L’alfabetizzazione emotiva a scuola

L'alfabetizzazione emotiva a scuolaSempre a proposito del tema affrontato nel post Analfabeti delle emozioni pubblicato il 25 Febbraio 2013 (potete cliccare sul titolo in arancio per rileggerlo), ho trovato un interessante articolo riguardo al tema che si occupa di un punto particolare della stessa alfabetizzazione emotiva: l’alfabetizzazione emotiva a scuola. Tendenzialmente, consideriamo la scuola un luogo dove si Apprende: si apprende a leggere, si apprende a far di conto, si apprendono i confini degli stati e tante altre cose che costituiscono il ‘terreno di elezione’ dell’apprendimento scolastico. Un aspetto che raramente viene preso in considerazione è quello che riguarda la possibilità di trasformare la scuola anche in un grande laboratorio dove provare ad imparare quali sono le emozioni, imparare a riconoscerle, cosa comporta il viverle, come affrontare al meglio i momenti nei quali queste emozioni spiegano tutta la loro forza lasciandoci, talvolta, impreparati. In questo la scuola, lungi dall’essere l’unico ambito nel quale questa maturazione deve avvenire, e lungi anche dal considerare l’ambiente scolastico come unico depositario di un apprendimento così importante e così marcato, può, però, se affrontato con persone preparate che con questi temi possono avere una certa dimestichezza e facilità d’uso, diventare un ottimo strumento per portare l’attenzione su un dettaglio della maturazione e della crescita spesso ritenuto e considerato secondario ma che, invece può essere l’elemento che fa la differenza nella vita di una persona.

In proposito vi riporto un bel passo che illustra bene ciò di cui sto parlando: A volte, a scuola, ci imbattiamo in alunni che rispondono alle provocazioni dei compagni sempre nella stessa maniera – sempre aggredendo, ad esempio, o sempre subendo – senza tenere conto delle differenti entità delle offese. Ciò denota una sorta di risposta generalizzata, che non prende in considerazione le sfumature della situazione e del momento, l’intensità di ciò che è detto, operando una semplificazione della realtà che certo non giova ad arricchire la capacità di rispondere. Solo un adulto può aiutare l’altro a differenziare, prendendo in considerazione non soltanto ciò che appare ma guardando oltre, interpretando appunto le sfumature che non son immediatamente comprensibili. A volte abbiamo bisogno di aiutare a comprendere ciò che sta accadendo, traducendo un comportamento che può essere ambiguo oppure ad attribuire un significato diverso da quello che siamo abituati a dare. Il mancato esercizio di riconoscere e attribuire emozioni diverse può portare una persona a diventare un adulto con una ridotta competenza emotiva. Per questo motivo ormai si parla di alfabetizzazione emotiva, di quoziente emotivo, di competenza emotiva, che va acquisita di pari passo alla competenza cognitiva. Non dimentichiamo che l’apprendimento è molto influenzato dagli stati emozionali, dai quali può essere facilitato oppure ostacolato. Per questo motivo alterazioni, riduzioni, distorsioni della parte emozionale sono un campo di azione congiunto scuola-famiglia poiché influenzano tutta la persona sia nel ruolo di adulto che nel ruolo di figlio. Non è un compito da poco… ma non affrontarlo potrebbe mettere a rischio il corretto sviluppo del ragazzo. [1]

Il brano mi sembra interessante per diversi aspetti: ribadisce il ruolo di guida dell’adulto nella considerazione della comprensione del peso che l’emozione può giocare in un determinato frangente. L’adulto, come abbiamo accennato, deve essere in grado di percepire questo stessa differenziazione in se stesso: se anche egli ha difficoltà ad entrare in contatto con il suo lato emozionale, difficilmente potrà essere di grande aiuto o fare da guida, nel permettere al bimbo di entrare in contatto e maneggiare il proprio lato emotivo. Il secondo fattore che mi preme mettere al centro in questa discussione è il peso che il fattore emotivo ha sull’apprendimento stesso. Credo sia una di quelle esperienze che accomuna tutti: sappiamo quali scherzi può fare l’ansia in un’interrogazioni nella quale pensavamo di essere molto preparati. La sensibilità emotiva può far percepire le difficoltà del singolo alunno che può essere guidato alla comprensione e accettazione dei suoi stati d’animo. Solo il riuscire a stabilire un contatto con la propria realtà emotiva può portare a cercare di capire e comprendere quanto questo tipo di fattori possano influire non solo sul nostro apprendimento, quanto sull’intera possibilità di rapportarci con la nostra stessa vita. Non è un discorso semplice da fare, alla luce poi del disinvestimento sociale e il generale discredito che l’istituzione scolastica sembra vivere in questo periodo. Ma è un punto di partenza: impegnativo, difficile e forse gravoso da portare avanti ma necessario per cercare di non considerare la scuola solo come luogo di mero apprendimento accademico ma come porta d’ingresso principale per la formazione di individui maturi e completi. O quantomeno più consapevoli del loro mondo emozionale.

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

[1] Rosci, M. (2010), Scuola: istruzioni per l’uso, Giunti Demetra, Firenze, pp. 98-99

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L’educazione alla crudeltà

L'educazione alla crudeltàAnche quest’anno, come ogni anno ormai, le feste di Natale hanno portato, come una piaga sempiterna, i circhi nella nostra città. Anche quest’anno si sono sprecate le polemiche circa la necessità di autorizzare e dare spazio ad uno spettacolo che definire vergognoso è assolutamente eufemistico. Non mi si venga a dire che quella di assistere e portare in scena questo tipo di spettacoli fa parte della nostra cultura, perché potrei rispondere che anche le uccisioni in piazza erano delle messe in scena che facevano parte della nostra cultura, ma spero conveniate con me che non ne debbano più far parte. Sembra, invece, che continuiamo ad essere particolarmente indulgenti nei confronti di questa tradizione e ogni anno le polemiche si riaccendono. 

Come ci ricorda la LAV, in Italia ci sono ancora 2000 animali prigionieri: la maggior parte di loro, come tigri e leoni, sono nati in cattività, mentre altri sono stati importati, spesso illegalmente. (…) un leone o una tigre del circo vivono in uno spazio di 3 metri quadri. La tortura è reale, se consideri le dimensioni medie di un circo e gli animali ospitati. La realtà dell’addestramento si basa sulla violenza, fisica e psicologica. Sulla paura del dolore fisico e sulla privazione del cibo. Il resto lo fanno i bastoni, le percosse, a volte anche i pungoli elettrici. In gabbia gli animali soffrono, anche se i circensi dicono di no. I segnali del loro malessere sono evidenti, basta solo saperli cogliere: in cattività sviluppano atteggiamenti stereotipati, come dondolarsi continuamente, o girare su sé stessi. (Fonte www.lav.it)

Dato il mestiere che faccio, uno degli aspetti che più mi colpisce è come alcuni adulti si ostinino a portare i bambini al circo. Mettetevi un attimo nei panni di un bambino: arriva in un posto magico, un posto che non c’è sempre. Che arriva solo in alcuni periodi dell’anno. Vede animali che non fanno parte della sua quotidianità fare numeri strani, obbedire a comando all’uomo che si relaziona con loro. Vede come spesso l’obbedienza sia ottenuta con urla o con colpi di frusta. Succedono delle cose che, nello stupore del bambino, non tornano. Perché un animale grosso come un elefante dovrebbe piegarsi per farsi salire addosso un essere piccolo come un uomo? Non dovrebbe comandare lui, essendo più grosso? Sa che questo succede nella vita di tutti i giorni: il più grande sa cosa sia giusto fare. In questo mondo magico tutto è rovesciato. Non comandano i più grandi e, per ubbidire, si utilizza la forza. 

L’ambiguità viene accentuata dal fatto che il clima generale è un clima di festa e gli adulti attorno a lui lo autorizzano a ‘godersi’ lo spettacolo. La nota sorda rimane e, tenendo a mente che ci troviamo nei panni di un bambino, non abbiamo gli strumenti cognitivi per comprendere questa situazione. Ma qualcuno degli adulti che lo circondano, che questi strumenti cognitivi dovrebbero, invece, aver maturato, si è mai domandato che tipo di messaggio sta dando al bambino facendolo assistere ad una tortura? Il messaggio che passa è, a mio avviso, di una violenza enorme: stiamo chiedendo loro di trovare divertente andare a vedere un essere che, per fare quello che sta facendo, è stato privato della sua libertà, è stato torturato, e viene costretto con la paura ad effettuare cose che la sua natura non gli imporrebbe di fare (come stare in equilibrio su una pedana). Stiamo facendo vedere ed insegnando loro ad infischiarsene della sofferenza di qualche essere vivente (sono ‘solo’ animali, no?), di non curarsi del suo dolore perché il MIO divertimento viene prima di tutto. Apprenderà così che il suo benessere può essere anteposto alla vita di altri e alle sofferenze che gli si devono infliggere perché si diverta. 

Come possiamo pretendere che i bambini siano empatici nei confronti delle sofferenze altrui se li abituiamo ad essere sordi a quello che vedono o a considerarlo divertimento? Questa riflessione è rivolta particolarmente a tutti quegli adulti che si scagliano, invece, così violentemente contro videogiochi considerati crudeli o sanguinari, e che invece sono così inspiegabilmente comprensivi nei confronti di uno spettacolo altrettanto crudele. 

Non credo ci sia nulla di educativo o di divertente in tutto questo. E non penso sia saggio continuare a ripetere come questo serva anche ad altro, come a far vedere animali esotici ad un bambino. Sarebbe meglio portarli in un parco o fargli vedere un documentario, sempre che non si possa fare un viaggio. Sarebbe meglio spiegare loro l’impossibilità di fare vivere questi animali da noi se non snaturando le loro stesse caratteristiche. I genitori sanno che la naturale curiosità dei bimbi li porta a voler essere in prima fila nei circhi, ma l’ambigua malinconia di quello che vedono non è costruttiva. In nulla. Sarebbe uno spettacolo perfetto solo se il nostro fine fosse desensibilizzarli.

Mi fa ben sperare che i dati diffusi dimostrino una inversione di tendenza rispetto agli accessi nei circhi: il numero di esibizioni è calato in un anno (2012) da 17.404 a 15.603 e gli ingressi, idem, da 1.135.037 a 1.121.758. Mi sembra che rimangano sempre troppe le persone che alimentano questo rimasuglio di altre epoche e sempre troppi i bambini che hanno la sventura di assistere, senza strumenti per comprendere e anzi rinforzati dall’idea che assistano ad una cosa divertente, ad uno spettacolo indegno.

Personalmente tornerò sotto il tendone di un circo quando lo spettacolo sarà libero da animali, quando vedrò artisti che hanno scelto liberamente di dedicare la propria vita allo spettacolo che interpretano. Fino ad allora non finanzierò più questi commercianti di finto divertimento e di vera sofferenza.

A presto…

Fabrizio Boninu

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L’empatia fa la differenza in terapia?

L'empatia fa la differenza in terapiaIl post di oggi riguarda un interessante articolo del Corriere della Sera che tratta il tema del rapporto tra medico e paziente. Secondo uno studio condotto su 21 mila pazienti diabetici, il rapporto che si instaura tra medico e paziente è fondamentale e necessario alla riuscita della terapia. Questo non deve sorprendere, alla luce del peso che i fattori relazionali giocano nel fidarsi o meno del percorso terapeutico che si intraprende. Provate a pensare alla vostra esperienza personale: seguireste più volentieri e più assiduamente una cura prescritta da un medico di cui vi fidate e con il quale avete instaurato un buon rapporto, oppure seguireste comunque la cura anche senza questa premessa? Naturalmente credo che la risposta sia scontata e testimonia appunto dell’importanza che la relazione, un fattore considerato immateriale e non importante nella terapia, perché difficilmente valutabile, viene spesso messa in secondo piano, dopo la cura. In realtà la relazione è da considerare parte importante e fondamentale della cura stessa. In questo gioca un ruolo la capacità del medico di riuscire a stabilire una relazione empatica. Non è scontato e non è un fattore di poco conto.

Empatia è la capacità di relazionarsi con i vissuti e i sentimenti dell’altro, comprendendoli ed accettandoli cercando di rimanere fuori dal giudizio e dalla critica. E’ un aspetto importante nella relazione, ma diventa fondamentale se le due persone coinvolte sono all’interno di una relazione terapeutica. Lo studio, per il quale, qualora lo vogliate vedere, c’è un link diretto alla fine del post, ha rivelato che quelli che avevano un medico empatico hanno seguito meglio le terapie e sono stati ricoverati ben tre volte meno in ospedale per complicanze legate alla loro malattia. Il motivo è che questi malati, secondo lo studio, hanno aderito meglio alle prescrizioni perché sono state spiegate loro con chiarezza e pazienza, e da qualcuno che aveva ottenuto la loro fiducia.

L’empatia del medico è stata valutata tramite questionari che sono stati somministrati ai pazienti. E’ interessante notare come questo aspetto venga annoverato tra i criteri di successo dagli stessi operatori sanitari per cui è forse più evidente come l’importanza della relazione sia parte integrante della cura. Ovviamente la relazione, in una professione come quella sanitaria, comporta un carico emotivo decisamente pesante e complicato da gestire soprattutto per quegli operatori che non hanno competenze o non hanno investito su questo tipo di conoscenza a livello personale (penso soprattutto a reparti con malati gravi o con malattie terminali) può portare a far si che i medici disinvestano sulla relazione per non essere investiti o coinvolti in un aspetto emotivo che può essere impattante da gestire. 

La consapevolezza sull’importanza della relazione sta, però, incrinando questo disinvestimento a favore del fatto che la preparazione, esperienza ed aggiornamento devono rimanere (…) le prime qualità da ricercare in professionisti nelle mani dei quali si mette la propria salute, tuttavia, in un periodo in cui la medicina viene sempre più percepita, dagli stessi medici, come fin troppo informata da algidi algoritmi, tecnologia e obblighi amministrativi, l’importanza di stabilire una sintonia emotiva con i pazienti forse dovrebbe essere riscoperta e valorizzata, anche per rivendicare alla professione medica la sua titolarità di «arte».

Insomma, uno studio ed una riflessione interessante sul peso della relazione nel mondo della medicina.

Qualora voleste leggere l’articolo cliccate qui 

L’articolo è di Luigi Ripamonti. 

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

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Cosa chiedono gli insegnanti alla scuola?

Cosa chiedono gli insegnanti alla scuolaDopo il post Cosa chiedono i genitori alla scuola?  è venuto il momento di affrontare l’altro punto di vista quello degli insegnanti. Il rischio, se non si prendono in considerazione più punti di vista in gioco, è il fatto che ogni soggetto del contenzioso è convinto che la responsabilità sia completamente dell’altro senza valutare che questo gioco disfunzionale si alimenta con il contributo di tutti, perché ognuno fa qualcosa che non dovrebbe fare e non fa ciò che dovrebbe fare. [1] Uno dei primi e più importanti errori di valutazione è proprio questo: essere convinti che la responsabilità di ciò che succede all’interno di un sistema come quello scolastico, sia di una e non invece delle parti. Come attori in gioco sullo stesso piano, andrebbe tenuto presente, infatti, che ogni singola parte gioca un ruolo fondamentale nella definizione del tutto e che qualunque azione, anche la più lieve possibile, produce delle conseguenze sulle altre parti del sistema stesso. Torniamo al tema: cosa chiedono gli insegnanti ad un genitore? Sostanzialmente di essere sicuro e fiducioso delle scelte che compiono la scuola nel suo complesso e i singoli insegnanti (…) nei confronti di suo figlio e soprattutto di essere riconosciuta capace di leggere altro rispetto a ciò che il genitore sa del proprio figlio perché la realtà della classe, che è condizione di confronto e a volte anche di scontro, è diversa da quella di casa, e perciò i comportamenti del singolo alunno possono essere molto diversi da come il genitore se li immagina. I docenti sono stanchi di non essere creduti solo perché dicono qualcosa di diverso da quello che i genitori vorrebbero sentirsi dire sul proprio figlio. [1]

Questo passaggio è molto importante perché contiene una delle critiche maggiori che i genitori rivolgono agli insegnanti quando viene fatto notare loro che il figlio, all’interno del contesto scolastico, non è quel docile agnellino che loro sono abituati a vedere in casa. Questo rilievo provoca spesso, nei genitori, un senso di spaesamento, come se fossero stati messi di fronte al fatto che non conoscono il loro figlio. La reazione può essere diversa, ma quella tipica non è mettere in discussione la veridicità di quello che viene loro detto, quanto il fatto che l’insegnante non capisca, non riesca a leggere tra le righe del loro figlio. Ma se lo fraintende così tanto, o non lo conosce o non lo capisce, come può quello essere un buon insegnante? E come può una scuola seria accettare nei suoi ranghi un insegnante così poco capace di leggere i suoi alunni? Insomma,  il passo per una squalifica ben più ampia è veloce e può portare non solo ad estremizzare le posizioni ma anche a cercare alleati (gli altri genitori i cui figli avranno le stesse possibilità di non essere conosciuti bene!). Un punti nodale che dovremmo sempre tenere a mente riguarda, secondo me, il considerare sempre il sistema all’interno dei quali gli individui si muovono.

Se è vero che vostro figlio può essere il bambino più bravo del mondo in casa, è vero che a scuola, all’interno di un sistema più ampio e ben più complesso, si trovi ad affrontare e a reagire ad aspetti che a casa non possono succedere. D’altronde non c’è niente di più facile che pensare alle innumerevoli variabili all’interno del mondo scolastico che possono tramutare un bambino tranquillo in un bambino più complesso da gestire: altri compagni, contesto competitivo, continue richieste, compiti, esposizione, prestazione ecc. Quale bambino potrebbe comportarsi perfettamente come in un ambiente domestico? Il punto allora è: quanto possiamo accettare di non conoscere nostro figlio? Purtroppo le conseguenze di questa scoperta, apparentemente non piacevole, può portare a prendercela con la scuola che, pensiamo, non sappia capire o non sappia valorizzare il nostro ragazzo. Fermarsi e considerare tutti i possibili fraintendimenti, può essere particolarmente risolutorio nel momento in cui, invece di accusare o di delegare, ci si ferma a capire il nostro ruolo in tutto questo. Certo non è un compito facile, ma se lo si affronta dal punto di vista strutturato, può veramente far percepire la possibilità che si possa costruire un vero e proprio patto formativo che preveda l’interazione e l’integrazione dei diversi attori in gioco: scuola-genitori-ragazzi.

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio

[1] Rosci, M. (2010), Scuola: istruzioni per l’uso, Giunti Demetra, Firenze, pp. 20-23

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Carnage

CarnageIl film del quale voglio parlarvi oggi si intitola Carnage, è del 2011 ed è diretto dal noto regista Roman Polanski. Il film ha un cast a dir poco azzeccato: una coppia di genitori, la coppia apparentemente più realizzata, è interpretato da Kate Winslet e Christoph Waltz, rispettivamente Nancy e Alan Cowan, mediatore finanziario e avvocato, mentre l’altra coppia vede assieme Jodie Foster e John C. Reilly rispettivamente Penelope e Michael Longstreet, l’una scrittrice e l’altro venditore di articoli per la casa.

Un indizio su quello che il film mostra è dato dal titolo: carnage in inglese significa infatti carneficina. Ed è ad una vera e propria carneficina di educazione, buone maniere, di buone impressioni, apparenze ed esteriorità ma sopratutto di genitorialità quella a cui assistiamo. La trama è apparentemente molto semplice: durante una lite al parco, che noi spettatori appena intravediamo all’inizio del film, il figlio della prima coppia, colpisce con un bastone il figlio della seconda coppia. Le due famiglie decidono, perciò di incontrarsi per cercare di capire cosa sia successo e per discutere, da persone civili, in merito a cosa fare con i due ragazzi. La prima coppia, i coniugi Cowan, si recano a casa dei coniugi Longstreet e l’intero film si svolge sostanzialmente nel loro soggiorno. Il film è assolutamente geniale per quanto riguarda la sottolineatura di tutto ciò che dei genitori non dovrebbero fare nella gestione di problematiche relative ad un figlio: pensare solo a loro stessi. Il pretesto dell’incontro per discutere dei ragazzi si trasforma infatti molto velocemente in una vera e propria lotta tra i partecipanti senza nessuna esclusione di colpi. Ognuno di loro ha da ridire sul comportamento dell’altro in un continuo turbinio di alleanze variabili (uomini contro donne, donne contro uomini , donne contro donne, moglie contro mariti mariti contro mogli ecc.) che porta ben presto a mettere in assoluto secondo piano le vicende dei figli per i quali i quattro si erano inizialmente incontrati. Penelope (Jodie Foster) ha una stizza che riguarda il pregiudizio che lei ha sul fatto che gli altri due possano essere buoni genitori con i loro metodi. Il marito Michael diventa una sorta di furia rispetto a tutti i finti buonismi della moglie che poi, alla fine, sbotta in maniera molto pesante rispetto all’altra coppia. Per quanto riguarda Nancy (Kate Winslet) e il marito Alan la prima è assolutamente insoddisfatta del comportamento molto poco presente del marito nei confronti della discussione che si sta svolgendo e del suo continuo rispondere al telefono, mentre il marito ha un atteggiamento tracotante e arrogante su molte delle posizioni che vengono fuori durante la discussione.

La realtà è che ognuno di loro è preso da quelli che sono i suoi problemi personali, rispetto a se stessi e rispetto alla loro vita coniugale. L’incidente con i figli sembra semplicemente lo spunto per fare un bilancio di tutto ciò che sotto la patina di rispettabilità, onorabilità e decoro bolle all’interno della loro vita. Ognuno di loro è impegnato dapprima a salvare le apparenze, poi a negare, infine a vomitare, non solo in senso figurato come vedrete, tutto ciò che li scontenta all’interno della conversazione, ma più in generale della loro vita. Il risultato è assolutamente spiazzante: quattro adulti che, invece che con le mani come fanno i loro ineducati figli, si massacrano l’uno con l’altro con parole forse ben più pesanti e potenti di un bastone.Mi rendo conto di come sia difficile cercare di descrivere il film e ciò che succede. Un insieme di sovrapposizioni di piani formali e informali lo rende difficilmente descrivibile a parole. Basti semplicemente citare la scena in cui Penelope deve accompagnare in bagno Alan: ormai iniziate a crollare le apparenze all’interno delle coppie, lei si preoccupa di cercare di mettere in ordine la casa mano a mano che passa. Di li a poco il vedere il rispettato avvocato Alan Cowan fisicamente in mutande sarà il prologo di quanto poi saranno messe a nudo tutte le debolezze, le fragilità, le incomprensioni, le distanze sia all’esterno che all’interno delle coppie.

Rimane la constatazione del fatto di come una coppia genitoriale impegnata più su temi di coppia, o con così tante e profonde incomprensioni al suo interno, possa difficilmente riuscire a fare ciò che in quell’occasione era chiamata a fare: i genitori.

Solo alla fine le due donne sembrano d’accordo su un fatto: che quello sia il peggiore giorno delle loro vite. Probabilmente è solo il giorno in cui hanno potuto dare voce alla loro profonda insoddisfazione.

Qualora doveste vederlo (o lo aveste già visto naturalmente) fatemi sapere che ne pensate.

A presto…

Fabrizio

P.s.:  i figli delle due coppie, nella saggezza propria di molti ragazzi, risolvono da soli i lori problemi, senza l’intervento dei genitori!

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L’ipersessualità è una malattia?

L'ipersessualità è una malattiaVi riporto i risultati di uno studio svolto negli Stati Uniti che dimostrerebbe come l’ipersessualità (sex addiction) possa essere considerata un vero e proprio disturbo mentale. Lo studio è stato condotto dalla University of California di Los Angeles (Ucla) che avrebbe testato i criteri per diagnosticare come disturbo. Il team che ha svolto l’indagine, composto da un’equipe di psichiatri, psicologi, terapisti di coppia ed assistenti sociali che hanno validato i criteri individuati, considerandoli utili per poter arrivare a una diagnosi di questo tipo di problema che in Italia riguarda il 6% degli uomini e il 3% delle donne. Questo team di esperti sarebbe arrivato alla considerazione che la sex addiction sarebbe una forma di patologia e che andrebbe inserita nella revisione del DSM (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders) il testo che contiene tutti i criteri diagnostici delle patologie oggi ufficialmente riconosciute. Per essere ammessi alla classificazione nel DSM-V, la cui nuova edizione (ora siamo al DSM-IV) è prevista per il 2013, le classificazioni nosografiche devono essere non solo molto precise ma anche temporalmente definite. Nell’articolo si fa cenno ai sintomi rilevabili nella sex addiction: i criteri diagnostici (…) includono una serie di sintomi (…) tra cui la ricorrenza ossessiva di fantasie sessuali, manifestazioni di dipendenza sessuale che durano sei mesi o più e che non sono riconducibili ad altre cause come abuso di sostanze, disturbo bipolare. Inoltre, perché sia fatta una diagnosi di ipersessualità devono verificarsi attività o comportamenti legati alla sessualità anche in presenza di stati emotivi poco piacevoli come la depressione o il ricorso al sesso come strategia per combattere lo stress. In più, deve trattarsi di persone che hanno provato a ridurre o fermare la compulsione sessuale senza riuscirci e la cui vita di relazione e professionale è stata negativamente condizionata. La sex addiction sarebbe una di quelle dipendenze ‘nuove’per le quali si lavora alla classificazione, come la dipendenza nel gioco d’azzardo o lo shopping compulsivo. Secondo Claudio Mencacci, direttore del dipartimento di Psichiatria dell’Ospedale Fatebenefratelli di Milano il meccanismo è identico a quello che si verifica con la dipendenza da droghe o alcol perché vengono attivate le stesse aree del cervello e sarebbero le nuove frontiere per definire le patologie che stanno letteralmente esplodendo in questi ultimi anni come la dipendenza dal gioco d’azzardo o la dipendenza da internet.

Questo tipo di risultati, con le conseguenti classificazioni, mi lasciano spesso perplesso. Mi chiedo perché questo tipo d comportamento non può risultare tra i disturbi ossessivo compulsivi. Non potrebbero essere delle specificazioni di un disturbo più ampio? Il DSM sarebbe così molto più ‘pratico’ dal momento che qualunque patologia ufficialmente riconosciuta rientrerebbe all’interno di una classificazione più ampia che la ricomprende e la significa meglio. La strada che si sta seguendo, invece, è totalmente contraria e assistiamo ad una continua suddivisione e segmentazione delle patologie in quadri sempre più circoscritti e limitati. A cosa porta questa parcellizzazione dei disturbi psichiatrici, questa continua rincorsa a definire qualunque tipo di disturbo umano e farlo rientrare in una categoria diagnostica a parte? Temo sia essenzialmente dovuta a motivi economici. Il fatto che esiste una diagnosi, che venga ufficialmente riconosciuta, che sia condivisa, comporta non solo la nascita dello specialista che se ne dovrebbe occupare ma anche, e soprattutto, della terapia farmacologica sottostante. E non dimentichiamo di quanto possa essere potente la spinta delle case farmaceutiche per vedere riconosciute delle patologie per le quali, poi, sarà necessario indicare e chiarire il farmaco da utilizzare. Tutto questo, lungi dal migliorare la comprensione del comportamento umano, rende se vogliamo ancora più difficoltoso capire le ragioni di una persona. E ci si trova spesso davanti a diagnosi per le quali risulta difficile capire la ragione.

Intanto il link: qui

L’articolo è di Irma D’Aria

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio

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Cosa chiedono i genitori alla scuola?

Cosa chiedono i genitori alla scuolaCome vi avevo raccontato in un post di qualche tempo fa (La complessità sui banchi di scuola(1) e (2)), tra le varie esperienze di quest’anno, ho avuto modo di lavorare in una scuola di Cagliari per cercare di intercettare e risolvere il clima di compromissione collaborativa che si stava instaurando tra la scuola e i genitori dei ragazzi. Mi sono accorto, per la prima volta dall’interno, di quanto fosse complesso e sfaccettato il mondo scolastico, di quante problematiche potessero essere insiti i rapporti tra le parti, di quale ruolo comunicativo dovesse essere tenuto presente per cercare di comprendere come gestire al meglio la comunicazione tra le varie parti che compongono il sistema nella sua interezza. Ovviamente sono emerse con forza, e non potevano non farlo, anche le aspettative sui ruoli, sia da parte degli insegnanti nei confronti dell’istituzione scuola e dei genitori dei loro alunni, sia, inevitabilmente, dei genitori verso la scuola.

Più volte mi sono ritrovato a pensare cosa volessero le parti l’una dall’altra, tenendo conto di quelle che sono le rappresentazioni da entrambe le parti. Separatamente i genitori pensano che gli insegnanti non abbiamo genericamente più voglia di fare, non abbiano entusiasmo, siano presi troppo dalla loro vita personale per occuparsi bene di ciò che succede a scuola. L’accusa che gli insegnanti muovono più spesso ai genitori è quella di non volerli più educare, di aver abdicato al loro naturale ruolo educativo e di demandare questo ad istituzioni esterne (scuola in primo luogo, ma anche sport ecc…) e, nell’offerta proposta dagli altri, di non essere mai allineati con la scuola ma anzi piuttosto critici. Ho letto un interessante libro su queste tematiche. L’autrice, Manuela Rosci si occupa di problematiche legate al mondo della scuola nella Regione Lazio e cura il sito www.lascuolapossibile.it.  Secondo l’autrice entrambi i ruoli, quello del genitore e dell’insegnante sono due ruoli educativi (…) svolti da persone che sono alle prese con il loro mondo interiore, con le loro interpretazioni di ciò che è il bene del proprio figlio/del proprio alunno. E’ proprio questa l’essenza della relazione: entrambi, genitori e docenti, hanno aspettative e fanno scelte per e sulla stessa persona (figlio/alunno). Il rischio potrebbe essere quello di non andare nella stessa direzione o, meglio, di non riconoscere il valore dell’altro in questo “gioco” che è la crescita e la formazione dell’individuo. [1] 

L’autrice sostiene la necessità che genitori ed insegnanti concordino sullo stesso fronte dell’alleanza educativa un patto che dovrebbe sancire la convergenza verso temi comuni che possono essere condivisi e supportati da entrambi i lati del versante educativo. Ovviamente le parti, per il ruolo e le funzioni che rivestono, hanno un diverso approccio e hanno diverse richieste nei confronti della scuola. Cosa chiedono i genitori alla scuola? Cosa chiedono invece gli insegnanti? Vediamoli separatamente: un genitore chiede essenzialmente che i suoi figli siano “normali” e “funzionino bene” e che a scuola vada tutto liscio! Questa esigenza di sapere che i nostri figli stanno acquisendo “bene” e che stanno sviluppando sempre più capacità di relazionarsi “bene” con gli altri ci accompagna per tutto il percorso scolastico e il nostro atteggiamento potrà spostarsi lungo l’asse “sono molto tranquillo/sono molto ansioso per come procedono le cose”. In sintesi il genitore chiede alla scuola di essere rassicurato, di mantenere quindi uno stato di sicurezza che è dato, appunto, dal sentire le persone e l’ambiente scolastico sicuro e capace di assolvere a questo ruolo genitoriale. (…)

Ancora un genitore chiede alla scuola di essere all’altezza di suo figlio, di saperlo accompagnare, di sapergli dare quelle cose che servono nella vita e, anche, di essere riconosciuti come genitori competenti, che fanno quello che possono e intendono scegliere per il figlio. Certo la fragilità dell’adulto di oggi, l’instabilità affettiva e professionale diffusa, la mancanza di prospettive possono ingenerare errori di valutazione su cosa è meglio fare, incapacità di operare scelte (che a volte vengono perfino lasciate ai figli), deresponsabilizzazione e attribuzioni di ‘colpe agli altri (“è l’insegnante che non lo capisce”, “è la scuola che non funziona!”) senza sentirsi parte integrante del gioco. [1]

L’analisi è secondo me, molto valida perché mette assieme molti dei possibili punti di vista: relazionale scuola-genitori, rassicurazione sulla formazione dei figli e sulla loro adeguatezza come genitori. Vedremo in un altro post il punto di vista degli altri attori in gioco, gli insegnanti.

Che ne pensate?

– Continua –

 [1] Rosci, M. (2010), Scuola: istruzioni per l’uso, Giunti Demetra, Firenze, pp. 14-20

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La ‘depressione’ da rientro…

La 'depressione' da rientro...Il post di oggi è perfettamente in linea con quello che è il momento dell’anno che stiamo attraversando: il ritorno dalle ferie. Alzi la mano chi, rientrando da un periodo più o meno lungo di vacanza, non è stato assalito dallo scoramento al pensiero della routine che lo stava per accogliere. Lavoro, scuola, bollette, casa da pulire, obblighi e doveri che, confrontati con il periodo magico delle ferie sembrano essere sempre più difficili da digerire e da riprendere. Ecco allora quel senso di scoramento a cui accennavo prima, l’impressione della difficoltà di adattarsi, la paura di non essersi riposati abbastanza, la voglia di posticipare ulteriormente quel ritorno alla normalità che solamente il calendario obbliga a riprendere e che, se fosse per noi, ci vedrebbe ancora lontani dalle incombenze quotidiane.

Tutto questo è vero, ma in parte è eccessivo a cominciare dal termine che viene utilizzato per descriverlo: depressione. Il termine depressione indica una patologia per la quale la persona non vede più prospettive e non riesce più ad intravedere o a programmare il proprio futuro. Il problema del quale stiamo parlando adesso è in realtà, o dovrebbe essere, molto più blando e durare solo un periodo limitato di tempo. Se durasse diversi mesi potremmo parlare di un episodio depressivo ma nel caso difficilmente la ragione di questo potrebbe essere il rientro dalle ferie!

Rimane il fatto che molti di noi sentono questo sconforto al momento di tornare dalle ferie: cosa possiamo fare per agevolare la ripresa della vita di tutti i giorni? Ho trovato interessante questo articolo che si occupa del tema. Vi rimando alla sua lettura per una visione completa. Tra i punti che vengono evidenziati e che sarebbero utili per un migliore superamento dello scoramento da rientro i più utili mi sono sembrati:

  • Valorizzare i benefici: utilizzare l’esperienza appena conclusa per interiorizzare la sensazione di benessere che si ha avuto durante le ferie. I benefici possono essere estesi non gettandosi a capofitto nelle ritualità quotidiana ma cercando di riprendere gradualmente la nostra solita vita. Ricordando che se non ci fosse una quotidianità alla quale tornare probabilmente neanche le ferie avrebbero lo stesso valore o significato;
  • Approfittare dello ‘stato di grazia’: il secondo suggerimento ha a che fare con la possibilità di far fruttare quello che abbiamo sperimentato nelle ferie, riguardo sopratutto la rottura della ritualità e della meccanicità della vita quotidiana che non lascia spazio a nuove aperture o a nuove prospettive. E’ possibile approfittare appunto dello stato di grazia post ferie ed introdurre nella quotidianità queste aperture, che permettano di spezzare la routine anche nelle singole giornate?;
  • Svagarsi tutto l’anno: non fate delle ferie l’unico momento dell’anno in cui si riesce a staccare la spina. Possiamo trovare tanti piccoli momenti, anche nel corso di una stessa giornata, in cui possiamo ricavarci un piccolo momento per noi, in cui concederci quello che ci fa stare meglio. Sorprendetevi facendo delle cose, anche minime, che non vi aspettate da voi stessi;
  • Usare bene la nostalgia: questo è uno dei punti più interessanti: invece che struggersi di nostalgia per quello che abbiamo appena passato e che non abbiamo più possiamo, dosando la nostalgia, utilizzarla o per superare momenti critici oppure per motivarci intimamente a fare qualcosa che non siamo proprio contenti di fare. Il ricordo della piacevolezza dell’esperienza permette di lenire lo scoramento per il fatto che quell’esperienza stessa sia passata!

Qualora lo voleste leggere, vi lascio il link dell’articolo:

http://27esimaora.corriere.it/articolo/la-depressione-post-ferie-non-esiste-e-non-fatevela-venire/

L’articolo è del Corriere della Sera ed è firmato da Anna Meldolesi.

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

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Trasloco (temporaneo!) dal vicino:)

Trasloco (temporaneo!) dal vicinoVi segnalo un mio articolo sul blog della mia amica/collega Carla Sale Musio dal titolo: LA DONNA DEL DONGIOVANNI (potete cliccare sul titolo per essere reindirizzati al post). Il post è una ‘risposta’, o forse sarebbe meglio dire una integrazione, ad un altro articolo pubblicato da Carla il 24 Agosto e avente come tema la figura del dongiovanni. In esso Carla sostiene la tesi per la quale un uomo dongiovanni sia maggiormente interessato a mascherare una propria latente omosessualità piuttosto che ad impegnarsi nel rapporto con la partner stessa.

Concentrandosi sulla figura maschile, rimane in ombra quale sia il ruolo della donna che sceglie come partner un uomo di questo tipo e sopratutto quale possano essere i motivi reconditi per cui tale scelta viene mantenuta o reiterata nel tempo. La mia riflessione, partendo da questi punti, individua tre diversi ‘tipi’ di donna e pone l’accento più sull’esistenza di una coppia dongiovanni, nella quale entrambi hanno interesse a che questo tipo di relazione funzioni, piuttosto che solamente su un uomo dongiovanni.

Non voglio svelarvi altro; non vi resta che leggere il post e farmi, anzi farci sapere che cosa ne pensate. 

A presto…

Fabrizio Boninu

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Le sette (1)

Le sette (1)Il post di oggi è dedicato ad un tema molto particolare del quale si sente parlare sono in relazione ad efferati fatti di cronaca oppure in circostanze particolari: le sette. Il termine setta deriva dal latino secta e significa seguire. Il termine setta è oggi considerato riduttivo e limitante, soprattutto per la sua forte connotazione negativa, tanto che in molti casi si preferisce utilizzare il termine ‘culto’ o ‘confessione’. Utilizzerò qui il  termine setta per motivi di chiarezza, senza connotazione di valore. Genericamente, vengono identificate come  sette i gruppi formati da cultori legati a qualche tipo di adorazione religiosa, sociale, politica. Quello delle sette è, in realtà un fenomeno molto più complesso e io mi concentrerò specificamente su un aspetto molto forte dell’organizzazione stessa: la possibilità che alcuni individui vengano ‘cooptati’ all’interno di un gruppo con caratteristiche particolari.

Ma andiamo con ordine. Innanzitutto cosa è una setta? Le sette sono gruppi organizzati che presentano una serie di caratteristiche comuni. Una setta si raccoglie generalmente attorno ad un individuo, molto spesso definito carismatico o con una forte personalità. Spesso il capo promette qualcosa a coloro che seguono la setta (salvezza eterna, una vita migliore,…). La vera offerta che sembra catalizzare l’attenzione della persona che si decide a seguire il gruppo è però più subdola e sottile e difficilmente la persona se ne può sottrarre: è l’offerta di occuparsi di prendere le decisioni al posto nostro, di poter fare quello che deve essere fatto anche al posto nostro. Il capo di una setta è molto diverso, nella funzione, da quello che potrebbe essere un prete o un mullah. Queste figure, all’interno delle religioni di riferimento, sono dei tramiti rispetto alla religione stessa, officiano un rito che fa avvicinare al dio, ma non sono il fulcro del rito stesso. In una setta, invece, il leader può diventare un vero e proprio oggetto di culto all’interno della setta stessa. Non è più un tramite ma il fine della cerimonia stessa. Spesso viene divinizzato, gli vengono conferite caratteristiche ‘magiche’ o poteri salvifici e questo, se accettato e condiviso dai membri del gruppo, consente al capo di avere una presa molto stretta e salda sulla vita delle persone che seguono la setta. Le difficoltà di abbandono dei membri nascono spesso dalla credenza che il capo, dotato di poteri sovrannaturali, come un dio irato per l’abbandono non si risparmierà di affliggere atroci sofferenze alla persona che ha osato lasciare il suo stesso dio. È lo stesso meccanismo, basato sul plagio, che consente agli sfruttatori di prostitute, di costruire una sorta di gabbia mentale, fatta di paure e terrore, della quale la persona riuscirà difficilmente a liberarsi nel corso della vita.

Nella divinizzazione del capo questo diventa spesso l’aspetto principale all’interno della vita della setta e costituisce il fulcro dell’organizzazione quotidiana del movimento. Va notato come spesso, nelle fasi iniziali della nascita di una setta, il capo sostenga di avere un rapporto privilegiato o costante con un dio ‘ufficiale’ e riconosciuto. Questo tramite con le religioni riconosciute, permette al capo o alla setta stessa, di non essere percepita come potenzialmente eversiva o particolarmente strana. Nel momento in cui questo tramite non è più necessario, spesso viene lasciato decadere e semplicemente non è più essenziale. Il capo diventa egli stesso il dio da venerare e osannare e questo non lascia posto ad un altro dio. Esistono vari modi attraverso i quali il leader può acquistare questo potere sui suoi seguaci. Da un lato possono essere utilizzate delle tecniche di vera e propria manipolazione mentale basata soprattutto sulla destabilizzazione e sulla ricostruzione di un nuovo senso di sé e di una nuova percezione della realtà. La tecnica principale consiste nel mettere profondamente in discussione tutto ciò che appartiene al passato dell’individuo. Tutto viene vagliato e criticato di modo che il novizio non possa più sentirsi sicuro di tutto ciò che era la sua la realtà, che l’ha accolto fino a quel momento della sua vita.

– Continua –

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Un genitore è per sempre…

Un genitore è per sempre...Il post di oggi è dedicato ad un fatto di cronaca, che mi ha colpito molto. E’ abbastanza recente, ed è successo in Italia. Un uomo, dell’età di 68 anni, dopo il divorzio da sua moglie ha chiesto il disconoscimento della paternità anche per la figlia, figlia biologica della ex moglie ma non sua, che aveva invece riconosciuto come sua figlia, dandole il cognome, quando si era sposata con la madre. La figlia, (ex figlia?), si è opposta fermamente alla richiesta dell’uomo (ex-padre?) perché, a suo dire lesivo del suo diritto di identità. Il caso ha suscitato, come si poteva immaginare, non poche polemiche rispetto soprattutto al ruolo attuale dei genitori. La prima sezione del TAR del Lazio ha respinto le richieste dell’uomo, sostenendo che la scelta di essere padre, anche se il figlio non è biologicamente suo, non può essere revocata né cancellata per legge.

Ora, naturalmente non conosco i dettagli personali di questa famiglia, il dolore o la rabbia che possono avere spinto quest’uomo a pensare di poter fare una così clamorosa marcia indietro rispetto alle scelte che aveva sentito di poter compiere nel momento in cui ha dato il suo cognome alla bimba. Rimane semplicemente lo sgomento di fronte alla leggerezza con cui si pensa al proprio ruolo di genitori. Un padre può davvero pensare di poter disconoscere un figlio dopo che ha passato gran parte della sua vita a stare al suo fianco? E’ pensabile che una scelta di questo tipo non comporti danni psicologici pesanti rispetto all’identità di un figlio che si trova, improvvisamente, a dover ristrutturare l’idea che ha di se stesso e della sua famiglia? Ma soprattutto è pensabile che questa persona sia ancora un genitore? Che padre sarebbe dopo la sentenza che gli impedisce di disconoscere la figlia? Un padre per legge? Il caso è particolarmente delicato anche per la posizione della figlia. La cosa che più salta agli occhi è il concetto stesso di paternità. Paternità biologica e paternità affettiva. Nel caso specifico si parla di paternità affettiva: deve essere considerata meno vincolante di quella biologica? Io non credo.

Credo che una volta che si è assunta una responsabilità di fronte ad un bimbo, sia esso biologico o meno, si deve mantenere la lealtà sulla scelta che si è deciso di compiere. Pensandoci mentre scrivo, credo che, con un figlio adottivo, la lealtà debba essere ancora più ferrea, perché si dovrebbe essere ancora e più consapevoli della scelta che si sta andando a fare, consapevolezza che, spesso, passa in secondo piano per figli biologici per i quali sembra bastare il legame di sangue. In un momento storico in cui le identità sembrano farsi liquide, rarefatte, e i ruoli sempre più invisibili, dove è possibile diventa madri surrogate, o padri adottivi, o si presta il proprio corpo per una gravidanza, sembra passare in secondo piano il significato vero della genitorialità, che prescinde dal legame di sangue e dall’aver biologicamente dato la vita. Quando si sceglie e si decide di diventare genitori, si diventa genitori per sempre. Questo comporta l’avere un patto di lealtà nei confronti dei propri figli. Ovviamente questo non vuol dire l’obbligatorietà dei rapporti tra genitori e figli per tutta la vita. La scelte di ognuno di noi possono portare ad allontanare le persone che ci stanno vicino o ad interrompere i rapporti, compresi quelli più stretti come tra genitori e figli. Ma per quanto i figli possano deludere i genitori o, viceversa, i genitori si trovino nella impossibilità di mantenere un rapporto con loro, o ancora che entrambi, genitori e figli, per varie ragioni non vogliano mantenere i contatti, quello che credo debba essere fatto salvo è che non si può tornare indietro. La lealtà sta in questa impossibilità di tradire il patto fondante del rapporto. Io sono tuo genitore, io sono tuo figlio. E anche se le circostanze della vita possono portare ad un allontanamento, non possono arrivare a mettere in discussione questa verità fondante. Bene ha fatto, a mio parere, il TAR a rigettare la richiesta del padre. L’innovazione nella sentenza è stata dare più peso al legame che si era creato tra padre e figlia piuttosto che accogliere la richiesta del padre.

Il grande merito di questi casi credo sia costringere ognuno di noi a fare i conti e riflettere su aspetti della nostra vita che, perché acquisiti, diamo spesso per scontati. Forse è il caso che ci fermiamo a riflettere su cosa voglia dire essere genitori oggi. Biologici o adottivi credo non faccia alcuna differenza.

Che ne pensate?

presto…

Fabrizio

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Quella ‘brutta bestia’ dell’adolescenza…

Quella 'brutta bestia' dell'adolescenza...Ho letto qualche tempo fa un articolo che mi ha fatto riflettere sulla considerazione di quell’età ingrata che è l’adolescenza. Ingrata, naturalmente sia per gli adolescenti che si trovano a dover affrontare un cambiamento molto importante, sia per i genitori che questo cambiamento, talvolta, sono restii ad accettare. Il brano è stato scritto  da Norah Ephron, celebre sceneggiatrice e regista americana, scomparsa nel giugno del 2012. Nel testo, si fa riferimento spesso alla figura della madre ma, naturalmente, credo sia applicabile anche alla figura padre.

L’adolescente investe il genitore moderno come uno shock gigantesco, in gran parte perché è così simile all’adolescenza che hai passato anche tu (genitore). Il tuo adolescente è ombroso. Il tuo adolescente è arrabbiato. Il tuo adolescente è cattivo. Peggio, il tuo adolescente è cattivo con te. Il tuo adolescente dice parole che non ti era permesso pronunciare mentre crescevi, non che non le avessi mai sentite, prima di leggere il Giovane Holden. Il tuo adolescente fuma marijuana, che magari hai fumato anche tu, ma non prima dei diciott’anni. Il tuo adolescente sta senz’altro facendo sesso in modo stupido e sconsiderato, cosa che tu non hai fatto fino almeno a vent’anni. Il tuo adolescente si vergogna di te e cammina dieci passi avanti in modo che nessuno pensi che siete collegati in qualche modo. Il tuo adolescente è ingrato. Ricordi vagamente di essere stata accusata dai tuoi genitori di essere ingrata, ma di che cosa dovevi essere grata? Quasi niente. I tuoi genitori non erano impegnati nelle cure parentali (termine che, secondo l’autrice, avrebbe sostituito l’essere genitore). Erano solo genitori. Almeno uno dei due beveva come una spugna, mentre tu hai un comportamento esemplare. Hai dedicato anni e anni della tua vita a far sentire ai tuoi figli che ti sta a cuore ogni singola emozione abbiano mai provato. Hai riempito ogni secondo di veglia della loro vita con attività culturali. Le parole “Mi annoio” non sono mai uscite dalle loro labbra, perché non hanno avuto il tempo di pronunciarle. I tuoi figli hanno tutto quello che potevi dare – tutto e di più se si contano le sneakers. Li ami in modo spropositato più di quanto ti amavano i tuoi genitori. Eppure sembra siano venuti fuori esattamente come sono sempre venuti fuori gli adolescenti. Anche peggio. Cos’è successo? Dove hai sbagliato?  Per di più, grazie ai progressi dell’alimentazione moderna, il tuo adolescente è grande e grosso, probabilmente più grosso di te. La paghetta settimanale del tuo adolescente equivale al prodotto interno lordo del Burkina Faso, un piccolo Paese colpito dalla povertà di cui né tu né il tuo adolescente avete mai sentito parlare fino a poco tempo fa, quando entrambi avete passato parecchi giorni a lavorare su una ricerca di scienze sociali per la scuola. Il tuo adolescente è cambiato, ma in nessuno dei modi che speravi quando ti rimboccavi le maniche per cambiare il pargolo. E sei cambiata anche tu. Da un essere umano moderatamente nevrotico e discretamente allegro, in un rottame  irritabile, acido e maltrattato. Ma niente paura. C’è un posto dove puoi andare per farti aiutare . Puoi andare da tutti i terapisti e i consulenti cui ti sei rivolta negli anni prima che i tuoi figli diventassero adolescenti. (…) Ed ecco cosa ti diranno: “L’adolescenza è per gli adolescenti, non per i genitori. E’ stata inventata per aiutare i figli attaccati – o troppo attaccati – a separarsi, in preparazione del momento inevitabile in cui lasceranno il nido”; ” Ci sono cose che si possono fare per rendere la propria vita più facile” (…) Ed è completamente falso. L’adolescenza è per i genitori, non per gli adolescenti. E’ stata inventata per aiutare i genitori attaccati – o troppo attaccati – a separarsi, in preparazione del momento inevitabile in cui i loro figli lasceranno il nido. Non c’è quasi niente che possiate fare per rendervi la vita più facile, tranne aspettare che finisca. (…) Oh, il dramma del nido vuoto. L’ansia. L’apprensione. Come sarà la vita adesso? Avrete qualcosa da dirvi, voi due, una volta che i vostri figli saranno andati? Farete sesso adesso che la presenza dei figli non è più una scusa per non farlo? 

L’articolo è a mio avviso interessante, a parte per l’ironia che lo pervade, per due ragioni particolari: 

A)Innanzitutto, pone l’accento sulla vicinanza di quelle che possono essere le attitudini dell’adolescente e dei genitori. Sarebbe interessante che, all’approssimarsi dell’adolescenza dei figli, i genitori ricordassero attraverso quali momenti, quali emozioni, quali turbamenti sono passati quando erano loro ad essere adolescenti;

B) Inoltre l’articolo, a mio avviso, rimescola molto bene le carte all’interno della famiglia ‘attribuendo’ l’adolescenza e i suoi cambiamenti non solo alla persona che fisicamente li sta vivendo, ma a tutta la famiglia, genitori in primis, che si trovano a dover affrontare e fronteggiare questi cambiamenti. Non parliamo dunque di un adolescente, ma di una famiglia adolescente volendo sottolineare, con questa espressione, il fatto che tutti, all’interno del nucleo familiare, siano coinvolti in questa età di passaggio: genitori, figli, fratelli. Questo rende il processo più circolare, magari più complesso, sicuramente più affascinante. Se è vero, infatti, che l’adolescente in prima persona vive il cambiamento della sua vita, è altrettanto vero che in famiglia i rapporti cambiano, le relazioni mutano, gli equilibri si trasformano. Per tutti i membri, non solo per uno. Cambiano le relazioni tra gli appartenenti alla famiglia per il solo motivo che si trovano ad interagire con un adulto e non più come un bambino. Volete che questo non influisca sulle dinamiche familiari?

Insomma un interessante punto di riflessione che porta l’adolescenza lontano dal mondo solipsistico e solitario con cui in famiglia si percepisce il cambiamento, attribuendolo esclusivamente a colui il quale, in quel momento, è anagraficamente l’adolescente della famiglia, contribuendo a riportare il tema all’interno di una serie di relazioni, in prima fila quelle familiari, che sarebbe il caso di non tralasciare. Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

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Il cancro? Uccide più al cinema che nella realtà…

Il cancro Uccide più al cinema che nella realtà...Ho trovato questo interessante articolo di Repubblica nel quale si riportano i risultati di uno studio di due medici italiani, Giovanni Rosti, dell’ospedale Cà Foncello di Treviso e Luciano De Fiore, dell’Università La Sapienza di Roma, che hanno cercato di capire, confrontando diversi film, quale fosse la rappresentazione data sulla malattia del cancro. I risultati sono stati presentati al congresso della Società europea di oncologia medica (Esmo), a Vienna. L’analisi è consistita nel visionare 82 film che, questo è il risultato più eclatante, forniscono una percezione assolutamente distorta della malattia e dei suoi esiti. Nella maggioranza dei film presi in esame, gli ammalati sono ricchi, giovani, non soffrono ma muoiono spesso. Questo tipo di rappresentazione distorcendo completamente la realtà, non fa si che su questi malattie si creino ritratti veritieri della realtà delle cose. Ed è come se questo influisse sulla nostra percezione di rischio.

Ci sono così malattie sovra rappresentate come per esempio le malattie tumorali, che ingenerano una vera e propria fobia mentre altre patologie, ugualmente facenti parte della realtà e magari altrettanto gravi o potenzialmente invalidanti che, non venendo rappresentate accuratamente, finiscono in una sorta di dimenticatoio cognitivo per cui noi quasi ci dimentichiamo che esistano. Lo stesso fenomeno si può riscontrare in altri settori della nostra vita. Mi viene in mente l’iper-rappresentazione (mediatica e sociale) che avviene ad ogni incidente aereo che fa si che, nella nostra mente, il rischio di morire di un incidente aereo abbia un peso enorme rispetto, per esempio, al morire in un incidente stradale che è, per lo meno statisticamente, molto più probabile. Percepiamo l’aereo come pericoloso mentre la macchina no.

Tornando all’articolo, l’aspetto che, secondo me, deve far riflettere di più è l’errata rappresentazione dell’esito della malattia che termina spesso con la morte delle persone coinvolte quando, in molti tipi di tumore, se diagnosticato per tempo, la percentuale di guarigione è ormai molto alta. L’articolo sottolinea come ci siano, però, segni di un cambiamento in questa rappresentazione come per esempio nel film ‘La prima cosa bella‘ di Virzì, con protagonista Stefania Sandrelli, nel quale viene rappresentato per la prima volta un hospice oncologico che è quello dove il suo personaggio è in cura. Come sempre, si tratterebbe di avere un minimo di sensibilità e attenzione per una realtà che, se ben veicolata, permette alle persone di nutrire più speranze che paure. E, in questo come in altri campi, l’atteggiamento col quale si affronta il male è parte fondamentale della cura.

Intanto il link dell’articolo: http://www.repubblica.it/salute/medicina/2012/10/01/news/come_il_cinema_racconta_male_il_cancro-43601906/

Come detto, l’articolo è di Repubblica ed è di Arnaldo D’Amico.

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

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