso-depressiva, all’assunzione di comportamenti a rischio, od anche (raramente per fortuna) all’ideazione suicidaria.

E quali sono le reazioni più comuni a questo tipo di discriminazioni?

Parlare di reazioni comuni è molto difficile, possiamo però affermare che sono ancora troppe le situazioni in cui c’è collusione, soprattutto tra i pari, o sottovalutazione della portata del problema da parte degli adulti.

La maggior parte di questi episodi avviene durante la preadolescenza e l’adolescenza, età nelle quali i ragazzi sono per molto tempo a scuola. Prendiamo in considerazione come si comportano gli altri attori di questa istituzione: gli insegnanti come affrontano questi episodi?

Purtroppo non ci sono risposte omogenee: a fronte di docenti che affrontano la situazione in maniera complessa, promuovendo discussioni con i ragazzi, parlando con le famiglie, attivando anche risorse extra qualora necessario (progetti educativi, supporti psicologici etc), troviamo anche insegnanti che si limitano ad intervenire in maniera punitiva, oppure altri ancora che non intervengono perché sentono di non avere gli strumenti o perché pensano che non rientri tra le loro mansioni.

Mentre le scuole come istituti che fanno?

Ritroviamo la stessa eterogeneità di cui sopra. Alcune scuole non prendono minimamente in considerazione la questione, altre organizzano momenti di riflessione a prescindere dalla presenza o meno di comportamenti discriminatori.

All’interno della famiglia, come pensi dovrebbero comportarsi i genitori dei ragazzi presi di mira? 

Rassicurare i figli che il loro amore prescinde dall’orientamento sessuale e dall’identità di genere, mettersi in posizione d’ascolto e chiedere ai figli stessi cosa possano fare per aiutarli. È fondamentale che i ragazzi e le ragazze sentano di valere, soprattutto per la propria famiglia d’origine.

Mentre le famiglie dei bulli a cosa dovrebbero prestare attenzione?

Non mi piace pensare alle famiglie dei bulli, ma alle famiglie in generale, che a loro volta sono parte di comunità locali via via più ampie. Dobbiamo fare lo sforzo di uscire di modalità di azione basata sulla risposta alle urgenze, in maniera parcellizzata, ed iniziare ad abbracciare una modalità di pensiero e azione più sistemica e dialogica.

Hai dei suggerimenti da dare agli attori coinvolti in queste vicende per affrontare episodi di questo tipo?

Come dicevo prima, ascoltare questi ragazzi, vederli, restituire in maniera forte il fatto che loro valgono per la loro straordinaria unicità.

Alle famiglie e alle scuole, invece, il mio invito è quello di rendere chiaro, nelle loro comunicazioni e nelle loro azioni, che una persona vale ed è unica a prescindere dal proprio orientamento sessuale .. un modo semplice, ma potente è quello di usare una comunicazione che non dia per scontato l’eterosessualità di una persona, mai …

Come possiamo collaborare per far si che episodi come questi diventino sempre più ostracizzati?

Penso che le azioni da compiere debbano essere più che altro nella direzione di renderli sempre meno sensati ed attraenti. Come dicevo sopra, penso sia fondamentale lavorare con gli insegnanti, di ogni ordine e grado, e con coloro che formano gli insegnanti, nei contesti universitari e post universitari, affinché interiorizzino sempre più profondamente un cambio di premesse, tale da consentire una comunicazione, nell’accezione più ampia del termine, che veicoli il messaggio che anche le persone non eterosessuali sono presenti nelle loro teste, indipendentemente dal fatto che ci sia una persona esplicitamente glb.

 

Ringrazio di cuore Jimmy Ciliberto per la disponibilità nell’essersi prestato alle mie domande. Il tema naturalmente è vasto e ci torneremo ancora con altri interventi. Credo sia un ulteriore, importante passo per introdurre questo argomento in un dibattito che coinvolga più spazi possibili.

Se ci fossero persone interessate a testimoniare o a condividere la loro esperienza, naturalmente in forma assolutamente anonima (a meno che non desiderino il contrario!), possono contattarmi telefonicamente (3920008369) o per mail (fabrizioboninu@gmail.com).

Come sempre fatemi sapere che ne pensate.

A presto…

Fabrizio Boninu

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La persecuzione del bambino

violenza sui bambini

Tra i temi dei quali amo scrivere e occuparmi, una menzione particolare andrebbe fatta per i bambini e gli adolescenti. Il lavoro in loro compagnia è fonte di continue scoperte ed è spesso grazie all’incontro con le loro esigenze che le mie opinioni si affinano e migliorano.

Non sempre è stato così e, soprattutto all’inizio, mi sono trovato imprigionato all’interno di un’ideologia ‘adultocentrica’ che mi ha messo in difficoltà rispetto al confronto con i bambini e con i ragazzi. Rimuovendo tutto ciò che siamo stati e tutto ciò che abbiamo subito da bambini, una volta cresciuti costruiamo un modo di pensare che colloca l’adulto in una posizione privilegiata: questo ostacola la comunicazione e l’ascolto e fa si che idee quali superiorità, durezza, insensibilità, violenza, maltrattamento e costrizione si frappongano all’ascolto aperto e autentico della loro verità.

In questo senso, mi ha impressionato il libro dal quale ho tratto il brano che vi riporto. Scritto da Alice Miller, psicologa e psicoterapeuta svizzera, la quale si occupò, in quasi tutte le sue opere, della relazione tra i maltrattamenti subiti da bambini e i successivi maltrattamenti inflitti, una volta che questi bambini sono diventati adulti, alla generazione successiva. Nei suoi scritti la Miller arrivò a criticare pesantemente la psicoanalisi freudiana che, secondo l’autrice, costituisce un’ulteriore rimozione rispetto alle violenze subite dai bimbi in nome di alti principi come l’educazione. Il brano, riportato integramente, è tratto dall’opera La persecuzione del bambino (trovate tutti i riferimenti bibliografici alla fine del post) e costituisce una sorta di manifesto del processo che, partendo dall’infanzia, fa di ognuno di noi le vittime delle coercizioni subite da bambini che si perpetuano una volta che quel bambino sia diventato, a sua volta, adulto. Solo partendo da questa consapevolezza è possibile avvicinare, guardando con occhi diversi, il mondo dell’infanzia di oggi. Personalmente, soprattutto nel mio lavoro, reputo questa attenzione e questa consapevolezza la rappresentazione di ciò che un terapeuta attento dovrebbe avere in mente nel momento in cui ha la fortuna di lavorare con un bambino o con un ragazzo:

1) Ogni bambino viene al mondo per crescere, svilupparsi, vivere, amare ed esprimere i propri bisogni e sentimenti, allo scopo di meglio tutelare la propria persona.

2) Per potersi sviluppare armoniosamente, il bambino ha bisogno di ricevere attenzione e protezione da parte di adulti che lo prendano sul serio, gli vogliano bene e lo aiutino onestamente a orientarsi nella vita.

3) Nel caso in cui questi bisogni vitali del bambino vengano frustrati, egli viene allora sfruttato per soddisfare i bisogni degli adulti, picchiato, punito, maltrattato, manipolato, trascurato, ingannato, senza che in suo aiuto intervenga alcun testimone di tali violenze. In tale modo l’integrità del bambino viene lesa in maniera irreparabile.

4) La normale reazione a tali lesioni dell’integrità sarebbe di ira e dolore, ma poiché in un ambiente simile l’ira rimane un sentimento proibito per il bambino e poiché l’esperienza del dolore sarebbe insopportabile nella solitudine, egli deve reprimere tali sentimenti, rimuovere il ricordo del trauma e idealizzare i suoi aggressori. In seguito non sarà più consapevole di ciò che è stato fatto.

5) I sentimenti di ira, disperazione, desiderio struggente, paura e dolore – ormai scissi dallo sfondo che li aveva motivati – continuano tuttavia a esprimersi in atti distruttivi rivolte contro gli altri (criminalità e stermini) o contro se stessi (tossicomania, alcolismo, prostituzione, disturbi psichici, suicidio).

6) Vittime di tali atti vendicativi sono assai spesso i propri figli, che hanno la funzione di capri espiatori e la cui persecuzione è ancora sempre pienamente legittimata nella nostra società, anzi gode persino di alta considerazione, non appena si autodefinisca ‘educazione’. Il tragico è che si picchiano i propri figli per non prendere atto di ciò che ci hanno fatto i nostri genitori.

7) Perché un bambino maltrattato non divenga un delinquente o un malato mentale, è necessario che egli, perlomeno una volta nella vita, incontri una persona la quale sappia per certo che ‘deviante’ non è il bambino picchiato e smarrito, bensì l’ambiente che lo circonda. La consapevolezza o l’ignoranza della società aiutano, in tal senso, a salvare una vita o contribuiscono a distruggerla. Di qui la grande opportunità che viene offerta a parenti, avvocati, giudici, medici e assistenti sociali di stare, senza mezzi termini, dalla parte del bambino e di dargli la loro fiducia.

8) Finora la società proteggeva gli adulti e colpevolizzava le vittime. Nel suo accecamento, essa si appoggiava a teorie che, corrispondendo ancora interamente al modello educativo dei nostri nonni, vedevano nel bambino una creatura astuta, un essere dominato da impulsi malvagi, che racconta storie non vere e critica i poveri genitori innocenti, oppure li desidera sessualmente. In realtà, invece, non v’è bambino che non sia pronto ad addossarsi lui stesso la colpa della crudeltà dei genitori, al fine di scaricare da loro, che egli continua pur sempre ad amare, ogni responsabilità.

9) Solo da alcuni anni, grazie all’impiego di nuovi metodi terapeutici, si può dimostrare che le esperienze traumatiche rimosse nell’infanzia vengono immagazzinate nella memoria corporea e che esse, rimaste a livello inconscio, continuano a esercitare la loro influenza sulla vita dell’individuo ormai adulto. I rilevamenti elettronici compiuti sul feto hanno inoltre rivelato una realtà che finora non era stata percepita dalla maggior parte degli adulti: e cioè che sin dai primi attimi di vita il bambino è in grado di recepire e di apprendere atteggiamenti sia di tenerezza che di crudeltà.

10) Grazie a queste nuove conoscenze, ogni comportamento assurdo rivela la sua logica sino a quel momento nascosta, non appena l’esperienza traumatica subita nell’infanzia non debbano più rimanere nell’ombra.

11) L’aver acquisito sensibilità per le crudeltà commesse verso i bambini, che sinora venivano generalmente negate, e per le loro conseguenze arresterà il riprodursi della violenza di generazione in generazione.

12) Individui che nell’infanzia non hanno dovuto subire violazioni alla loro integrità, e a cui è stato consentito di sperimentare protezione, rispetto e lealtà da parte dei loro genitori, da giovani e anche in seguito saranno intelligenti, ricettivi, capaci di immedesimarsi negli altri e molto sensibili. Godranno della gioia di vivere e non avranno affatto bisogno di far del male agli altri o a se stessi né addirittura di uccidere. Useranno il proprio potere per difendersi, e non per aggredire gli altri. Non potranno fare a meno di rispettare e proteggere più deboli, ossia anche i propri figli, dal momento che essi stessi, un tempo, hanno compiuto tale esperienza, e dal momento che fin dall’inizio in loro è stato memorizzato proprio questo sapere (e non la crudeltà). Questi individui non saranno mai nella condizione di capire come mai i loro avi nel passato abbiano dovuto impiantare una mastodontica industria bellica per sentirsi a loro agio e sicuri nel mondo. Dal momento che il compito inconscio della loro vita non consisterà più nel difendersi dalle minacce subite nell’infanzia, essi saranno in grado di affrontare in maniera più razionale e creativa le minacce presenti nella realtà.[1]

 

 Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

[1] Miller, A., La persecuzione del bambino, Bollati Boringhieri, Torino, 1987, pag. XII e seg.

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Educhiamoci ad educare

educazioneCi siamo occupati altre volte di cosa voglia dire educare: educare, secondo la definizione comune, è dato da quella serie di attività che servono e sono finalizzate a favorire lo sviluppo di una persona. Questa definizione è molto generica, dal momento che mette l’accento sulle attività consapevoli che vengono svolte per educare un individuo, ma non tiene conto della molteplicità di attività che sono educative senza che l’educatore ne sia consapevole. Il modo in cui mi comporto è educativo, perché funge da esempio, da paradigma al quale l’altro può rifarsi prendendolo a modello, ed è un modello educativo espresso spesso senza che, appunto, se ne sia consapevoli.

Nell’immagine comune del termine poi, è sempre l’adulto che educa il minore. Quasi mai viene preso in considerazione come un minore possa educare un adulto e anzi sembra una sorta di controsenso considerare che un minore possa farlo. Diversi altri aspetti dovrebbero essere presi in considerazione in una riflessione su cosa significhi educare: uno dei più rilevanti riguarda il fatto che nella relazione educativa è implicita una condizione di disparità tra chi educa (e sa) e chi deve essere educato (e non sa). L’educatore, soprattutto se il suo ruolo è riconosciuto e accettato a livello sociale, ha più potere di chi viene educato, e spesso si serve di questo potere nell’atto stesso di educare. Interessanti, a mio avviso, i passaggi che vi riporto:

Prima riflessione: chi educa rischia perché nella relazione educativa mette a confronto due soggetti, che non hanno una posizione paritaria: ce n’è uno più forte ed uno più debole e c’è sempre il rischio che il soggetto che ha più esperienza, più competenza, più capacità di parola sia tentato di usare questo potere non per far crescere il soggetto più inesperto e più facile, ma per approfittarne. È un rischio che si ritrova nella relazione educativa, nella relazione parentale, nella stessa relazione terapeutica: in queste situazioni si struttura un piano inclinato, dove il rischio è la distorsione strumentale della relazione a fini di potere da parte del soggetto più forte. Chi educa rischia, perché c’è sempre la tentazione da parte del genitore, dell’educatore, il terapeuta stesso di utilizzare la relazione interpersonale Per sostenere le proprie difese e imporre in qualche modo i propri bisogni.

Credo sia necessario prestare particolare attenzione a questo potere ed esserne consapevoli dal momento che, se non riconosciuto, può portare, nella relazione educativa, verso l’imposizione piuttosto che verso la proposizione di un modello. Anche nella relazione terapeutica questo rischio è particolarmente forte e rischia di far deragliare la relazione stessa nel momento in cui il terapeuta invece di sollecitare l’autonomia e le risorse del paziente, si sostituisce a lui con suggerimenti e consigli, perché ‘sa che cosa sia giusto fare’.

Seconda riflessione: chi educa rischia e chi non rischia non educa. Il rischio inevitabile, necessario che non si può eludere nella relazione educativa è quello di avvicinarsi alle emozioni. Non educa chi non vuole rischiare di mettere in discussione la propria immagine narcisistica di soggetto razionale, sempre è comunque capace di controllare le emozioni e le situazioni. Non educa che non scende dal piedistallo della propria competenza educativa auto rassicurante, raggiunta presunta mente una volta per tutte. Non educa chi evita di avvicinarsi al mondo fluido, sofferto, conflittuale delle emozioni. Non educa chi non è disponibile a sviluppare l’intelligenza emotiva, l’intelligenza del cuore.[1]

Questo secondo punto è facilmente fraintendibile. Se è vero che chi educa rischia e chi non rischia non educa, nel senso che chi educa deve mettere in gioco se stesso, è altrettanto vero che spesso chi educa cerca di non rischiare per niente perché si difende, dall’alto della sua posizione privilegiata di potere, dal mettersi in gioco, dal condividere, dal rendere la relazione più paritaria e non basata sostanzialmente sul gioco di potere nascosto per cui tu fai ciò che dico io perché io so che cosa sia giusto per te. Se questo non avviene è lecito ricorrere a qualunque strumento per ottenere i risultati voluti. L’incognita è che ciò sfoci nell’autoritarismo, rischio al quale ci si può opporre coltivando l’autorevolezza. Diverso è infatti essere autoritari, fare leva sulla forza o sul proprio potere per imporre la propria volontà, tutt’altra cosa è essere autorevoli, avere cioè un’autorità educativa riconosciuta per le proprie capacità e non per la propria forza. Nel primo caso è necessario fare qualcosa (farsi obbedire, sgridare, punire…) nel secondo, ben più difficile, è necessario essere (essere coerenti, credibili, contenitivi…).

La differenza come sempre la costruiamo noi. Sono sempre più convinto che educare sia fornire un esempio, coerente e centrato a partire da quello che siamo. Questo non vuol dire non dover porre delle regole o non farle rispettare. Significa non ritenersi  dei dispensatori di regole ma cercare di partecipare attivamente alla costruzione della relazione con l’altro.

E, soprattutto, iniziare a non ritenere che il processo educativo sia a senso unico.

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

 

[1] Foti C., La mente abbraccia il cuore, Edizioni GruppoAbele, Torino, 2012, pag. 74.

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Come aiutare i bambini ad amare la lettura? (2)

bambini e libri6) Non trasformatela in una gara a chi legge di più: rinforzate positivamente i risultati ottenuti, non rimarcate che, a fronte del libro portato a termine, ce ne siano altri dieci che aspettano da anni di essere aperti. Ancora, se avete un figlio che legge molto e un figlio che considera i libri alla stregua di polverosi soprammobili, non cercate di spronare il secondo creando inutili gare e continui paragoni tra loro: questo tipo di strategie, anziché avvicinare, allontanano ancora di più dalla lettura. Abbiamo già visto che leggere non dovrebbe essere un compito: ancor meno dovrebbe diventare una gara;

7) Considerate le alternative dei mezzi attuali: siamo d’accordo: un libro in carta ha, ancora di più nell’età del digitale, un fascino immenso. Questo fascino non fa degli altri mezzi (ebook, audiolibri) dei ripieghi di secondo ordine. Il punto è che diano una chance alla lettura, che si incuriosiscano delle storie raccontate. Se dovessero sceglier di farlo ricorrendo all’uso di mezzi che quando eravamo piccoli neanche immaginavamo, non consideratelo un ripiego e non cercate di sminuirlo. Il mezzo non fa il lettore. Lasciate che siano poi loro, entrati nel mondo della lettura, ad incuriosirsi a tutti gli altri mezzi coi quali una storia può essere narrata; 

8) I fumetti: se siete riusciti a non condannare i vari reader digitali o gli audiolibri, cercate di applicare la stessa comprensione anche al mondo dei fumetti. Leggerli non è peccato, non traviano la mente di nessuno, semplicemente associano l’immagine alla narrazione della storia raccontata. Non si comprende perché, invece, siano spesso combattuti, o classificati come un sottogenere di ripiego, come se non fossero in realtà una vera lettura. Se leggerli riesce ad interessare i loro giovani (ma non solo!) lettori, non dovrebbero essere snobbati o condannati, ma incoraggiati. Spesso i piccoli lettori di fumetti crescono mantenendo vivo l’amore per la lettura;

9) Fate che la lettura sia un momento divertente: come accennato leggere dovrebbe essere percepito come un’attività piacevole, non l’ennesima incombenza da svolgere. Se il massimo del dialogo in casa è: ‘ma perché non molli la playstation e ti prendi un libro?’, molto difficilmente il bambino penserà alla lettura come una cosa positiva, anzi l’assocerà ad una sorta di punizione. Cercate di connetterla invece a qualcosa di positivo, di bello, di condiviso. Provate a farlo assieme, chiedete loro da cosa siano incuriositi, dimostratevi interessati, come vorreste che loro fossero per la stessa lettura. Costruite un momento di condivisione piacevole e cercate di condividere anche altri interessi. Tornando alla playstation precedente, non create l’equazione videogiochi=male:libri=bene. Queste polarizzazioni non funzionano e non rendono giustizia ai diversi interessi che un bimbo o un ragazzo riescono a coltivare;

10) Leggere non è tutto: lo dico da persona amante della lettura, ma leggere non è tutto. La nostra realtà quotidiana è profondamente cambiata e i bambini come i ragazzi, sono esposti ad una serie continua di stimoli che rende la concentrazione nella lettura ancora più complessa, creando ancora più distinzione tra una realtà, spesso virtuale, percepita come viva e mutevole, e il mondo dei libri spesso percepito come noioso e statico. Questa differenza rende se possibile ancora più problematico l’approccio con la lettura e allontana i piccoli lettori da un mondo che spesso rifiutano senza neanche dargli una possibilità. Sta agli adulti che lo circondano cercare di superare questa separazione e rendere viva e coinvolgente, alla pari di altri stimoli, anche l’esperienza legata alla lettura.

Anche in questo caso, come in altri post, quelle che avete letto non vogliono essere regole quanto suggerimenti che spero aiutino a relazionarsi meglio col mondo dei piccoli.

Resto a disposizione con chi volesse/potesse condividere la sua esperienza: può farlo contattandomi per mail (fabrizioboninu@gmail.com) oppure lasciando un commento. 

A presto…

Fabrizio Boninu

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Come aiutare i bambini ad amare la lettura? (1)

bambini e libriInterno: studio. Primo incontro con i genitori di Matteo. Io: ‘Come trascorre le giornate in casa, Matteo?’, mamma: ‘Guardi, non fa nulla tutto il giorno, passa gran parte del tempo di fronte alla tv o con la playstation, è sempre attaccato a qualcosa di elettronico, non lo abbiamo mai visto prendere di sua iniziativa un libro in mano. Ma cosa dovremmo fare per farlo leggere?’
Già, cosa dovremmo fare noi adulti per far interessare i bambini o i ragazzi alla lettura? Parlo da appassionato lettore oltre che da psicologo. Per far fronte a richieste di queste tipo, e tenendo in considerazione la ripresa dei loro impegni scolastici, ho immaginato di stilare un rapido catalogo di quelle che potrebbero essere dei suggerimenti (niente regole!) per cercare di favorire questa attività anche con i nostri ragazzi. Attirati dal veloce e accattivante mondo dei videogiochi, circondati da internet o social network a qualunque ora del giorno (e spesso della notte!) ed in qualunque circostanza, bambini e ragazzi sono semplicemente all’oscuro di quanto possa essere altrettanto viva e vivida l’avventura vissuta grazie alla loro fantasia e ad un buon libro. Cosa possiamo fare per rendere questa esperienza più frequente?

Questo elenco vi aiuterà a rendere più agevole il percorso:

 

1) Non associate la lettura con i compiti scolastici: spesso i bambini si avvicinano alla lettura solamente perché costretti dalla scuola per attività di ricerca o come compito, stabilendo, quindi, la relazione ferrea per cui leggere equivalga ad un dovere. Uno dei primi lavori da fare sarebbe proprio questo: spezzare il legame lettura=compito, cercando di rendere l’attività della lettura indipendente dall’attività dello studio o dello svolgimento dei compiti. Spezzata questa connessione, il bambino si sentirà libero di scegliere cosa e quando leggere e non si sentirà costretto a farlo per una scadenza;

2) Proponiamo libri che piacciano a lui non a noi: il secondo punto è strettamente legato al primo: dato che il bambino non dovrebbe leggere libri perché obbligato (dagli adulti, dalla scuola, ecc ), dovremmo stare attenti a proporre libri che rientrino nei suoi interessi. Questo comporta che gli adulti intorno a lui prestino attenzione agli interessi manifestati dai ragazzi, e quindi abbiano una conoscenza delle realtà che li coinvolgono e delle loro passioni. Evitiamo una riproposizione pedissequa di ciò che è piaciuto a noi e che, per quanto ci secchi ammetterlo, potrebbe essere totalmente passato di moda! Cerchiamo di evitare termini come: ‘è un classico’ o ‘è un capolavoro’, frasi che sottilmente sottintendono quanto, invece, quello che leggono loro non lo sia per nulla e non lo diventerà mai. Ricordiamoci che stiamo cercando di insegnare loro ad apprezzare la lettura, non a costruire dei nostri cloni, anni dopo l’originale;

3) Diamo per primi l’esempio: è molto facile predicare senza essere coinvolti. Un bambino impara più dall’esempio che dalle parole. Se non vede nessun adulto intorno a lui prendere in mano un libro difficilmente sarà a sua volta invogliato a farlo. Sarebbe bene, quindi, prima di gridare allo scandalo di quanto i nostri figli non leggano, cercare di capire quanto siamo per loro esempi per l’attività che richiediamo;

4) Leggete assieme: una delle cose che generalmente i bambini amano di più, è che qualcuno racconti loro una storia. Se potete, abituateli fin da piccoli a sentirvi leggere storie, per condividere, oltre al tempo che passerete assieme facendolo, anche un viaggio con la fantasia. Cercate di non perdere col tempo questa abitudine: anche se cresciuti, se state leggendo un libro che vi appassiona, costruite un momento per condividerlo: leggetelo assieme oppure chiedete loro un parere. Questo gesto permetterà diversi movimenti: da una parte potrebbe incuriosirli e spingerli a voler sapere cosa accade nel resto del libro (e per quale motivo vi abbia catturato quel libro!), saprà che leggere è per voi un’attività ancora ricca di passione e costituirà un piccolo, ulteriore ponte comunicativo tra i vostri interessi e loro;

5) Rispettiamoli: come detto prima stiamo cercando di far crescere in loro l’interesse per la lettura, non creare dei nostri cloni. Se il nostro obiettivo è quello di allontanarli dalla lettura, non dobbiamo far altro che trattarli come piccoli illetterati che non capiscono nulla di quello che stanno leggendo/recensendo/criticando e che non comprendono la bellezza di ciò che proponiamo loro. Questo atteggiamento difficilmente si concilia con la creazione di uno spirito critico. Leggere equivale anche a costruire, come per molte altri aspetti, i propri personali gusti. Siamo in grado di accettare che i loro non coincidano con i nostri?

– CONTINUA –

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Storie di ordinaria sofferenza

Storie di ordinaria sofferenzaUn giorno come tanti, in studio. Il penultimo appuntamento di un martedì è con un ragazzo nuovo. Lo chiameremo Luca.

Luca, per quanto odi questo termine, è un ‘normale’ ragazzo di 12 anni. Va bene a scuola, fa sport, è integrato nel gruppo dei suoi amici. Apparentemente non ha nulla di cui parlare e, perlomeno nei primi istanti, mi chiedo cosa ci faccia li con me. Avverto un non detto, una paura che aleggia sopra la normalità della sua vita di dodicenne. Mi  racconta tante cose, è aperto e si fida della mia curiosità, mi racconta delle sue passioni, mi introduce ai suoi sentimenti. Come se stesse entrando in un territorio minato, avverto il cambio di clima emotivo e, mentre inizia a parlare del fratello spiazzandomi, come solo gli adolescenti riescono, inizia a piangere.

Piange molto, piange lacrime amare che cerca di nascondere. Piange e io non so che fare. Non riesco a capire cosa lo abbia fatto piangere, non riesco a capire che cosa lo stia spaventando tanto, non riesco a capire cosa stiano esprimendo quelle lacrime. Non so se fermarmi o se chiedergli cosa non vada, se interpreterà meglio il mio silenzio o le mie parole. Alla fine è lui a spezzare il momento. Sempre continuando a piangere, mi dice che è così triste perché una persona ha apostrofato suo fratello col termine ‘frocio’. Ci sta male, soffre per la cattiveria delle persone e sente di non essere in grado di proteggere il fratello dall’insensibilità altrui.

Mi trovo subito a pensare cosa fare. Cercare di fargli capire quanto le persone a volte siano insensibili e non si accorgano di quanto possano fare male? Cercare di fargli comprendere quello che sente? Il mio voler fare non mi permette bene di accorgermi di ciò a cui sto assistendo: il mio spiazzamento di fronte alla bellezza, alla pulizia dei sentimenti di un ragazzo che piange per il modo ignobile in cui viene apostrofato il fratello. Mi inorgoglisce pensare di avere a che fare con una persona così bella. Penso che se ci fossero tante persone così, il mondo sarebbe un posto migliore, le persone baderebbero di più a non ferirsi. La verità è che mi emoziona. Mi emoziona profondamente. Mi fa, per l’ennesima volta, amare profondamente quello che faccio, mi fa amare il mio privilegio di poter assistere, spesso nascosta dietro alla sofferenza e alle lacrime, alla bellezza delle persone. Mi emoziona profondamente poter pensare al grande insegnamento che, magari del tutto inconsapevolmente, questo ragazzo mi sta dando. Mi emoziona profondamente la sensibilità con la quale riesce ad aprirsi davanti ad uno sconosciuto e comunicare in un solo istante le paure che prova. Mi emoziona e lo ringrazio per questo.

Sono convinto che condividere un disagio di questo tipo sia profondamente terapeutico, perché diamo la possibilità a noi stessi di far emergere i sentimenti che temiamo e che non sappiamo come gestire. Ed è profondamente terapeutico trovare una persona che non rimane indifferente a ciò che ti ferisce.

Di un’altra cosa sono convinto: di quanto profondamente mi rattristi che un ragazzo debba piangere perché le persone non accettino che il fratello potrebbe essere omosessuale. Per l’ignoranza che ancora circonda le scelte di vita che una persona può (o può non) fare. Per la superficialità con la quale le persone spesso feriscono. Non ho soluzioni per quello che mi racconta, non posso prepararlo a proteggere meglio il fratello di quanto non faccia, ne a cambiare le persone. Posso solo invitarlo a comunicare quello che prova, in primis al fratello stesso, lasciando che sappia che l’epiteto che gli rivolgono lo colpisce molto, gli provoca tutta una serie di emozioni. E che sappia che quello che prova o quello che deve subire il fratello non lascia tutti indifferenti.

A cominciare da me. 

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

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La costruzione di un buon dialogo interiore (1)

dialogo interiore2Il post di oggi  ha come tema la costruzione e lo sviluppo del proprio personale dialogo interiore. Cosa si intenda con questa espressione è presto detto: il dialogo interiore è la capacità che abbiamo di parlare con noi stessi. Sembra una cosa di poco conto, penserete. Chi non è in grado di parlare con se stesso? In realtà non è così scontata perché se è vero che è un’attitudine che abbiamo da sempre, è anche vero che ciò che fa la differenza è quanto riusciamo a prestare attenzione a cosa ci diciamo e al modo in cui ce lo diciamo. La premessa fondamentale per avere un buon dialogo interiore riguarda il fatto che si abbia una buona capacità introspettiva, la capacità in altre parole di guardare in se stessi. Se manca questa è molto difficile che si possa avere la consapevolezza di ciò che ci si vuol dire. Quante volte ci capita di parlare tra noi e di non avere la più pallida idea di ciò che ci si sta dicendo? Questo dialogo avviene in continuazione rispetto a quello che succede nella nostra vita e, dato che costituisce una realtà assodata della nostra stessa esperienza, spesso non ci facciamo caso, non ne siamo per nulla consapevoli e ce ne rendiamo conto solo nel momento in cui questo dialogo provoca una forte emozione (rabbia, smarrimento, paura ecc). La vera differenza, allora, a mio avviso è data soprattutto dalla capacità di ascoltarsi. Ascoltarsi, infatti, prevede che mettiamo attenzione a ciò che ci diciamo.

Abbiamo detto che possediamo questa capacità di parlarci, sia a voce alta che a mente, da sempre. Credo invece che la capacità di prestare attenzione a ciò che stiamo dicendo sia una capacità acquisita e che dipenda molto dalle relazioni che riusciamo a costruire con le persone ed, in ultima analisi, con noi stessi. La capacità di ascolto è costruita sulla relazione con gli altri nel momento in cui viene interiorizzata. Mi spiego meglio: credo dipenda da come ci ascoltano gli altri, dal continuo rimando rispetto a ciò che diciamo, da ciò che ci restituiscono col dialogo le altre persone, a come questo ci fa riflettere su noi stessi. Tramite questo riusciamo a portare sempre più consapevolezza in ciò che avviene in noi, nei nostri pensieri e nei nostri dialoghi. Più sperimentiamo questo dialogo, più iniziamo a sperimentare la necessità dell’ascolto, dapprima degli altri rispetto a quello che diciamo per poi interiorizzarlo e farlo nostro. Questo confronto è necessario durante tutta la vita, ma una delle fasi della vita nelle quali gli individui iniziano a sperimentare in maniera molto forte la necessità di ascolto è sicuramente l’adolescenza. E’ il periodo della vita nel quale il dialogo deve necessariamente passare dall’esterno all’interno, passare, cioè, dalla prospettiva che siano gli altri a dirci cosa sia o non sia giusto fare (tipico del punto di vista dei bambini), all’idea che possiamo iniziare a diventare autonomi nell’esplorare le infinite possibilità che riguardano la nostra vita. Questo porta spesso gli adolescenti ad un disperato bisogno di condividere ciò che sta succedendo e di riceverne delle restituzioni. Porta anche spesso ad un isolamento nel momento in cui non ci si sente ascoltati e nessuno sembra capire quanto sia importante quello che si ha da condividere.

Il brano che vi riporto riassume ciò che intendo dire e quanto il dialogo interiore debba, per crescere e diventare sempre più consapevole, essere supportato dal dialogo reale:

Diviene cruciale, come adulti, impegnarsi perché i nostri figli sperimentino quindi un clima di ascolto e dialogo ideale, sia in famiglia che a scuola. Questa è la premessa fondamentale per generare competenze non soggetto in età evolutiva. Crescere deve significare prima di tutto imparare a dialogare e ascoltarsi in modo efficace e competente, fattore di protezione che eviterà al minore di fuggire in territori a rischio, alla ricerca di facili compensazioni presentate come attraenti dal mondo esterno. È inoltre di fondamentale importanza che sviluppino un sano dialogo interiore, basato su un atteggiamento di positiva introspezione. È questa una risorsa di indubbio valore che li aiuta a elaborare elementi e informazioni dalle proprie esperienze passate e presenti, a valutare i pro e i contro e prevedere le possibili conseguenze derivate dalle loro scelte e dalle loro azioni. Tale capacità di sapere conversare con se stessi condiziona il modo con cui essi interagiscono e rispondono agli stimoli provenienti dal mondo esterno. In particolare, acquisiranno l’abilità di fare scelte in base al proprio sentire, e non perché sollecitati o spinti da altri. Se i minori non sentono di poter contare sulle proprie voci interne, danno sempre molto peso alle voci provenienti dall’esterno.[1]

– Continua –

[1] Pellai, A. (2012), Questa casa non è un albergo!, Feltrinelli, Milano, pp. 186-188

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A scuola di violenza

A scuola di violenzaSono rimasto colpito, come molti di voi credo, dall’ennesimo caso di cronaca riguardante un episodio di violenza scolastica. In breve il racconto (come apparso sul quotidiano L’Unione Sarda): un insegnante di disegno di una scuola di Cagliari, è stato denunciato dai genitori di un suo alunno sedicenne perché lo avrebbe schiaffeggiato. L’episodio risale al 29 ottobre scorso. Sempre stando a quanto riportato dal quotidiano, il ragazzo era stato ripreso diverse volte perché disturbava la lezione ed era stato infine mandato fuori dall’aula. Il professore sostiene di essere stato aggredito dal ragazzo e di avergli dato uno schiaffo per difendersi. Nell’articolo si riporta anche la posizione dei genitori del ragazzo che qualificano l’episodio come ingiustificabile.

A corredo dell’articolo, i commenti dei lettori all’episodio rendono molto bene la posizione generale su questo tipo di episodi: ‘Non credo che il professore abbia torto ma credo che i genitori oltre allo schiaffo del prof dovrebbero darglielo anche loro. Coraggio prof io sono con te.’, ‘Il prof. ha fatto benissimo, due ceffoni ben dati quando ci vogliono fanno solo bene. Io li darei anche a certi genitori che sono più cafoni dei loro figli’, ‘Siamo arrivati all’assurdo non solo non sono in grado di educare i figli ma si permettono pure di denunciare. …… mio padre mi avrebbe preso a calci …..povera Italia !’, ‘Se i fatti si sono svolti come riporta la cronaca:PIENA SOLIDARIETÀ AL DOCENTE. Sono una madre di tre figli e ho avuto molto dalla scuola per i miei ragazzi, ai quali ho sempre insegnato rispetto per le istituzioni’, e ancora ‘Se ai miei tempi un insegnante fosse arrivato al punto di darmi uno schiaffo e lo avessi riferito a casa ne avrei preso il doppio dai miei genitori’, ‘Confido nel Giudice chiamato ad esprimersi sull’accaduto affinché dia un paio di calci nel sedere a quel genitore degno di cotanto figlio!’, ‘Purtroppo questi teppisti da strapazzo riescono a compromettere la vita è la serenità di una intera comunità provocando all’inverosimile e non consentendo di fare lezione.. Ma la cosa grave è che sono anche spalleggiati da genitori incapaci ad educare che in queste situazioni hanno sempre la denuncia facile per raggranellare qualche soldo. Fosse stata mia madre, lui avrebbe aggiunto su me altri sonori ceffoni dopo quello del professore’, ‘Difesa totale nei confronti del professore’, e infine ‘Perché non denunciarli ai tribunali dei minori per l’inadeguatezza della loro educazione?’.

Il tono dei commenti è sorprendentemente simile. Sostanzialmente abbiamo la condanna dei genitori, la condanna del ragazzo e il supporto dell’insegnante. Lo schieramento è palese. Nessuno si chiede cosa abbia fatto degenerare in questo modo la situazione. Nessuno ipotizza che questo sia solo l’ultimo anello di una catena molto lunga che vede noi adulti coinvolti nella sempre più marcata incapacità di fornire modelli positivi ai ragazzi. Si parte lancia in resta con l’accusa, non sembra esserci spazio per una riflessione, per un’interrogarsi che non ha facili ricette.

Il disagio all’interno delle scuole sta diventando sempre più evidente e palpabile, ed è qualcosa che travalica sempre più spesso il contesto scolastico e assurge a fatto di cronaca. Alcuni punti sembrano però chiari e compaiono anche in questa vicenda: il più evidente è l’allentamento dell’alleanza genitori/insegnanti. Se un tempo c’era il riconoscimento sociale del ruolo dell’insegnante e della sua funzione educativa, ora spesso sembra di assistere ad una battaglia tra due eserciti schierati che sembrano non condividere gli stessi obiettivi. In questo scollamento gli insegnanti si trovano soli a fronteggiare difficoltà che, per paura che sfocino in denunce, vengono lasciate perdere e non contenute. Quest’ultimo aspetto, il ricorso frequente a denunce, non fa che esacerbare ulteriormente le posizioni, disimpegnando gli insegnanti.

Qual è la soluzione a tutto questo? Non ho facili consigli da dare, perché ritengo la situazione particolarmente complessa. Mi vengono in mente, invece, una serie di condizionali: andrebbe rivista la nostra scelta educativa, andrebbe favorito il confronto tra posizioni diverse, andrebbe coltivato il rispetto delle persone e della loro funzione, andrebbe svelenito il clima, andrebbe rinsaldata l’alleanza tra le figure che, a vario titolo, si occupano dell’educazione dei ragazzi. Andrebbero fatte tante cose in effetti. Andrebbe anche evitato uno schieramento aprioristico su posizioni facili (ha ragione l’insegnante/hanno ragione i genitori) che non solo ci fanno perdere la complessità della vicenda, ma che temo non aiutino a comprendere quello che succede.

Che ci sia spesso un atteggiamento esecrabile da parte di alcuni ragazzi è, purtroppo sempre più frequente. Che quei ragazzi siano cresciuti con modelli adulti quantomeno discutibili è un altro tassello del puzzle. Che le cose possano essere risolte additando un colpevole, questo è un aspetto del quale non sono poi tanto sicuro

Come sempre chi volesse/potesse condividere la sua esperienza può farlo contattandomi per mail (fabrizioboninu@gmail.com) oppure per telefono (3920008369). 

 

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

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Alunni, insegnanti & Facebook

Alunni, insegnanti & FacebookEccoci nuovamente a settembre. L’inizio di un nuovo anno scolastico porta sempre con sé un misto di paure e desideri. Lavoro spesso con ragazzi che frequentano le scuole e mi capita di interagire anche con i loro insegnanti. Il rapporto tra questi due ruoli è sempre stato complesso e delicato nella nostra società per la funzione che svolgono ma, negli ultimi tempi, si è aggiunto un fattore nuovo, i social network come Facebook o Twitter, che rendono il quadro ancora più complesso. Avendo a che fare con persone che si occupano di scuola, capita  di sapere che i ragazzi chiedano di interagire in tanti modi, così che possano avere un contatto diretto con, per esempio, gli insegnanti. Hanno la mail personale, spesso formano con altri studenti gruppi su Whatsapp che consentono di comunicare con tutti i membri della classe, hanno i contatti di Facebook tramite i quali possono interagire con gli insegnanti stessi.

Da questa disponibilità nasce il dilemma: questa possibilità di contatto aiuta od ostacola il rapporto tra alunni e docenti? Credo che l‘interazione possa essere particolarmente proficua per entrambi gli attori in gioco sempre che si sia consapevoli dei mezzi che vengono utilizzati e, soprattutto, che vengano osservate alcune semplice regole da ambo le parti: entrambi dovrebbero per esempio prestare attenzione a non sovrapporre il proprio profilo scolastico con quello privato: quest’ultimo dovrebbe, a mio avviso, essere distinto da quello che si usa per scuola. La sovrapposizione e mescolanza di profilo pubblico e privato ingenera una serie di confusioni che non sono facilmente gestibili nell’ambito di un rapporto come quello tra alunni ed insegnanti.  

Altro fattore che gli insegnanti dovrebbero prendere in considerazione riguarda lo sbilanciamento di potere nel rapporto tra loro e gli alunni. Il rapporto infatti non è paritario, ed è impossibile che lo diventi nel momento in cui sono amici su Facebook. La relazione è sbilanciata da una serie di disparità, prima fra tutte quella per cui un professore, per lavoro, giudica il suo alunno. Sarebbe più proficuo, quindi, non giocare a fare gli amici dei propri allievi: i ragazzi possono trovare amici tra i coetanei; se ricercano la presenza di un adulto è perché desiderano qualcuno che, affiancandoli, possa aiutarli nelle loro scelte

Da questo punto ne consegue un altro: se i professori e gli alunni condividessero la bacheca di Facebook questo probabilmente potrebbe portare ad una minore libertà e ad una minore spontaneità nel comportamento dei ragazzi. Tanto per fare un esempio: come potrebbero dei ragazzi scherzare su un professore della loro scuola se uno stesso insegnante della scuola è presente e legge le loro bacheche? Anche se virtuale, la bacheca di Facebook (o di Twitter, o di Instagram ecc) è uno spazio privato anche se nell’era della condivisione totale andrebbe ridefinito il significato delle parole privato o pubblico. Proprio questa possibile confusione potrebbe ingenerare fraintendimenti complicati da gestire rispetto al ruolo, alla professione, al pubblico e al privato, al rapporto che si può costruire tra alunni e insegnanti.

Quale soluzione può esserci? Ostracizzare il mondo virtuale come luogo di comunicazioni non rientra nei miei obiettivi (sarebbe abbastanza strano screditare un aggettivo che compare nel nome del mio sito!), ma credo sia necessario trovare un modo per interagire che possa permettere ad entrambi gli attori in gioco di far si che l’esperienza sia positiva. Se per esempio i ragazzi potessero accedere ad una pagina di discussione con gli insegnanti che fosse solo professionale, si potrebbe creare uno spazio di incontro ulteriore tra alunni ed insegnanti. 

La materia è attualmente discussa e diverse sono le correnti di pensiero. Alcune scuole nel mondo sono arrivate a vietare per regolamento questo tipo di realtà: (qui un articolo che si occupa della materia). In Italia non si hanno ancora notizie di scuole che abbiano fatto passi di questo tipo. Insomma una materia in divenire, che rende necessario riflettere circa una maggiore consapevolezza nell’utilizzo di questi mezzi. 

Come sempre se ci fossero insegnanti o ragazzi o genitori che volessero/potessero condividere la loro esperienza possono farlo contattandomi per mail (fabrizioboninu@gmail.com) oppure per telefono (3920008369). 

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

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Ci siamo separati a causa di nostro figlio!

Ci siamo separati a causa di nostro figlio!Il post di oggi prende spunto da una aspetto che noto spesso durante le terapie nelle quali sia coinvolta una famiglia con almeno un figlio. Vi ho già descritto il mio modo di lavorare con i bambini o con ragazzi adolescenti: quando il ragazzo (o la ragazza!) è minorenne, invito i genitori per conoscere meglio quella che è la situazione familiare. Capita allora che i genitori, soprattutto ma non solo, quando è presente un figlio adolescente, inizino a raccontare di come divergano le strade educative tra i due. Il papà accusa la madre di essere troppo indulgente e bonaria, la madre si difende dicendo che sa invece come prendere il figlio/a e accusa a sua volta il partner di non saper ‘maneggiare’ i figli e di essere, al contrario, troppo rigido e severo. Mi è capitato che questa ‘lotta educativa’ fosse talmente forte ed esasperante, che in alcuni casi entrambi ritenevano fosse meglio separarsi piuttosto che condividere queste differenze così marcate nello stile educativo dei figli. Queste divergenze insanabili rispetto al modo con cui affrontare l’educazione dei figli non è altro che, a mio avviso, la classica ciliegina sulla torta. E’ quantomeno inverosimile che un figlio, per quanto sia provocatorio, sopratutto durante l’adolescenza, possa portare due persone che condividono una stessa visione del loro ruolo genitoriale a separarsi per causa sua. E’ più probabile che quel figlio si sia infilato tra le crepe nel rapporto tra i suoi genitori e sia riuscito ad allargarle.

A questo proposito vi riporto il brano di un testo particolarmente interessante e piacevole da leggere. Si intitola Questa casa non è un albergo! Adolescenti: istruzioni per l’uso, ed è scritto da Alberto Pellai, medico e psicoterapeuta dell’età evolutiva, nonché conduttore della trasmissione radiofonica ‘Questa casa non è un albergo’ in onda su Radio24 e che ha raccolto in questo testo parte delle esperienze e delle comunicazioni che quotidianamente arrivano in trasmissione:

L’ingresso in adolescenza pone un figlio di fronte ad un dato di fatto: il suo bisogno di lealtà, la sua idealità, la sua voglia di riparare ciò che la vita gli ha fatto trovare ‘rotto’, spesso lo spingono a smascherare le ipocrisie del mondo degli adulti. Sono numerosi i figli che provocano e istigano i propri genitori a entrare in crisi in modo manifesto, quasi approfittando della propria adolescenza. Tantissime mamme papà approdano in consulenza psicologica dichiarando di essere sulle soglie della separazione per colpa dei differenti punti di vista sull’educazione di un figlio.

Anche nell’esperienza della trasmissione radiofonica, molti genitori attaccano dicendo ‘con mio figlio è un vero disastro’ ma, interpellati sull’intesa di coppia di fronte alle crisi del figlio, concludono la conversazione affermando ‘con il mio/a compagno/a di vita è un vero disastro’. 

Allora torniamo all’inizio: nessun figlio può essere la causa di separazione dei propri genitori. La coppia coniugale non si sfascia di fronte alle fatiche educative imposta dalla crisi di crescita di un figlio. Solitamente i compiti educativi per un figlio diventano distruttivi per una coppia perché si innestano su un terreno d’intesa molto fragile a causa della scarsa intesa che già preesiste tra uomo e donna.[1] 

Sono d’accordo con quanto sostiene l’autore. Credo sia improbabile che un figlio, qualunque sia l’età, possa essere causa della rottura del rapporto tra i genitori. Può sicuramente essere un fattore enorme di stress per il rapporto stesso, ma ribadisco il fatto che se esiste una condivisione rispetto al ruolo educativo che i due genitori sentono di svolgere è inverosimile che un figlio ne causi la rottura, per quanta forza possa mettere nell’attaccare il legame.

Spesso i figli sembrano introdursi con la forza nei ‘punti deboli’ della coppia genitoriale: questo processo è teso più a verificare la robustezza e la veridicità del legame delle persone che lo circondano, e quanto queste, soprattutto i suoi stessi genitori, possano reggere e reggerlo. Ma questo ‘attacco’ non è rivolto allo sfaldamento del legame coniugale, quanto piuttosto a testarne la valenza. Non si può, dunque, attribuire a questo movimento, dettato tra l’altro dalla fase di vita che ragazzi adolescenti si trovano a vivere, la causa di un possibile allontanamento tra i membri della coppia genitoriale. Se si imputa al rapporto genitori-figli la causa dell’allontanamento tra i membri della coppia sono certamente possibili due aspetti: il primo è quello di trovare un facile capro espiatorio circa le difficoltà della propria relazione, il secondo aspetto rilevante è di non riuscire a vedere qual è stato il nostro ruolo nella accadere degli eventi. So che è una posizione decisamente più difficile, ma credo più utile per cercare di comprendere quello succede. 

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

[1] Pellai, A. (2012), Questa casa non è un albergo!, Feltrinelli, Roma, pag. 92

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Devo dire ai miei figli che mi voglio separare?

Devo dire ai miei figli che mi voglio separareLavoro spesso con adolescenti e con i loro genitori e capita che questi ultimi mi chiedano quale sia il modo migliore per affrontare una separazione. Ho notato come uno degli orientamenti più diffusi sia quello di cercare di nascondere il più possibile ciò che sta avvenendo in casa, convinti che questo sia il modo migliore per preservare la tranquillità dei figli da ciò che sta accadendo. Pur trovandolo un atteggiamento molto comprensibile da parte di genitori che sono già disorientati per quello che accade nella coppia genitoriale e non vogliono ‘infliggere’ le loro pene anche ai figli, ritenuti incolpevoli di ciò che sta avvenendo, non lo ritengo il modo più adatto per fronteggiare la situazione per diversi motivi:

  • presuppone che i figli non si accorgano di nulla; questa visione adultocentrica ipotizza che i ragazzi siano come del tutto inconsapevoli di ciò che li circonda e non siano in grado di accorgersi di ciò che avviene intorno a loro;
  • dal punto precedente deriva anche il pensiero che non possano comprendere ciò che sta succedendo, che tenerli fuori non possa che semplificare il problema e che, se dovessero venirlo a sapere, accrescerebbero ancora di più la problematicità della situazione;
  • si crea una sorta di autorizzazione alla menzogna emotiva, sostenendo una situazione che disorienta ulteriormente i ragazzi per la discrepanza tra ciò che viene mostrato e ciò che viene percepito in famiglia.

Ripeto: pur comprendendone le ragioni, trovo che questo modo di affrontare la situazione possa essere ancora più complesso da gestire. A maggior ragione se si parla di coppie con figli preadolescenti o adolescenti. A conferma di questa tesi, vi riporto il passo di un libro che, per l’appunto, si occupa del tema se sia meglio parlare di ciò che avviene in casa oppure cercare di mantenere un’impressione di unità nella famiglia: 

Sono davvero numerosi i casi in cui i due coniugi fingono di mantenere un alone di normalità all’interno della propria vita di coppia, illudendosi in tal modo di proteggere i figli. (…) a volte si scopre il tradimento di un coniuge, a volte entrambi si impegnano in relazioni extra coniugali mantenendo una vita comune sotto lo stesso tetto che è solo di facciata, spesso motivato dal fatto che ci sono figli.

A volte, invece, si resta sotto lo stesso tetto senza però conservare l’apparenza che tutto va bene. Così ogni giorno in casa scoppiano liti furibonde, di fronte agli stessi figli per i quali si decide comunque di non separarsi. È necessario che coppie così in crisi abbiano un supporto per fare chiarezza interiore. È naturale che a un figlio serva avere a disposizione un padre e una madre che vivono con lui sotto lo stesso tetto, ma tutto ciò deve anche prevedere un’unione sincera, intima e profonda tra i due coniugi. Se tale condizione non esiste, allora è bene che i due genitori comprendano le molte implicazioni emotive nelle quali i figli si trovano spesso intrappolati. Obbligare i figli a partecipare alla messinscena di una famiglia che sta insieme per convenienza, per routine oppure per evitare di affrontare la fatica di una crisi e di una separazione, significa imbastire la quotidianità sull’ordito della simulazione, della falsità, della verosimiglianza. E questo accade in un momento della vita dei figli in cui loro hanno soprattutto bisogno di verità, lealtà, sostanza e non forma. I figli di genitori che simulano sono spesso infastiditi  e arrabbiati dal ‘teatro’ al quale si trovano, loro malgrado, a fare da comprimari. È frequente sentir dire dalla voce di un adolescente: ‘molto meglio vivere con due genitori separati, piuttosto che partecipare alla messa in scena dei miei’. E la situazione si complica ulteriormente se i figli hanno il sospetto che i loro genitori abbiano avviato storie sentimentali parallele, condotte nella clandestinità. Proprio nel momento in cui devono investire sogni ed energie nella ricerca di un amore bello prezioso (…) si trovano tutti giorni a dover fare i conti con quello che resta della storia d’amore dei loro genitori. 
Insomma, è un bene che due genitori in crisi riflettano profondamente non solo su quello che sta succedendo alla loro coppia, ma anche sull’impatto che ciò comporta nel mondo dei pensieri e delle emozioni dei loro figli. A volte può succedere che l’unica via d’uscita consista proprio nel progettare una separazione che, pur tra gli innumerevoli problemi che implica nella vita di una famiglia, offre due innegabili vantaggi:
 
• anche affrontando una separazione, due genitori possono aiutare i figli a capire che l’amore è un valore troppo importante da difendere e che non può essere mascherato o sostituito con altro. Se si ha la certezza che una storia è finita, l’unico modo per difendere l’amore è smettere di confonderlo con ciò che non è;
 
• una separazione evita ai figli di convivere con madri e padri che spesso usano la relazione con loro come piattaforma sulla quale far convergere, invece, la loro incapacità di volersi bene. Un uomo e una donna che si separano devono avere chiaro che il loro impegno educativo dovrà farsi ancora più totale e coinvolto e che, mai e poi mai, il loro conflitto dovrà utilizzare l’educazione dei figli come campo di battaglia sul quale, invece, dovrà essere ricercato il massimo accordo possibile. [1]
 
Questo post è scritto pensando ad una coppia con figli adolescenti ma credo sia adatto anche a coppie che hanno figli più piccoli. La differenza potranno farla i genitori che si troveranno a dover calibrare al meglio possibile, in relazione all’età, alla personalità, alla sensibilità del proprio figlio, il modo con cui comunicare quello che sta accadendo. L’intento di questo passaggio non è quello di edulcorare la situazione, né di rende la realtà meno complessa da affrontare. Stabilisce semplicemente che la comunicazione possa avvenire anche sui cambiamenti dolorosi e traumatici che la famiglia si trova a dover vivere, e che questi passaggi non siano silenziati ma esplicitati e condivisi.
 
 
Come sempre chi volesse/potesse condividere la sua esperienza può farlo contattandomi per mail (fabrizioboninu@gmail.com) oppure per telefono (3920008369).
 

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

[1] Pellai, A. (2012), Questa casa non è un albergo, Feltrinelli, Milano, pp. 95-96 

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