Il suicidio è un fatto privato?

Il suicidio è un fatto privatoQuesta riflessione sul suicidio parte da una frase letta in un libro che mi ha portato a rivedere le mie (credo condivise!) convinzioni circa il suicidio. Il suicidio è l’atto estremo di una persona che rinuncia a vivere la sua vita. O se vogliamo che decide di vivere la vita ( e terminarla) esattamente come ritiene più consono per lui.

All’interno della nostra società, l’atto del suicidio è stato da sempre ostracizzato, tanto che il suo rifiuto è stato anche codificato all’interno di norme religiose applicate per secoli. I suicidi, per esempio, nelle società occidentali, non potevano essere sepolti al’interno dei cimiteri cristiani. Colui il quale osava portare via a Dio il potere di terminare la propria vita, prerogativa, appunto, divina, non poteva godere dell’eterno riposo laddove ne godevano gli altri. A parte che ci sarebbe da discutere sul perchè, allora, Dio ci abbia lasciato in mano un simile potere (ma sarebbe un discorso che ci porterebbe troppo lontano dall’argomento!), anche solo questo esempio è indicativo di come venisse e venga percepito il suicidio nella società. La carica simbolica altamente eversiva che il suicidio comporta, porta ad una sua netta condanna quali che fossero le cause che spingevano la persona a compierlo.

E fin qui, credo, nulla quaestio. Il dubbio sorge su quelle convinzioni cui vi accennavo prima. Ho sempre pensato che il suicidio fosse un fatto privato, un fatto legato alla vita dell’individuo che lo compie. A rigor di termini, il suicidio non è un fatto privato, come non lo è qualsiasi morte che lasci addolorate le persone che, con il defunto, avevano dei rapporti. In questo, appunto, non è un fatto privato, come non lo è, forse, nessuna morte. Ma se questo valore sociale appartenesse anche alla scelta del suicidio stesso? Mi spiego megio. Sono sempre più convinto che l’uomo sia frutto delle relazioni che lo circondano. Continuo a ripetervi che tra le mie convinzioni più profonde si trova il fatto che qualsiasi cosa facciamo è di per se stessa relazionale, dal momento che la pensiamo/facciamo/condividiamo con altri. Solo che, non so per quale automatismo, in queste considerazioni continuo a non comprendere alcune cose. Anche il suicidio era considerato una sorta di eccezione. A farmi riflettere su questa mia convinzione è stata la lettura di uno scambio di battute tra Carl Whitaker e William Bumberry. Ve lo riporto:

Domanda: Bé, mi pare un’idea un pò strana. Intendi dire che se la madre ha tendenze suicide è perché qualcuno la vuole morta?

Carl: Certo, proprio così! Il suicidio è come ogni altra cosa: tutte queste faccende sono interpersonali. Io credo veramente nei sistemi! Non posso credere che gli individui agiscano come unità, penso invece che operino soltanto come parti di unità più grandi. (Carl Whitaker, Danzando con la famiglia, Astrolabio, Pag 166)

Ecco il grande capovolgimento di prospettiva. Se tutto è relazionale per quale motivo il suicidio dovrebbe essere un atto personale? Ovviamente sto parlando di relazioni, non di colpe. Questo vuol dire che non credo che una persona spinga un’altra al suicidio, quanto che il suicidio sia una risposta ben precisa che dovremmo valutare allargando il focus dal singolo alle relazioni significative che su quella scelta possono avere influito. Insomma, c’è la possibilità di valutare e, forse, comprendere un gesto così netto solo immaginando di coinvolgere un livello più ampio di relazioni. Credo di intuire che potrebbe essere un argomento dibattuto, ma credo che poterne parlare, poterci riflettere sia meglio di dare come acquisite alcune nostre prospettive alle quali sembriamo tanto affezionati. Trappola nel quale io stesso ero caduto.

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio

 

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Manderlay

ManderlayIl film che voglio raccontarvi in questo post è Manderlay (2005) del regista Lars Von Trier. Il film è ambientato negli Stati Uniti, cronologicamente negli anni Trenta, gli anni della Grande Depressione. La protagonista è Grace che, con il padre, arriva nella cittadina di Manderlay dove si accorge ben presto, che la schiavitù non è stata abolita e vige ancora. Grace decide di restare nonostante le pressioni delle persone con le quali è giunta per cercare di portare una idea più giusta di quella che dovrebbe essere la società. Il film si gioca essenzialmente su questo contrasto. Può una cosa ‘giusta’ per noi essere imposta comunque su una serie di regole che, per quanto accettate, appaiono ingiuste agli occhi di un estraneo? Sebbene l’innovazione possa essere positiva, non è forse un imposizione se dobbiamo costringere gli altri a seguirla? Sono interrogativi che mi affascinano nel momento in cui mi rendo conto che talvolta ‘fare del bene’ sia in realtà non solo una categoria di pensiero che imprigiona, ma anche una imposizione nei confronti dell’altro. Questo è un aspetto che spesso appare in terapia. Posso io, tentando di fare del bene, impormi su quello che è il volere, la vita dell’altro? Io, naturalmente, credo di no. Il film è abbastanza complesso e molto spiazzante. Per chi di voi non avesse mai visto un film di Von Trier, l’esperienza può essere abbastanza deludente. Non c’è set, tutti gli ambienti sono disegnati con poche linee in terra e caratterizzati da qualche oggetto. Il set ha una funzione puramente rappresentativa e simbolica. Non è vero e non vuole esserlo. Come se la veridicità di quello che viene rappresentato non avesse bisogno di ulteriori agghindamenti. Uno dei quesiti che dominano il film è, secondo me, quello sulla propria identità. Chi si può essere se non si è noi? Quanto ci vuole a ristrutturare la nostra immagine? Grace, ad un certo punto, riesce a liberarare gli schiavi e a farli essere dei cittadini liberi. Privati dell’immagine che hanno sempre avuto di se stessi, gli schiavi si trovano nel dilemma di dover decidere chi essere ora. Come se, ad un certo punto della nostra vita ci dicessero di cambiare nome. Ma io sono Fabrizio, come posso essere altro? I quesiti coinvolgono la riorganizzazione di tutta la loro esistenza. La regola era di mangiare alle sette. A che ora si cena adesso? La differenza riguarda anche la possibilità di potersi pensare come indipendenti rispetto ad una regola da rispettare. La libertà non è solo una conquista. E’ anche una grande assunzione di responsabilità. Responsabilità delle proprie scelte. Delle proprie vicende. Della propria vita. Non tutti vogliono prendersi questa responsabilità. Alcuni preferiscono che siano altri ad occuparsene. E allora, quanto il desiderio di liberarli è di Grace e quanto un reale desiderio degli schiavi? Come possiamo definirlo? Una liberazione? O un imposizione? E ancora l’imposizione come esistenza di regole. Chi semina il cotone se non c’è nessuno che lo impone? Questo anche se il frutto del lavoro è, questa volta, dedicato a loro. Come se non fosse possibile in alcun modo una nuova ristrutturazione di prospettiva. Se nessuno lo ordina non è possibile eseguire. Quando si può ordinare per se stessi? Questa impossibilità di cambio di prospettiva è perfettamente simboleggiata anche in un’altra scena del film: si parla di un albero che si trova nel giardino della signora che si occupava dell’ordine all’interno della piantagione. Nessuno pensa di tagliarlo perché l’albero è della signora e, anche se ormai è morta, nessuno può pensare di toccarlo. Come se fosse una cosa immutabile. L’albero è il simbolo dell’impossibilità di cambiamento. Nel momento in cui noi siamo prigionieri di queste regole, talvolta regole non scritte ma ben più forti di leggi codificate, non abbiamo la possibilità di essere liberi. E allora la schiavitù non è solo concreta, reale, storica, ma anche personale, interna, psicologica, tanto che si potrebbe parlare di una consolatoria tirannia della schiavitù. Schiavitù mentale. Si innesta allora il tema di quanto la schiavitù abbia vita facile nel momento in cui si innesta sulla schiavitù psichica. Non intendo certo, con questo, giustificare lo schiavismo perpetrato su milioni di persone quanto voler riflettere su quanto questo possa prolungarsi nel momento in cui si innesta su istanze personali.

Il vero capovolgimento di prospettiva si ha, però, quando apprendiamo che la ‘legge di Mam’, la donna che si occupava della piantagione, era stata scritta da uno degli schiavi insieme a Mam per tenere le cose così com’erano dopo la guerra di secessione. Il mondo non era pronto ad affrontare gli schiavi liberati. Lo schiavo che l’ha scritto dice che tutti alla fine lo sapevano e l’ha fatto per il bene di tutti. Dov’è allora il confine tra coloro che la schiavitù esercitano e coloro che la schiavitù interiorizzano? Forse la distinzione può non essere così netta come sembrava in un primo momento. Forse siamo tutti alternativamente schiavi e schiavisti. Vittime e carnefici. Grace, alla fin fine, cerca di imporre la democrazia. Viene allora spontaneo chiedersi: chi può scegliere per il bene dell’altro? Chi, anche mosso dalle migliori intenzioni, può presupporre cosa sia corretto per l’altro? Questa rivelazione fa assumere a tutto una nuova prospettiva e quello che sembrava imposto sembra ora benevolo, fatto più per proteggere che per intrappolare. Insomma un film complesso, con molti livelli di lettura (tra i quali neanche cito gli evidenti riferimenti all’esportazione della democrazia, ossimoro per indicare l’occupazione americana dell’Iraq), che vertono sulla costruzione di una propria identità e sul difficile rapporto con il cambiamento. Un film complesso ma assolutamente consigliato.

A presto…

 

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Gli Inacirema…

Gli Inacirema...In questo post vi riporto un brano che lessi durante l’Università. Ricordo ancora come mi colpì, e come mi fece pensare all’importanza di come si raccontano le cose. Tratta della storia di un popolo, gli Inacirema appunto. All’intero sistema sembra essere sottintesa la credenza di fondo che il corpo umano è brutto e tende naturalmente alla debolezza e alla malattia. Imprigionato nel corpo, l’uomo ha soltanto la speranza di prevenire tali tendenze ricorrendo alla potente influenza dei riti e delle cerimonie. Ogni famiglia dispone di uno o più sacrari destinati a questo scopo… Il punto focale del sacrario è una cassa o tabernacolo inserito nel muro. Nel tabernacolo sono conservati molti filtri e pozioni magiche, senza i quali gli indigeni credono di non poter vincere. Questi preparati sono forniti da una serie di soggetti specializzati. I più potenti tra loro sono gli stregoni, le cui prestazioni devono essere ripagate con doni di valore. Gli stregoni, però, non preparano in prima persona le pozioni curative destinate ai clienti, ma decidono gli ingredienti da usare e li mettono per iscritto in una lingua antica e segreta. Così la prescrizione risulta comprensibile soltanto agli stregoni e agli erboristi che, in cambio di altri doni, preparano la pozione richiesta…
Gli Inacirema provano un orrore e un’attrazione quasi patologici per la bocca, le cui condizioni avrebbero un’influenza soprannaturale su tutti i rapporti sociali. Gli indigeni credono che, se non fosse per i rituali riservati alla bocca, i denti cadrebbero, le gengive sanguinerebbero, le mandibole finirebbero per rattrappirsi ed essi verrebbero abbandonati dai propri amici e respinti dai propri amanti. Essi credono anche che esista uno stretto rapporto tra caratteristiche orali ed etiche. Esiste ad esempio un’abluzione rituale della bocca prevista per i bambini che ha lo scopo di rafforzare la loro fibra morale.
Tra i rituali fisici quotidiani che tutti eseguono ce n’è uno riservato alla bocca. Sebbene questo popolo sia così puntiglioso nella cura della bocca, il rito comporta una pratica che appare rivoltante allo straniero non iniziato. Mi è stato riferito che il rituale in questione consiste nell’introdurre in bocca un piccolo ciuffo di setole di maiale con l’aggiunta di certe polveri magiche, e poi nell’agitarlo seguendo una serie altamente formalizzata di gesti. Chi sono gli Inacirema e in quale parte del mondo vivono? Sarete in grado di rispondere da soli a questa domanda e di identificare la natura dei rituali fisici descritti semplicemente leggendo al contrario la parola Inacirema. Quasi ogni attività che ci è familiare sembrerà strana se descritta fuori dal proprio contesto, invece di essere vista come parte del modo di vita complessivo di un popolo. I rituali di pulizia occidentali non sono né più né meno bizzarri dei costumi di alcune popolazioni del Pacifico i cui membri si strappano i denti frontali per rendersi più belli, o di certe tribù sudamericane che si inseriscono dei dischi all’interno delle labbra per rigonfiarle, credendo che ciò contribuisca a migliorare l’aspetto esteriore. [1]

A parte sottolineare la parzialità delle stranezze dei costumi di un popolo rispetto all’altro, quale esempio migliore di come il racconto influisca sulla nostra percezione? Come dico spesso, il racconto è la realtà e al racconto stesso dovremmo necessariamente prestare maggiore attenzione. Ancora una volta la nostra rappresentazione del reale, in questo caso una tribù ben conosciuta, è data dal modo in cui essa viene raccontata. Così come, nelle nostre vicende personali, dovremmo prestare particolare attenzione al modo in cui possiamo e vogliamo raccontarla e raccontarcela. Solo mettendo l’accento su questo importanza potremmo essere più attenti al modo in cui vogliamo condividere la nostra storia con gli altri e, soprattutto, con noi, avendo anche la possibilità di introdurre elementi nuovi in essa. E renderci conto, magari, che gli inaciremi non sono poi così lontani da noi!
Che ne pensate?
A presto…

 

[1] Giddens, A. (1995), Sociologia, Il Mulino, Bologna, pag. 44
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Mi chiamo Sam

Mi chiamo SamIl post di oggi riguarda un film che tocca il tema del ritardo mentale. Avrete capito, naturalmente, che mi riferisco al film Mi chiamo Sam (2001) del regista Jessie Nelson. Il film racconta la storia di Sam Dawson, un uomo sulla quarantina ma che ha le abilità mentali di un bambino di sette anni, come ci viene spesso ricordato nel film. Sam si trova costretto a crescere la figlia da solo dato che la madre della bimba fa perdere le sue tracce alla prima occasione che ha a disposizione. Sam viene aiutato in questo compito da una serie di figure come i suoi amici e una sua vicina di casa. La situazione precipita nel momento in cui si trova alle prese con il sistema giudiziario/legale che ne vuole una valutazione sulla affidabilità come genitore. Il tema del film è, fondamentalmente questo: può una persona con ritardo essere genitore? E, più in generale, c’è un’altra questione che attraversa il film: chi può stabilire se una persona sia adeguata a svolgere questa funzione? Lungi da me il voler fare un discorso generico sul fatto che l’amore vinca su ogni cosa. Il film vira troppo spesso su questo aspetto e, se posso, credo che questa sia una delle pecche del film. Talvolta questo eccessivo buonismo, spinge lo spettatore a caldeggiare un certo tipo di soluzione che, però, pecca talvolta di eccessiva ingenuità. Se dovesse, nella realtà, succedere qualcosa alla bambina ci stracceremmo le vesti gridando allo scandalo per dei servizi sociali mancanti. Vorrei spezzare una lancia in favore di coloro che lavorano nei servizi sociali, servizi per i quali l’attenzione per la situazione è tutto, di modo che si possa evitare un errore di sottostima piuttosto che di severità. Ecco, forse anche questo aspetto nel film è abbastanza trascurato dal momento che vi è un eccessiva polarizzazione tra i ‘buoni’ e i ‘cattivi’. Temo che questo tipo di semplificazione possa funzionare in un film ma difficilmente nella realtà. Vi starete chiedendo: ma se sto evidenziando tutti questi punti a sfavore perché vi segnalo questo film? Lasciando da parte le critiche di cui sopra, il film è interessante secondo me perché pone la questione su chi deve o dovrebbe essere genitore. Abbiamo due modelli nel film: Sam, del tutto implausibile secondo gli standard sociali, che invece svolge il suo ruolo con una dedizione, un’attenzione e una cura totali, e l’avvocato che Sam riesce ad ingaggiare, del tutto plausibile secondo gli standard sociali, eppure del tutto assente con il figlio, con il quale non riesce a parlare neanche per telefono, che non riesce ad ascoltare ne a vedere.

Chi è il vero genitore? E cosa fa di una persona un genitore? Non il reddito o una Porsche, verrebbe da dire. Ma il ritardo mentale? Può il ritardo di Sam essere causa dell’allontanamento di una figlia che sembra così attaccata al padre? Tra l’altro la dinamica tra il padre e la figlia è di una bellezza toccante. Sembra costruita su tutte le teorie relazionali che conosco. Tanto la bambina riesce, crescendo, ad acquisire nuove abilità, tanto non le vuole usare per non far sentire indietro il padre che, invece, queste abilità non ha. Con continui cambi di prospettiva nei quali prima è il padre che la protegge, poi la bimba; prima la bimba che apprende, poi anche il padre; prima è il padre che fa di tutto per incontrarla poi è la bimba che fugge continuamente di casa.

E la soluzione ad una situazione così ingarbugliata, sembra essere quella di includere anzicchè quella di escludere. Così non solo non viene escluso il padre ma, anzi, il padre chiede l’aiuto ad una figura femminile per aiutarlo nel, comunque difficile, compito. E alla fine, molti dei protagonisti, messe sul tavolo le loro debolezze, sembrano molto più vicini e simili rispetto all’inizio del film.

Rimane il quesito iniziale: cosa fa di una persona un genitore? Non so se esista una risposta a questa domanda. Credo che una chiave di lettura possibile, contenuta nel film, fosse quella di non pensare che la differenza passi tra genitori buoni e cattivi. Forse, la differenza è tra coloro che sanno di essere imperfetti. E coloro che, invece, sono convinti di essere migliori.

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio

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Falso miele…

Falso miele...Avrete, forse, sentito la storia della grazia concessa dal Presidente Giorgio Napolitano il 15 Ottobre scorso a Calogero Crapanzano, il padre che quattro anni fa, uccise il figlio Angelo, 27 anni, dopo l’ennesima crisi violenta del ragazzo. Angelo era autistico e, a quanto ne sappiamo, era stato colpito da meningite quando era piccolissimo. Il tutto ha avuto come teatro il quartiere di Falsomiele a Palermo. Falsomiele. Un nome che mi ha colpito. I latini dicevano nomen omen. Nel nome, un destino. Non c’è nessun miele in questa storia, nessuna dolcezza. La grazia concessa permette ad un padre di essere a posto nei confronti della legge. Ma, temo, dovrà per sempre fare i conti con la mancanza di suo figlio. E’ un nome che descrive appieno l’ambivalenza di questa storia. Il padre di Angelo accudiva il figlio da solo dal momento che anche la moglie dell’uomo soffriva di forti esaurimenti nervosi. La situazione era insomma abbastanza pesante e Calogero, all’ennesimo scoppio d’ira del figlio, ha reagito in modo definitivo. Il giudice che si trovò a giudicarlo per primo, Lorenzo Matassa, difese l’imputato asserendo che l’uomo, e la sua famiglia, fossero stati lasciati soli sia di fronte alla malattia del figlio, sia di fronte alla difesa della salute, bene la cui difesa è prevista dalla nostra Costituzione. Per queste motivazioni, Matassa fu duramente criticato è accusato di “troppa partecipazione, di troppo afflato, di eccessiva comprensione umana…“( fonte Corriere della Sera) A parte che ci sarebbere da discutere su cosa sia la eccessiva comprensione umana, la vicenda mi ha fatto riflettere, dal momento che si colloca nel confine tra cosa è lecito fare e cosa no. Può un uomo per quanto esasperato da una situazione terribilmente complicata, porre fine alla vita di un’altra persona? E’ tollerabile che le attenuanti possano trovarsi nella salute mentale? Perché sembra che questa famiglia fosse lasciata sola nell’affrontare questa situazione? Nessuno si era mai accorto di come ci fosse la possibilità di arrivare ad un punto di non ritorno?

No, non ho delle risposte. Conosco troppo poco di questa storia per potermi permettere di darvene. Spero che, conoscendomi, sappiate che preferisco un sicuro dubbio ad una confusa certezza.

Penso sempre, però, come, in vicende come questa, l’unica mia vera certezza sia muoversi con rispetto. Rispetto delle persone coinvolte. Della storia. Di una morte. Di una storia carica di sofferenza. Una storia, forse, condizionata dalla solitudine di due persone che si sono trovate impreparate ad affrontare quello che il figlio rappresentava per loro. Una storia che, con le sue ombre, le sue ambiguità, le sue incertezze, forse ha qualcosa da insegnare anche a tutti noi.

A presto…

Fabrizio

 

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Libri, Film, Voi…

Libri, Film, Voi...In una delle mie ‘giornate di ferie’, mi ritrovavo a pensare a come ampliare i possibili argomenti (in verità già vasti!!) che potevamo condividere. Devo confessarvi che ho due grandi passioni: i libri e i film. Mi incuriosisce qualunque cosa scritta o girata quindi non saprei neanche definire che tipo di genere preferisca per entrambi. Dato che parte importante della mia formazione credo sia dovuta a questi due universi, ho pensato di condividerlo con voi e trattare specificamente di libri e di film. Come potevo unire queste mie passioni con la mia nuova passione, il blog? Ero alla ricerca di una possibile quadratura del cerchio. Ovviamente, non immaginavo di fare una semplice recensione, dato che recensioni di libri e di film potete trovarne di ben più argomentate ovunque in internet. Ho pensato, allora, che anche queste due realtà potessero essere trattate da un punto di vista psicologico. Specificamente le riflessioni che mi attraversano nel momento in cui vedo un film o leggo un libro. Quanti film sono autentici trattati della psicopatologia quotidiana? Quanti libri descrivono in poche parole situazioni che noi viviamo quotidianamente? Quante volte, in queste due arti, ci è capitato di pensare che rappresentassero in maniera perfetta i nostri sentimenti?

Ecco trovata la mia personale quadratura del cerchio. Che, poi, spero costituisca un argomento di discussione in più tra voi e me. Ovviamente anche in questo caso chiedo la vostra collaborazione, le vostre esperienze, le vostre visioni, le vostre letture, certo che vorrete condividere con me e con gli altri le vostre esperienza così come avete fatto (ben più numerosi di quanto mi aspettassi, e di questo vi ringrazio!!) fino ad oggi. Sono sicuro si possa avviare una nuova riflessione che comprende realtà che maneggiamo abbastanza quotidianamente. Solo che questa volta verranno considerate da una nuova angolazione.

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio

 

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Ogni quanto andare dallo Psicologo?

Ogni quanto andare dallo PsicologoTorniamo a parlare degli aspetti diciamo così, pratici del rapporto tra terapeuta e paziente. Abbiamo già visto chi sia lo psicologo e, in parte, perchè si vada dallo psicologo. Oggi trattiamo la questione tempo: ogni quanto si va dallo psicologo e quanto dura una terapia.

Diciamo che non c’è una risposta univoca ad entrambe queste domande.

Ogni quanto si va dallo psicologo: alcuni psicologi sottolineano l’importanza di un rapporto cadenzato almeno settimanalmente, altri fissano più incontri alla settimana per un periodo che può durare anche alcuni mesi. Molto dipende dallo stato in cui si trova la persona che fa la richiesta di terapia. Dopo, il rapporto può essere diluito a seconda delle esigenze e della sensibilità della persona in questione. Io personalmente credo che, nella costruzione di un rapporto particolare come quello terapeutico, gli incontri siano da cadenzare a seconda degli attori in gioco ma, per lo meno inizialmente, sia necessario almeno un incontro settimanale. Per quanto tempo duri questo, dipende dall’esito della terapia stessa. Data la molteplicità dei fattori in gioco è molto difficile poter dare risposte definitive in merito. E’ possibile, però, affrontare con chiarezza questo argomento fin dall’inizio della terapia. Potete per esempio dare/vi un tempo di controllo per vedere come sta andando il processo. Quello che vi posso consigliare è di parlare delle vostre impressioni e delle vostre esigenze con la persona alla quale vi siete rivolti.

Seconda parte della domanda: quanto dura una terapia? Come abbiamo detto anche per questa domanda non c’è univocità di risposte: ci sono terapie molto brevi (anche solo tre, quattro incontri), altre che durano molto più tempo. Anche in questo caso gran parte dell’esito dipende dalla relazione che si instaura tra terapeuta e paziente. E anche in questo caso l’unica cosa che mi sento di suggerire è quella di parlare con la persona con la quale state lavorando.

Come avrete capito, l’aspetto che mi preme sottolineare è l’unicità della relazione terapeutica che non permette un’invariabilità nella risposta. Ovviamente esiste l’orientamento generale del terapeuta. Questo orientamento può essere dato, tra le altre cose, dal suo indirizzo di specializzazione, dalle sue convinzioni personali e lavorative, dalla sua impostazione terapeutica. Ora potete capire la difficoltà di indicare a priori la durata di una relazione di questo tipo!!

Sperando di aver chiarito un altro punto vi saluto.

 

A presto…

Fabrizio

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