Voglio sapere

cuore_e_animaNon mi interessa che cosa fai per guadagnarti da vivere. Voglio sapere che cosa desideri ardentemente e se osi sognare di soddisfare l’anelito del tuo cuore.

Non mi interessa la tua età. Voglio sapere se rischierai di passare per pazzo nel nome dell’amore, per i tuoi sogni, per l’avventura di essere vivo.

Non mi interessa in quale pianeta è la tua luna. Voglio sapere se hai toccato il centro del tuo dolore, se i tradimenti della vita ti hanno aperto
o se ti sei ritirato e chiuso per paura di nuove sofferenze. Voglio sapere se puoi stare col dolore, il tuo o il mio, senza fare niente per nasconderlo o dissolverlo o manipolarlo.

Voglio sapere se puoi stare con la gioia, la mia o la tua, se puoi danzare selvaggiamente e lasciare che l’estasi ti riempia dalla testa ai piedi senza ammonirci di essere cauti, o realistici, o ricordare i limiti dell’essere umano.

Non mi interessa se la storia che mi racconti è vera. Voglio sapere se tu puoi deludere qualcuno per essere vero con te stesso, se puoi sopportare l’accusa di tradimento e non tradire la tua anima, se puoi essere senza fede e quindi degno di fiducia.

Voglio sapere se puoi vedere la bellezza, anche quando non è graziosa, ogni giorno, e se puoi attingere la tua stessa vita dalla sua presenza.

Voglio sapere se puoi vivere nell’insuccesso, il tuo o il mio, e tuttavia stare sulla riva del lago è urlare alla luna piena argentata: ‘SI!’.

Non mi interessa sapere dove vivi o quanti soldi hai. Voglio sapere se puoi alzarti, dopo una notte di dolore e disperazione, sfinito e dolente, e fare ciò che va fatto per dar da mangiare ai bambini.

Non mi interessa sapere chi conosci o come sei arrivato ad essere qui. Voglio sapere se puoi stare in mezzo alle fiamme con me e non fuggire.

Non mi interessa sapere dove, che cosa o con chi hai studiato. Voglio sapere che cosa ti sostiene interiormente, quando intorno tutto crolla. Voglio sapere se puoi essere solo con te stesso e se veramente ami la compagnia che hai nei momenti di vuoto. [1]
 

A presto…

Fabrizio Boninu

[1] Oriah Mountain Dreamer, L’invito in Trobe, T., Trobe Demant, G. (2008), Fiducia e sfiducia, Feltrinelli, Milano, pag. 190

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Storie di ordinaria sofferenza

Storie di ordinaria sofferenzaUn giorno come tanti, in studio. Il penultimo appuntamento di un martedì è con un ragazzo nuovo. Lo chiameremo Luca.

Luca, per quanto odi questo termine, è un ‘normale’ ragazzo di 12 anni. Va bene a scuola, fa sport, è integrato nel gruppo dei suoi amici. Apparentemente non ha nulla di cui parlare e, perlomeno nei primi istanti, mi chiedo cosa ci faccia li con me. Avverto un non detto, una paura che aleggia sopra la normalità della sua vita di dodicenne. Mi  racconta tante cose, è aperto e si fida della mia curiosità, mi racconta delle sue passioni, mi introduce ai suoi sentimenti. Come se stesse entrando in un territorio minato, avverto il cambio di clima emotivo e, mentre inizia a parlare del fratello spiazzandomi, come solo gli adolescenti riescono, inizia a piangere.

Piange molto, piange lacrime amare che cerca di nascondere. Piange e io non so che fare. Non riesco a capire cosa lo abbia fatto piangere, non riesco a capire che cosa lo stia spaventando tanto, non riesco a capire cosa stiano esprimendo quelle lacrime. Non so se fermarmi o se chiedergli cosa non vada, se interpreterà meglio il mio silenzio o le mie parole. Alla fine è lui a spezzare il momento. Sempre continuando a piangere, mi dice che è così triste perché una persona ha apostrofato suo fratello col termine ‘frocio’. Ci sta male, soffre per la cattiveria delle persone e sente di non essere in grado di proteggere il fratello dall’insensibilità altrui.

Mi trovo subito a pensare cosa fare. Cercare di fargli capire quanto le persone a volte siano insensibili e non si accorgano di quanto possano fare male? Cercare di fargli comprendere quello che sente? Il mio voler fare non mi permette bene di accorgermi di ciò a cui sto assistendo: il mio spiazzamento di fronte alla bellezza, alla pulizia dei sentimenti di un ragazzo che piange per il modo ignobile in cui viene apostrofato il fratello. Mi inorgoglisce pensare di avere a che fare con una persona così bella. Penso che se ci fossero tante persone così, il mondo sarebbe un posto migliore, le persone baderebbero di più a non ferirsi. La verità è che mi emoziona. Mi emoziona profondamente. Mi fa, per l’ennesima volta, amare profondamente quello che faccio, mi fa amare il mio privilegio di poter assistere, spesso nascosta dietro alla sofferenza e alle lacrime, alla bellezza delle persone. Mi emoziona profondamente poter pensare al grande insegnamento che, magari del tutto inconsapevolmente, questo ragazzo mi sta dando. Mi emoziona profondamente la sensibilità con la quale riesce ad aprirsi davanti ad uno sconosciuto e comunicare in un solo istante le paure che prova. Mi emoziona e lo ringrazio per questo.

Sono convinto che condividere un disagio di questo tipo sia profondamente terapeutico, perché diamo la possibilità a noi stessi di far emergere i sentimenti che temiamo e che non sappiamo come gestire. Ed è profondamente terapeutico trovare una persona che non rimane indifferente a ciò che ti ferisce.

Di un’altra cosa sono convinto: di quanto profondamente mi rattristi che un ragazzo debba piangere perché le persone non accettino che il fratello potrebbe essere omosessuale. Per l’ignoranza che ancora circonda le scelte di vita che una persona può (o può non) fare. Per la superficialità con la quale le persone spesso feriscono. Non ho soluzioni per quello che mi racconta, non posso prepararlo a proteggere meglio il fratello di quanto non faccia, ne a cambiare le persone. Posso solo invitarlo a comunicare quello che prova, in primis al fratello stesso, lasciando che sappia che l’epiteto che gli rivolgono lo colpisce molto, gli provoca tutta una serie di emozioni. E che sappia che quello che prova o quello che deve subire il fratello non lascia tutti indifferenti.

A cominciare da me. 

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

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La costruzione di un buon dialogo interiore (2)

dialogo interiore2Una delle tematiche nelle quali in adolescenza è indubbiamente necessario sviluppare un buon dialogo interno è sicuramente il tema della sessualità:

Ugualmente, il supporto che ragazzi devono ricevere li metterà nelle condizioni di saper fronteggiare e avere controllo sulle influenze provenienti dal mondo esterno, in particolare in tema di sessualità. È fondamentale che ogni genitore e insegnante li aiuti a sapersi districare nella giungla di condizionamenti negativi che cercano di incidere sullo sviluppo psicofisico, sull’adozione di attitudini e valori che si traducono poi in scelte comportamentali e stili di vita. Solo avendo a disposizione adulti competenti e aperti, disponibili a parlare e ad essere di orientamento in un percorso tortuoso quale è spesso l’educazione sessuale, preadolescenti e adolescenti potranno interiorizzare messaggi significativi che diventeranno di riferimento in momenti cruciali della propria vita. In questo senso è fondamentale che i genitori, in primo luogo, se possibile supportati dalla scuola, riescano a definire i tempi e modi di un’educazione affettiva e sessuale che sappia comunicare il valore relazionale ed emotivo che la sessualità riveste nella vita di ciascuno di noi, allontanando all’equazione che sempre più spesso il mercato gli stessi media propongono i ragazzi per cui la sessualità viene esclusivamente identificata con uno strumento che procura eccitazione e piacere. [1]

L’autore sottolinea come sia necessario sviluppare un dialogo interiore per evitare che il peso delle voci che provengono dall’esterno non abbiano un contraltare e possano così avere campo libero. Se così fosse, come spesso succede in adolescenza, si rischierebbero comportamenti dettati più dalle spinte esterne che dalle motivazioni interne. Questa capacità porterà ad agire in base al proprio sentire. La focalizzazione riguarda il tema della sessualità che in adolescenza gioca un ruolo molto forte anche a causa dei cambiamenti fisici che caratterizzano questo periodo della vita. Se un adolescente non è riuscito a costruire un buon dialogo su queste tematiche con una persona per lui significativa, correrà il rischio di non riuscire ad instaurare un suo dialogo circa quelle che poi saranno le sue stesse scelte sessuali. Se non è riuscito ad instaurare un dialogo con l’altro, probabilmente incontrerà difficoltà anche nel dialogo con se stesso (o stessa naturalmente!), non avrà una posizione sua rispetto a quello che succede intorno a lui. Potrà essere disorientato e temere quello che può succedere dal momento che non ha idea di cosa provocherà in lui.

Gli esiti possono essere estremi come spesso accade in adolescenza: il ragazzo potrà buttarsi a capofitto nell’agito, nascondendo la paura per ciò che sta succedendo, dimostrando ancora una volta che non è necessario nessun dialogo interiore, nessuna consapevolezza nel fare le cose. Oppure, di contro, essere timoroso ed evitante riguardo alla sfera sessuale. Nel primo caso avremo un adulto che continua a non essere in grado di instaurare un dialogo con se stesso, nel secondo una persona spaventata da ciò che non conosce. Naturalmente sono posizioni estreme che, nella loro purezza, non esistono. Sono, però, indicative di due diversi atteggiamenti nei confronti di diverse realtà che, secondo me, sono imparentate dalle stesse cause: l’incapacità nella costruzione di un proprio dialogo interiore.

È dunque necessario che questo processo venga non solo messo in moto ma anche coltivato nel tempo di modo da riuscire ad attecchire nella mente e nel cuore dei giovani ragazzi. Solo così sarà possibile autonomizzarli, rendendoli in grado di capire il valore delle scelte che effettuano ogni giorno. E solo così saranno scevri dalla possibilità che si trasformino in burattini nelle mani di voci esterne, voci che spesso, solo per il fatto di urlare di più, vengono considerate più credibili.

Ed il punto di partenza di questa piccola rivoluzione è alla portata di tutti: basta semplicemente imparare a prestare loro attenzione.

Che ne pensate? Che tipo di dialogo interiore siete riusciti a costruire con voi stessi?

A presto…

Fabrizio Boninu

[1] Pellai, A. (2012), Questa casa non è un albergo!, Feltrinelli, Milano, pp. 186-188

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La costruzione di un buon dialogo interiore (1)

dialogo interiore2Il post di oggi  ha come tema la costruzione e lo sviluppo del proprio personale dialogo interiore. Cosa si intenda con questa espressione è presto detto: il dialogo interiore è la capacità che abbiamo di parlare con noi stessi. Sembra una cosa di poco conto, penserete. Chi non è in grado di parlare con se stesso? In realtà non è così scontata perché se è vero che è un’attitudine che abbiamo da sempre, è anche vero che ciò che fa la differenza è quanto riusciamo a prestare attenzione a cosa ci diciamo e al modo in cui ce lo diciamo. La premessa fondamentale per avere un buon dialogo interiore riguarda il fatto che si abbia una buona capacità introspettiva, la capacità in altre parole di guardare in se stessi. Se manca questa è molto difficile che si possa avere la consapevolezza di ciò che ci si vuol dire. Quante volte ci capita di parlare tra noi e di non avere la più pallida idea di ciò che ci si sta dicendo? Questo dialogo avviene in continuazione rispetto a quello che succede nella nostra vita e, dato che costituisce una realtà assodata della nostra stessa esperienza, spesso non ci facciamo caso, non ne siamo per nulla consapevoli e ce ne rendiamo conto solo nel momento in cui questo dialogo provoca una forte emozione (rabbia, smarrimento, paura ecc). La vera differenza, allora, a mio avviso è data soprattutto dalla capacità di ascoltarsi. Ascoltarsi, infatti, prevede che mettiamo attenzione a ciò che ci diciamo.

Abbiamo detto che possediamo questa capacità di parlarci, sia a voce alta che a mente, da sempre. Credo invece che la capacità di prestare attenzione a ciò che stiamo dicendo sia una capacità acquisita e che dipenda molto dalle relazioni che riusciamo a costruire con le persone ed, in ultima analisi, con noi stessi. La capacità di ascolto è costruita sulla relazione con gli altri nel momento in cui viene interiorizzata. Mi spiego meglio: credo dipenda da come ci ascoltano gli altri, dal continuo rimando rispetto a ciò che diciamo, da ciò che ci restituiscono col dialogo le altre persone, a come questo ci fa riflettere su noi stessi. Tramite questo riusciamo a portare sempre più consapevolezza in ciò che avviene in noi, nei nostri pensieri e nei nostri dialoghi. Più sperimentiamo questo dialogo, più iniziamo a sperimentare la necessità dell’ascolto, dapprima degli altri rispetto a quello che diciamo per poi interiorizzarlo e farlo nostro. Questo confronto è necessario durante tutta la vita, ma una delle fasi della vita nelle quali gli individui iniziano a sperimentare in maniera molto forte la necessità di ascolto è sicuramente l’adolescenza. E’ il periodo della vita nel quale il dialogo deve necessariamente passare dall’esterno all’interno, passare, cioè, dalla prospettiva che siano gli altri a dirci cosa sia o non sia giusto fare (tipico del punto di vista dei bambini), all’idea che possiamo iniziare a diventare autonomi nell’esplorare le infinite possibilità che riguardano la nostra vita. Questo porta spesso gli adolescenti ad un disperato bisogno di condividere ciò che sta succedendo e di riceverne delle restituzioni. Porta anche spesso ad un isolamento nel momento in cui non ci si sente ascoltati e nessuno sembra capire quanto sia importante quello che si ha da condividere.

Il brano che vi riporto riassume ciò che intendo dire e quanto il dialogo interiore debba, per crescere e diventare sempre più consapevole, essere supportato dal dialogo reale:

Diviene cruciale, come adulti, impegnarsi perché i nostri figli sperimentino quindi un clima di ascolto e dialogo ideale, sia in famiglia che a scuola. Questa è la premessa fondamentale per generare competenze non soggetto in età evolutiva. Crescere deve significare prima di tutto imparare a dialogare e ascoltarsi in modo efficace e competente, fattore di protezione che eviterà al minore di fuggire in territori a rischio, alla ricerca di facili compensazioni presentate come attraenti dal mondo esterno. È inoltre di fondamentale importanza che sviluppino un sano dialogo interiore, basato su un atteggiamento di positiva introspezione. È questa una risorsa di indubbio valore che li aiuta a elaborare elementi e informazioni dalle proprie esperienze passate e presenti, a valutare i pro e i contro e prevedere le possibili conseguenze derivate dalle loro scelte e dalle loro azioni. Tale capacità di sapere conversare con se stessi condiziona il modo con cui essi interagiscono e rispondono agli stimoli provenienti dal mondo esterno. In particolare, acquisiranno l’abilità di fare scelte in base al proprio sentire, e non perché sollecitati o spinti da altri. Se i minori non sentono di poter contare sulle proprie voci interne, danno sempre molto peso alle voci provenienti dall’esterno.[1]

– Continua –

[1] Pellai, A. (2012), Questa casa non è un albergo!, Feltrinelli, Milano, pp. 186-188

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FILM: Requiem for a dream

Requiem-for-a-Dream-Wallpaper-Il film del quale voglio parlarvi oggi è uno dei film più descrittivi di quello che è la dipendenza in ogni suo aspetto. Requiem for a dream (2000) diretto da Darren Aronofsky, è la lenta discesa di ognuno dei quattro personaggi principali nella sua personale dipendenza. Il titolo è abbastanza esplicativo di quello che verrà mostrato: il requiem per ogni sogno, per ogni speranza e per ogni illusione delle persone che mostra. I protagonisti sono la signora Sara Goldfarb (Ellen Burstyn) madre e casalinga, completamente e totalmente dipendente dalla sua televisione e dal figlio Harry (Jared Leto), unico scopo della sua vita. Harry, a sua volta tossicodipendente, è molto legato all’amico Tyrone (Marlon Wayans) e alla fidanzata Marion (Jennifer Connelly), tossicodipendenti a loro volta.

Ognuno dei protagonisti si lega alla dipendenza dell’altro e ha come obiettivo il proprio riscatto, che persegue con ogni mezzo fino all’autodistruzione, al requiem del titolo per il sogno di farcela. Il film è secondo me perfetto per descrivere non solo la dipendenza, quanto l’alienazione, sia nei confronti degli altri che nei confronti di se stessi, che il mancato riconoscimento di queste debolezze porta a non affrontare.

La madre, Sara, è del tutto presa dalla realtà fittizia dei suoi programmi televisivi, dai continui gesti stereotipati che scandiscono il passaggio del tempo in una routine quotidiana ormai insignificante, mentre coltiva la speranza e il desiderio di partecipare al suo programma preferito e, tramite questo, avere il suo personale riscatto da una vita solitaria nella quale non le è rimasto nulla dopo la morte del marito. In vista della ipotetica partecipazione ad uno dei suoi programmi tv, Sara coltiva una vera e propria ossessione per il suo aspetto fisico, volendo rientrare in un abito che non indossava più da tanto tempo. Questo obiettivo assurge a diventare idolo della sua stessa esistenza, unico e inutile scopo di una vita vuota. Per ottenere l’agognato risultato, si rivolge ad un medico che le fa assumere (e sviluppare un’altra dipendenza) delle anfetamine, farmaci anoressizzanti.

Nessuna delle amiche della donna interviene, nessuna (ma questo accade di continuo nel film tra i diversi personaggi) si rapporta con la persona reale quanto con le aspettative che hanno nei confronti dell’altro. L’alienazione è ben descritta dal rapporto che Sara ha con il medico che ne segue la dieta: in nessuna occasione la degna di uno sguardo: il loro rapporto è dato semplicemente dalla compilazione della ricetta per le pillole.

La relazione di Sara col figlio Harry è sullo stesso piano: alienante. Sara non sembra chiedersi mai chi sia/cosa faccia il figlio ma proietta su di lui i suoi desideri (che lavori, che trovi una fidanzata, che abbia una vita ‘normale’); a sua volta il figlio non si rende conto dell’alienazione della mamma nel suo isolamento, mirando semplicemente a farla felice cercando di comprarle una televisione migliore. Non esiste nessuna famiglia, non c’è una relazione: il loro è l’incontro di debolezze, speranze e desideri che si proiettano sull’altro. La ragazza di Harry, Marion è un altro esempio di come la famiglia sia del tutto assente: proviene da una famiglia benestante (che non compare mai nel film) il cui unico scopo è mantenerla e pagarle le cure da uno psichiatra. Anche lo psichiatra, così come il medico che segue la mamma Sara, è una figura misera in questo quadro, un approfittatore delle debolezze altrui. Harry e l’amico Tyrone hanno come unico scopo quello di riuscire a diventare spacciatori sempre più grandi e affrancarsi da una vita fallimentare diventando ricchi (vedi le fantasie risarcitorie ricorrenti di Tyrone con la madre e le sue promesse che ‘ce l’avrebbe fatta’). 

Il risultato, ovviamente, sarà di tutt’altro tipo: una lenta discesa nell’inferno personale di ciascuno di loro, una totale incapacità di accettare i propri limiti e le proprie possibilità, un continuo stordirsi con tutto (droga, tv, sesso…) qualunque cosa permetta loro di allontanarsi da quello che sono e possa far sognare realtà che non esistono, vite degne di nota, possibilità di riscatto nate e cresciute dall’essere qualcun’altro piuttosto che riuscire a partire da se stessi.

Questa scissione tra chi si è e cosa si vorrebbe essere è data anche a livello visivo dall’uso che il regista fa del cosiddetto split screen, la divisione in due diverse inquadrature dello schermo. I protagonisti sono spesso scissi tra una realtà immaginaria e consolatoria e una verità che non accettano e che rifuggono. Un continuo alternarsi tra vita reale e speranza, tra mondo concreto e illusione che trova il suo apice nei deliri della madre ridicolizzata dal suo scintillante alter-ego televisivo e totalmente frastornata dalle sue paure nel mondo reale, del tutto in balia della sua separazione, incapace di permettere un dialogo tra le sue varie anime che acquistano spessore e che arrivano a scontrarsi frontalmente.

Il film è diviso in tre episodi intitolati Summer (estate), Autumn (autunno) e Winter (inverno). L’inverno è l’inverno delle anime, anime diventate completamente fredde, completamente sorde a se stesse, impegnate nella ricerca di qualcosa o di qualcuno esterno loro che possa far sentire il senso della propria vita che si avverte perduto. All’inverno non segue nessuna primavera, nessun risveglio, nessuna rinascita. La lenta discesa è compiuta, l’alienazione è arrivata all’apice: ognuno di loro non ha più idea di chi sia ne del proprio senso. Un film assolutamente cupo, nelle atmosfere, nella fotografia, nelle luci, nella splendida colonna sonora, un film crudo su cosa siano le dipendenze (emblematico, in questo senso, il fatto che lo spaccio avvenga all’interno di un supermercato, moderno luogo delle nostre molteplici dipendenze, quali esse siano: alimentari, igieniche, ludiche…).

Un film estremo che spinge a riflettere sulla dipendenza, sulle diverse forme di dipendenza e su come queste abbiano la capacità di allontanarci da noi stessi, nel portare il baricentro del nostro equilibrio sempre più lontano fino a farci crollare, fino a farci collassare in un inverno perenne.

Qualora l’aveste visto e voleste farmi sapere la vostra opinione, lasciate un commento o scrivetemi (fabrizioboninu@gmail.com)

A presto…

Fabrizio Boninu

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Perchè è meglio non fare terapia ad un amico

psicologo3Una delle domande più frequenti che mi vengono fatte è sicuramente quella del perché non posso prendere in terapia amici o persone che già conosco. ‘Ma scusa, ci conosciamo già, avrei meno difficoltà a raccontarti alcune cose della mia vita, perché non posso venire da te?’ In effetti, visto dall’esterno, il fatto che uno psicologo non possa fare terapia ad un suo conoscente sembra un controsenso. Nell’accezione comune, il fatto che ci si conosca aiuta ad aprirsi e rende più facile andare da un professionista.

Perché allora è categoricamente meglio non farlo? Quello che dall’esterno appare come un punto di forza, visto dall’interno della relazione terapeutica appare invece come un’enorme debolezza. Parte dell’effetto della terapia è dato dal fatto che il terapeuta sia estraneo alla vita della persona che prende in carico. Questa estraneità fa sì che il paziente possa fidarsi, dato che il terapeuta non è orientato verso nessuno delle persone coinvolte nel racconto della vita del paziente, è estraneo alle sue dinamiche familiari ed è, in una parola, equidistante da tutti. Poniamo, invece, il caso contrario: il terapeuta e il paziente sono amici/conoscenti. In questo caso è probabile che il primo conosca persone che fanno parte della vita del suo paziente e il paziente, a sua volta, di persone che fanno parte della vita del terapeuta o, ancora più probabile nel caso le due persone fossero amiche strette, condividano le persone che conoscono. Questo è problematico perché potrebbe rendere meno liberi entrambi di parlare di queste persone: il paziente potrebbe non voler parlare di cose che coinvolgano anche il terapeuta mentre il terapeuta potrebbe essere meno libero nel poter fare restituzioni che coinvolgano persone conosciute da entrambi. Insomma non ci sarebbe una libertà di movimento che è invece indispensabile nella relazione terapeutica.

Altra difficoltà è che il terapeuta e l’ipotetico paziente/amico conoscendosi prima della terapia siano in un rapporto paritario nella relazione. Una dei capisaldi della terapia, che la distingue da un rapporto tra amici, è che una persona si espone molto nella relazione l’altra meno. Se ci fosse un rapporto amicale tra terapeuta e paziente, questa premessa non esisterebbe perché anche il paziente saprebbe tutto della vita del suo terapeuta. Entrambi sarebbero esposti allo stesso modo e questo inficerebbe non solo la costruzione di una relazione terapeutica (dal momento che già esiste una relazione amicale) ma di fatto impedisce l’uso che il terapeuta può fare delle proprie esperienze di vita in terapia. Come può il terapeuta utilizzare qualche dettaglio della sua esperienza dal momento che l’amico probabilmente conoscerebbe già l’episodio raccontato? 

Va inoltre ricordato che essendo conoscenti potrebbero esserci delle risonanze nelle dinamiche personali che potrebbero entrare in gioco nel rapporto terapeutico stesso. Mi spiego meglio: se una persona conosce l’altra è già presente nella loro relazione una serie di elementi (pregiudizi, idee, impressioni) su quella persona. Anche in questo caso queste premesse possono invalidare la costruzione del rapporto tra terapeuta e paziente. In una relazione terapeutica ‘ideale’, invece, la costruzione del rapporto avviene nella terapia stessa, e non dovrebbero esserci elementi conoscitivi pregressi che possano entrare in gioco. 

Per questi motivi è sempre bene evitare di prendere un amico o un conoscente in terapia e, piuttosto, inviarlo ad un collega che goda della nostra fiducia. Non è un atto di incomprensione e il motivo non è non volersi prendere cura del proprio conoscente. La ragione è, piuttosto, aver chiara una visione dei confini della propria professione, non cercare di sovrapporla al ruolo amicale e capire quando possiamo non essere la persona più adatta per fare un lavoro con un nostro amico. Questo non impedirà al nostro amico di annoverare tra le sue conoscenze uno psicologo conscio dei suoi limiti potendo, in più, avere anche il suo ascolto (come amico!) qualora volesse condividere l’esperienza della terapia.  

Che ne pensate?

P.s.: Approfitto di questo post per salutarvi per qualche settimana. La serie di nuovi progetti sui quali sto lavorando, sommati a quelli portati avanti in questo proficuo 2014, entusiasmanti ed impegnativi allo stesso tempo, richiedono che mi ricarichi le batterie e sono consapevole del fatto che solo una persona che si prende cura di se stessa può efficacemente prendersi cura degli altri.

Vi lascio comunque in compagnia di oltre 200 articoli tra i quali potete trovare la lettura che vi interessa. Vi saluto, vi auguro un Buon Natale ed un felice anno nuovo. Ci rivediamo a Gennaio..

…a presto…

Fabrizio Boninu

 

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Legittimare le emozioni (2)

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La consapevolezza, funzione psichica capace di generare benessere e di sollecitare il cambiamento, può attivarsi se prevale un atteggiamento mentale di accettazione e, contestualmente, di rinuncia al controllo onnipotente della realtà. Fintanto che un soggetto si tormenta con proposizioni del tipo: ‘Avrei potuto, avrei dovuto…’, ‘Avrebbe potuto, avrebbe dovuto…’, finisce per disperdere energie preziose in vissuti logoranti di colpa, di depressione o piuttosto di rabbia, energie sicuramente sottratte a quell’impegno di consapevolezza, massimamente utile per affrontare i problemi e le difficoltà dell’esistenza. La consapevolezza delle emozioni può iniziare quando cessa il combattimento finalizzato al tentativo di eliminare vuoi le emozioni sgradite, vuoi la realtà che le ha generate ed inizia la processazione dei dati emotivi, così come possono essere rilevati nella loro specificità e nella loro autenticità. Non c’è consapevolezza se non c’è rinuncia al dominio, cioè se non lasciamo andare la pretesa di controllare tutto.

Il nostro atteggiamento è spesso, invece, improntato al controllo, alla valutazione, al giudizio che ci portano lontani dalla consapevolezza e ci avvicinano a reazioni come l’impotenza, la rabbia o la tristezza. La frustrazione è doppia perché da un lato non riusciamo nell’intento di controllare quello che proviamo, dall’altro, non essendoci potuti soffermare a capire cosa fosse quello che stavamo vivendo, aumenta il nostro senso di estraneità per noi stessi, di non conoscerci a fondo di non sapere neanche noi chi siamo. Come può questo sentire farci stare bene? Come può condurci ad una conoscenza migliore di noi stessi? Qual è il modo attraverso il quale superare questo cortocircuito tra ragione ed emozioni, questa sorta di impasse interno a noi stessi? Il primo passaggio riguarda l’accettazione di quello che proviamo, cercando di far stare fuori il giudizio, metro razionale che tentiamo di applicare alla realtà emotiva: 

Per elaborare le emozioni occorre accettarle innanzitutto così come si manifestano nella nostra mente prima di cercare di elaborarle. Nel momento in cui la consapevolezza accetta le emozioni, anche le più stressanti, le circoscrive ed in qualche misura la fa evolvere. Nominare la confusione per esempio può essere il primo organizzatore mentale e linguistico della confusione stessa, l’avvio di un percorso per fare emergere un qualche elemento di chiarezza dal caos. Nel momento in cui non pretendo di dominare o manipolare queste emozioni, bensì tento di riconoscerle e di pensarle, per ciò stesso si rinforza un area della mente che riduce il rischio del sequestro emozionale: prendo atto che in me c’è rabbia o c’è tristezza, ma non c’è solo rabbia o tristezza, perché si attiva una funzione di consapevolezza che si rende conto della rabbia e della tristezza; mi accorgo che in me c’è ansia, ma non dilaga, perché c’è un’isola della mia mente dove si attiva la capacità di dare un nome all’ansia. [1]

Uno dei punti nodali sta proprio nella capacità di riconoscere e dare un nome a quello che proviamo perché questa capacità ci rende l’idea che nel momento in cui ci sia un sentimento avvertito come negativo, esista anche una sorta di contraltare dentro di noi che ci consente di capire come non siamo del tutto preda o in balia solamente di quella emozione. Se ci limitiamo a giudicarci (non sono adatto, non sono in grado di, non è normale provare questo,…) focalizziamo la nostra attenzione e la nostra consapevolezza solamente su come ci stia facendo stare male quello che proviamo, su come questo sentirci ci faccia stare male, ma non su cosa stiamo effettivamente provando. Se riuscissimo, invece, nel momento in cui proviamo un’emozione a riconoscerla, sentiremo che dentro di noi esiste un’area che riesce a non farsi travolgere dall’emozione stessa, un’area che la identifica e costituisce il primo passo perché quell’emozione sia riconosciuta e possa entrare a far parte della nostra stessa realtà psichica.

Non è sicuramente un processo facile, vanno scardinati una serie di automatismi censori e neganti che da sempre tentano di mettere a tacere la nostra realtà emotiva. Non è facile, dicevo, ma è un primo passo per portare luce su parti di noi stessi trascurate, nascoste e condannate, il mancato riconoscimento delle quali è spesso responsabile del nostro stare male.

 
Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

[1] Foti, C. (2012), La mente abbraccia il cuore, Edizioni Gruppo Abele, Torino, pp. 52-54  

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A scuola di violenza

A scuola di violenzaSono rimasto colpito, come molti di voi credo, dall’ennesimo caso di cronaca riguardante un episodio di violenza scolastica. In breve il racconto (come apparso sul quotidiano L’Unione Sarda): un insegnante di disegno di una scuola di Cagliari, è stato denunciato dai genitori di un suo alunno sedicenne perché lo avrebbe schiaffeggiato. L’episodio risale al 29 ottobre scorso. Sempre stando a quanto riportato dal quotidiano, il ragazzo era stato ripreso diverse volte perché disturbava la lezione ed era stato infine mandato fuori dall’aula. Il professore sostiene di essere stato aggredito dal ragazzo e di avergli dato uno schiaffo per difendersi. Nell’articolo si riporta anche la posizione dei genitori del ragazzo che qualificano l’episodio come ingiustificabile.

A corredo dell’articolo, i commenti dei lettori all’episodio rendono molto bene la posizione generale su questo tipo di episodi: ‘Non credo che il professore abbia torto ma credo che i genitori oltre allo schiaffo del prof dovrebbero darglielo anche loro. Coraggio prof io sono con te.’, ‘Il prof. ha fatto benissimo, due ceffoni ben dati quando ci vogliono fanno solo bene. Io li darei anche a certi genitori che sono più cafoni dei loro figli’, ‘Siamo arrivati all’assurdo non solo non sono in grado di educare i figli ma si permettono pure di denunciare. …… mio padre mi avrebbe preso a calci …..povera Italia !’, ‘Se i fatti si sono svolti come riporta la cronaca:PIENA SOLIDARIETÀ AL DOCENTE. Sono una madre di tre figli e ho avuto molto dalla scuola per i miei ragazzi, ai quali ho sempre insegnato rispetto per le istituzioni’, e ancora ‘Se ai miei tempi un insegnante fosse arrivato al punto di darmi uno schiaffo e lo avessi riferito a casa ne avrei preso il doppio dai miei genitori’, ‘Confido nel Giudice chiamato ad esprimersi sull’accaduto affinché dia un paio di calci nel sedere a quel genitore degno di cotanto figlio!’, ‘Purtroppo questi teppisti da strapazzo riescono a compromettere la vita è la serenità di una intera comunità provocando all’inverosimile e non consentendo di fare lezione.. Ma la cosa grave è che sono anche spalleggiati da genitori incapaci ad educare che in queste situazioni hanno sempre la denuncia facile per raggranellare qualche soldo. Fosse stata mia madre, lui avrebbe aggiunto su me altri sonori ceffoni dopo quello del professore’, ‘Difesa totale nei confronti del professore’, e infine ‘Perché non denunciarli ai tribunali dei minori per l’inadeguatezza della loro educazione?’.

Il tono dei commenti è sorprendentemente simile. Sostanzialmente abbiamo la condanna dei genitori, la condanna del ragazzo e il supporto dell’insegnante. Lo schieramento è palese. Nessuno si chiede cosa abbia fatto degenerare in questo modo la situazione. Nessuno ipotizza che questo sia solo l’ultimo anello di una catena molto lunga che vede noi adulti coinvolti nella sempre più marcata incapacità di fornire modelli positivi ai ragazzi. Si parte lancia in resta con l’accusa, non sembra esserci spazio per una riflessione, per un’interrogarsi che non ha facili ricette.

Il disagio all’interno delle scuole sta diventando sempre più evidente e palpabile, ed è qualcosa che travalica sempre più spesso il contesto scolastico e assurge a fatto di cronaca. Alcuni punti sembrano però chiari e compaiono anche in questa vicenda: il più evidente è l’allentamento dell’alleanza genitori/insegnanti. Se un tempo c’era il riconoscimento sociale del ruolo dell’insegnante e della sua funzione educativa, ora spesso sembra di assistere ad una battaglia tra due eserciti schierati che sembrano non condividere gli stessi obiettivi. In questo scollamento gli insegnanti si trovano soli a fronteggiare difficoltà che, per paura che sfocino in denunce, vengono lasciate perdere e non contenute. Quest’ultimo aspetto, il ricorso frequente a denunce, non fa che esacerbare ulteriormente le posizioni, disimpegnando gli insegnanti.

Qual è la soluzione a tutto questo? Non ho facili consigli da dare, perché ritengo la situazione particolarmente complessa. Mi vengono in mente, invece, una serie di condizionali: andrebbe rivista la nostra scelta educativa, andrebbe favorito il confronto tra posizioni diverse, andrebbe coltivato il rispetto delle persone e della loro funzione, andrebbe svelenito il clima, andrebbe rinsaldata l’alleanza tra le figure che, a vario titolo, si occupano dell’educazione dei ragazzi. Andrebbero fatte tante cose in effetti. Andrebbe anche evitato uno schieramento aprioristico su posizioni facili (ha ragione l’insegnante/hanno ragione i genitori) che non solo ci fanno perdere la complessità della vicenda, ma che temo non aiutino a comprendere quello che succede.

Che ci sia spesso un atteggiamento esecrabile da parte di alcuni ragazzi è, purtroppo sempre più frequente. Che quei ragazzi siano cresciuti con modelli adulti quantomeno discutibili è un altro tassello del puzzle. Che le cose possano essere risolte additando un colpevole, questo è un aspetto del quale non sono poi tanto sicuro

Come sempre chi volesse/potesse condividere la sua esperienza può farlo contattandomi per mail (fabrizioboninu@gmail.com) oppure per telefono (3920008369). 

 

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

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Legittimare le emozioni (1)

Legittimare le emozioni (1)Questo post è una riflessione sul peso che le emozioni giocano nella nostra vita. Molto spesso questo peso è assolutamente sconosciuto o sottovalutato perché manca la consapevolezza dell’emozione stessa. Può sembrare un gioco di parole, ma viviamo profondamente all’oscuro di quello che sentiamo nel più profondo di noi e, anzi, quando avvertiamo che quello che stiamo provando non è ‘consono’, facciamo di tutto per metterlo a tacere e nasconderlo agli altri ma sopratutto a noi stessi, rendendo ancora più difficile identificare e capire quale sia l’emozione che proviamo in quel preciso istante. Questa sorta di automatismo censore è  molto rischioso, perché ci porta a non conoscere la nostra stessa realtà emotiva. Per contrastare questa tendenza dovremmo, invece, fare il processo inverso: portare consapevolezza nel nostro vissuto emotivo, di modo da agevolare la conoscenza del nostro mondo interno e legittimarne il peso nella nostra vita. Questo processo non è scontato, anzi bisogna prestare particolare attenzione a quello che succede. La prima domanda da porsi credo sia proprio la più diretta: come si legittimano le emozioni? Il primo passaggio è sicuramente quello di riconoscere l’emozione stessa:

L’autoconsapevolezza è la capacità di legittimare, di battezzare le emozioni dopo che sono venute al mondo (psichico), per tentare di capirne il senso e le cause al fine di poterle padroneggiare e gestire. Nella comunità tradizionale battezzare e dare un nome a un bambino significava accoglierlo nella comunità sociale, accettarlo come portatore di una dignità, di un qualche diritto: ‘anche lui è un cristiano!’. Analogamente dare un nome alle emozioni significa poterle accettare come portatrici di una dignità psicologica, di una capacità informativa e segnaletica. Dal momento che un’emozione intensa è nata, è comparsa nella mente, vale la pena che venga riconosciuta. Un tempo un figlio illegittimo, che nasceva di fuori del matrimonio e non riceveva il cognome paterno, non possedeva diritti. Analogamente un’emozione rilevante che è entrata nello psichismo e non risulta pensabile e nominabile, diventa priva di diritti e non ha possibilità di comunicare alla mente del soggetto le informazioni di cui è portatrice

Il passo riportato, come tutti i successivi, è tratto dal testo di Claudio Foti del quale trovate i riferimenti bibliografici in basso. Colpisce in questo passaggio il parallelismo tra il battesimo e la consapevolezza: così come il battesimo sancisce l’ufficialità dell’ingresso del bambino nella comunità cristiana, allo stesso modo il riconoscimento e la consapevolezza rende possibile che le nostre emozioni entrino all’interno della nostra autocoscienza. L’autoconsapevolezza passa necessariamente per riconoscere e dare un nome, ‘battezzare’ appunto, le nostre sensazioni, le nostre emozioni, i nostri sentimenti, di modo che abbiano la possibilità di essere integrate in noi. 

L’autoconsapevolezza emotiva, che costituisce il primo principio dell’intelligenza emotiva, è la capacità di ascoltare e dirigere l’orchestra: è la capacità di riconoscere, pensare e nominare i vissuti emotivi che si ritrovano nella mente del soggetto, che spesso entrano velocemente ed imprevedibilmente nel suo campo mentale, che talvolta vi ristagnano oppure fluiscono oppure ancora si scontrano o si accavallano e che in ogni caso non sono autogenerati dalla volontà del soggetto. Mentre la logica del controllo onnipotente persegue l’eliminazione, il soffocamento o il camuffamento delle emozioni giudicate non consone e non opportune, il controllo delle emozioni a cui  possiamo realisticamente pervenire non è immediato, è per così dire un controllo in seconda battuta: non possiamo pretendere un controllo in prima battuta, cioè che le emozioni sgradite vengano immediatamente cancellate o non entrino affatto nella nostra mente. È più realistico e sano imparare a confrontarsi con le emozioni che sono già entrate nel nostro campo mentale e ad impegnarsi a riconoscerle, a dialogare con esse, a gestirle, per evitare che esse siano capaci di sequestrarci. [1]

Spesso non riusciamo invece a riconoscere o a dare un nome a queste emozioni proprio perché ne siamo spaventati o perché non le consideriamo consone al nostro stato. Questo ci porta a negarle, a volerle controllare, a volerle reprimere proprio perché non ci piace come ci fanno stare, come ci fanno sentire, e faremmo di tutto pur di levarle dalla nostra esperienza, faremmo di tutto pur di non sentire quello che stiamo sentendo e provare ciò che stiamo provando.

Il problema fondamentale è che qualunque tipo di controllo è un controllo ex post, a posteriori, quando ormai abbiamo già fatto esperienza di ciò che abbiamo vissuto. Per sua stessa natura, il mondo delle emozioni non è dominabile dalla ragione, questo può avvenire (apparentemente) solo dopo che abbiamo provato l’emozione. Subito dopo la ragione può intervenire per cercare di riportare ‘l’irrazionalità emotiva’ all’interno delle briglie razionali, e possibilmente censurarlo o negarlo, ma il vissuto sarà stato già incamerato senza che neanche sia stato possibile capire cosa sia successo, o cosa abbia causato la nascita di quell’emozione. Questo non permette il riconoscimento, il battesimo di cui parlavamo prima, e fa si che lo stato provato rimanga incompiuto e sconosciuto nell’animo della persona che l’ha provato. 

– Continua – 
[1] Foti, C. (2012), La mente abbraccia il cuore, Edizioni Gruppo Abele, Torino, pp. 52-54 
 
 
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Come avere figli educati?

Come avere figli educatiIl post di oggi riporta un articolo del Corriere della Sera che cerca di individuare quale sia la strategia migliore per avere figli più educati: è meglio premiarli o sgridarli? Meglio metterli in punizione o lodare il comportamento corretto? Non è una differenza di poco conto se ci si pensa, perché il metodo educativo basato sulle punizioni si basa sull’intimorire il bimbo sulla reazione al comportamento sbagliato, mentre elogiare un comportamento corretto fa leva sul rinforzo positivo ad un comportamento ‘buono’. Nell’articolo si propende per il privilegiare l’elogio piuttosto che la punizione. Questa tendenza viene chiamata «terapia di interazione tra genitori e figli» ma, più semplicemente, è la tendenza, propugnata da una parte degli psicologi infantili, ad accantonare le punizioni (per lo meno quelle troppo drastiche) e a privilegiare elogi e abbracci. In pratica, l’imperativo per i genitori è: non fissatevi sui comportamenti ‘cattivi’ ma valorizzate quelli ‘buoni’

Secondo lo psicologo Timothy Verduin, docente di Psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza all’Università di New York, sarebbe meglio che questi elogi venissero accompagnati da manifestazioni fisiche di affetto (una carezza, un abbraccio…) che avrebbero lo scopo di accompagnare e rinsaldare il legame tra genitori e figli. Questa è la ricetta per avere figli educati? In realtà, l’articolo riporta quelle che sono le ‘evidenze empiriche’ di ogni genitore: a volte semplicemente parlare non serve a molto, sopratutto se il bambino è piccolo. Cercare di far comprendere solo col dialogo a volte non sembra dare i risultati sperati, e i genitori si trovano costretti ad alzare la voce. E’ un comportamento basato sulla punizione anche se stabilisce comunque una regola all’interno della famiglia e presuppone che sia contenitiva rispetto ad una totale assenza di regole o ad una liceità apparente per tutto. Le regole in qualche modo ordinano il mondo per quanto sembrino dolorose da rispettare. 

Per il rispetto delle regole stesse vale il principio che sarebbe meglio l’elogio piuttosto che la punizione. Come riportato nell’articolo, infatti, il castigo è un’arte, e molto difficile» spiega lo psicoterapeuta Gustavo Pietropolli Charmet. Che illustra il metodo: «Bisogna prima di tutto capire qual è la comunicazione implicita contenuta nella trasgressione della regola: nella violazione di un patto c’è sempre, nel bambino, una speranza di potersi affrancare, di crescere. Se capiamo questo suo desiderio e lo aiutiamo a realizzarlo non ripeterà il comportamento scorretto. E ancora: La sanzione non deve mortificare ma aiutare a crescere. Per esempio, se la trasgressione sta nel non apparecchiare la tavola, si potrebbe far frequentare al bimbo un corso di cucina, per sviluppare una competenza legata al cattivo comportamento». L’arte del castigo, insomma: «La punizione – nota Charmet – è un momento educativo molto alto: il bambino che trasgredisce non si aspetta di provare un dolore fisico o morale come conseguenza della sua azione, ma vuole vedere quale sarà la reazione degli adulti al suo superare i limiti fissati» Ecco perché il «buon» castigo conclude lo psicoterapeuta, «richiede tempo e astuzia». E non deve essere una sculacciata, «o un togliere ai figli i soldi, le uscite o l’uso del computer». Sì al castigo allora, ma con intelligenza.

L’aspetto importante è cercare di capire cosa il bambino sta cercando di comunicarci con il suo infrangere le regole. Non si tratta di cose molto lontane dalla realtà come si può vedere. Basta applicare buonsenso e giudizio. E cuore. Capisco che molti di voi potrebbero obiettare alla frequenza del corso di cucina, ma ci sono veramente tanti metodi per ottenere lo stesso risultato. Quello che posso suggerire è il coinvolgimento: una soluzione che veda coinvolti i genitori (per vicinanza, per spiegazione, per comprensione…) avrà risultati sicuramente più duraturi di una semplice punizione per privazione (‘non usi il pc, non usi più i giochi’, ecc.)

Intanto qui il link all’articolo:

L’articolo è di Giulia Ziino.

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

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L’eterocentrismo: le sentinelle in piedi

L'eterocentrismo le sentinelle in piediLa riflessione di oggi parte da una fenomeno abbastanza recente ma che sta incontrando una discreta rilevanza mediatica: le cosiddette sentinelle in piedi. Il 5 Ottobre abbiamo assistito alla nuova manifestazione, in diverse piazze d’Italia, dei rappresentanti di questa associazione. Ma chi sono le sentinelle in piedi e qual è il loro obiettivo? Come riporta il sito nazionale sentinelle in piedi è una resistenza di cittadini che vigila su quanto accade nella società e sulle azioni di chi legifera denunciando ogni occasione in cui si cerca di distruggere l’uomo e la civiltà. Ritti, silenti e fermi vegliamo per la libertà d’espressione e per la tutela della famiglia naturale fondata sull’unione tra uomo e donna.
La nostra è una rete apartitica e aconfessionale: con noi vegliano donne, uomini, bambini, anziani, operai, avvocati, insegnanti, impiegati, cattolici, musulmani, ortodossi, persone di qualunque orientamento sessuale, perché la libertà d’espressione non ha religione o appartenenza politica, ci riguarda tutti e ci interessa tutti.
[1]

Cosa significhi nella loro visione distruggere l’uomo e la civiltà è facilmente riassumibile: sono contrari a qualunque tipo di unione che non sia tra uomo e donna. La loro è una visione prettamente eterocentrica, fondata sull’idea che l’unione eterosessuale sia l’unica possibile e da tutelare a discapito di qualunque altra forma relazionale. Come qualunque ‘centrismo’ anche questo è basato sul presupposto che la propria posizione sia migliore delle altre. Mossi dall’intento di voler preservare la famiglia ‘naturale’ (sulla ridefinizione dell’aggettivo naturale in una società come la nostra ci sarebbe da scrivere un trattato!), le sentinelle in piedi lottano perché altre persone non godano degli stessi diritti civili dei quali gode una famiglia eterosessuale. Sono sempre più convinto del fatto che, se una mobilitazione è contro i diritti di qualcun’altro, abbia come presupposti delle premesse discutibili.

Il ‘centrismo’ più famoso, in psicologia, è sicuramente l’egocentrismo. Userò le parole di Claudio Foti, psicologo e psicoterapeuta, per descrivere cosa sia l’egocentrismo e tracciare un parallelismo tra i due ‘centrismi’ citati:

l’egocentrismo non coincide con l’affermazione sana del Sé, anzi l’egocentrismo rivela un qualche fallimento nel processo di integrazione e di espansione del Sé. L’atteggiamento egocentrico del soggetto con carenze narcisistiche, che rincorre conferme e puntelli esterni alla propria grandiosità immaginaria, rivela un deficit di autostima, un’incompiutezza profonda della soggettività, una mancanza di autonomia vitale. Le cause profonde del suddetto deficit va ricercata peraltro nella frustrazione traumatica di alcuni bisogni di valorizzazione e di integrazione del Sé che non sono state soddisfatte nell’infanzia.

(…) L’atteggiamento egocentrico del soggetto alla ricerca avida di gratificazioni immediate per sé, insensibile agli interessi delle persone che gli stanno a fianco rinvia ad una debolezza del sé. L’Ego del soggetto egocentrico non è un’ego forte, ricco e vitale, bensì un Ego impoverito dall’incapacità di trarre soddisfazione da quelle dimensioni dell’esistenza che presuppongono il rispetto per l’altro. Questo soggetto non riesce a percepire e ad integrare bisogni fondamentali, che lo spingerebbero a valorizzare la dimensione relazionale e comunicativa dell’essere umano, una dimensione che implica la sensibilità e la capacità di identificazione nei confronti dell’altro. [2]

L’eterocentrismo, così come l’egocentrismo, si accompagna al ritenere come degna di comprensione e accettabile solamente la propria idea di realtà e, nel caso specifico, a non ritenere accettabile l’idea che esistano altre realtà familiari, altre idee di famiglia, altre idee di amore che non sottraggono, ma anzi aggiungono complessità ad una dimensione, la vita relazionale, nello stesso tempo privata e sociale, intima e pubblica. E credo sia chiaro, inoltre, come questa visione ego/eterocentrica non lasci spazio alcuno alla dimensione relazionale, alla sensibilità e alla capacità di identificazione con l’altro. Ammantati da un apparente savoir-faire silente, le sentinelle in piedi portano avanti un messaggio univoco e discriminatorio: la mia realtà è migliore della tua! Come per l’egocentrismo, anche l’eterocentrismo così estremizzato non può non essere indice di debolezza, di intransigenza, di rigidità di visione, un monolite che non lascia spazio a dubbi, alle domande, all’altro. La visione eterocentrica è, in’ultima analisi, profondamente egoistica nella prospettiva monodimensionale che persegue. 

Ogni ampliamento dei diritti non dovrebbe essere vissuto come un pericolo, non dovrebbe mobilitare sentinelle che veglino, non dovrebbe semplicemente costituire motivo di scontro. Se viene vissuto in questo modo, sarebbe interessante chiedersi il perché del senso di minaccia avvertito dall’altro, il motivo di tanta rigidità e di tanta chiusura. Probabilmente aiuterebbe a far luce sulla necessità di tanta intransigenza.

Spero arrivi un momento nel quale le sentinelle, continuando a leggere (magari anche libri che confutino tesi diverse rispetto a quelle nelle quali credono!), possano finalmente mettersi sedute e godersi l’evoluzione della società senza sentirsi minacciate. Se poi da silenti diventassero dialoganti sarà fatto un passo in più per cercare di superare lo scoglio di egocentrismo che preclude la vista di ogni posizione diversa dalla propria.

 

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

[1] www.sentinelleinpiedi.it

[2] Centro Studi Hansel e Gretel (2008), Adultocentrismo: il mondo dominato dagli adulti, Sie Editore, Torino, pp. 8-9

 

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