#Iononriparo (2)

just-love

–  Attaccare continuamente l’autoconsapevolezza del reprobo, tramite l’istigazione alla confusione, all’incertezza e all’insicurezza, la promozione di ogni dinamica di autosqualifica e l’imposizione di immagini degradate precostituite. Si lede in questo modo nelle persone omosessuali un diritto umano cruciale: quello di potersi valorizzare nelle forme affettive amorose che più corrispondono alla propria autenticità. Si impedisce al diverso di esprimersi alla pari con gli altri: è la strada maestra per raggiungere anche tutti gli altri obiettivi. In questo modo si impedisce al deviante – e ai suoi familiari – ogni alternativa esistenziale, sociale, etica e prima ancora psicologica. Egli deve vedere davanti a sé solo la distruzione di ogni prospettiva e del futuro, una completa mancanza di speranza e di senso, perdendo ogni sfiducia e aspettativa di bene.

–  Impedire in tutti modi che il soggetto elabori una visione alternativa positiva di sé e della propria affettività: ogni tecnica deve essere impiegata per rendere il soggetto incapace di operare un distacco dalla visione negativa in cui è cresciuto. Egli deve trovarsi così senza punti di riferimento, bandito e disprezzato dalla comunità di appartenenza, squalificato eticamente e psicologicamente e dunque leso nel proprio Sé. Deve arrivare ad autoaccusarsi di negare i valori di correttezza, di seguire le leggi di Dio, della natura, dell’ordine fecondo del mondo.

– Sottoporre le persone omosessuali – e la loro famiglie – a predizioni negative catastrofiche, imputando loro un destino maligno e infelice; e lanciare profezie di sventura perché fatalmente sia avverino. D’altronde, è facile fare profezie negative sul triste destino degli oppressi, perché distruggere le possibilità è assai più facile che costruirne. Ecco perché in questi testi c’è un’insistenza drammatica sulla disperazione e la negatività di ogni cosa che riguarda il gay, così come una massificazione deterministica. Perché se venisse fuori che tante sono le possibilità e le forme di vita, allora vorrebbe dire che differenti sono i destini che le persone omosessuali possono avere. E, dunque, è possibile sottrarsi al percorso nefasto che si vorrebbe loro imporre come destino. Addirittura, è possibile vivere serenamente. Che fine farebbero, allora, le minacce alle profezie apocalittiche così facilmente sollecitate? [1]

Divisione, contrapposizione, espulsione, istigazione, patologizzazione sono solo alcune delle caratteristiche di questo tipo di teorie che basano il loro successo sulla divisione tra una (presunta) normalità da perseguire e un’anormalità da colpire e ostracizzare. Questo bisogno di etichettamento porta a non considerare la storia dell’individuo, le sofferenze che, spesso per la colpevole repressione sociale che ancora circonda le scelte sessuali individuali, caratterizzano la sua vita e anzi, approfittando di questa debolezza e di questo bisogno di (presunta) normalità, cerca di instillare il bisogno di accettazione nel paziente insistendo su quanto potrebbe essere migliore una scelta sessuale che sia socialmente approvata e non repressa ed ostacolata e come questo potrebbe significare minore sofferenza per il soggetto stesso. Quest’ultimo, affidandosi e fidandosi del suo terapeuta, ritiene che una scelta di questo tipo possa essere preferibile e possa evitare alcune sofferenze sebbene sia una scelta che  si accompagna alla repressione e al rinnegare i propri istinti più naturali, più ‘normali’ proprio perché innati

É contro questo tipo di deriva patologizzante che ci siamo impegnati, mettendoci anche la faccia, per ribadire la scorrettezza di questo tipo di pratiche. Pressioni di questo tipo sono profondamente scorrette qualunque sia il tema, dal momento che il terapeuta non ha il compito di dire al suo paziente cosa debba fare/essere, quanto di cercare di capire con lui quali scelte siano più adatte nella sua vita.  E, non dimentichiamolo, costituisce una violazione profonda del Codice Deontologico degli Psicologi il quale, all’articolo 3, sancisce come lo psicologo è consapevole della responsabilità sociale derivante dal fatto che, nell’esercizio professionale, può intervenire significativamente nella vita degli altri; pertanto deve prestare particolare attenzione ai fattori personali, sociali, organizzativi, finanziari e politici, al fine di evitare l’uso non appropriato della sua influenza, e non utilizza indebitamente la fiducia e le eventuali situazioni di dipendenza dei committenti e degli utenti destinatari della sua prestazione professionale.

Insomma ancora una volta il rispetto della persona che ci si siede davanti dovrebbe venire prima di tutte le nostre considerazioni personali, morali o religiose che siano. Questa attenzione è premessa per me indispensabile per svolgere con correttezza e attenzione il delicato lavoro che abbiamo scelto di portare avanti. 

Come sempre chi volesse/potesse condividere la sua esperienza può farlo contattandomi per mail (fabrizioboninu@gmail.com) oppure commentando il post.  

A presto…

Fabrizio Boninu

[1] Rigliano, P., Ciliberto, J., Ferrari, F. (2012), Curare i gay?, Raffaello Cortina Editore, Milano, pp. 170-172

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#Iononriparo (1)

just-loveQualche tempo fa io e la mia collega Carla Sale Musio, aderendo alla campagna nazionale di sensibilizzazione sul tema, abbiamo pubblicato la foto con la scritta #iononriparo. Molti contatti ci hanno chiesto cosa volesse dire quel cartello, a cosa si riferisse e cosa non riparassimo. La maggior parte delle persone pensava fosse legato al fatto che ‘non ripariamo i matti’, e che semplicemente aiutiamo le persone ma non le aggiustiamo. Sicuramente è vero che, nel senso letterale del termine, non ‘ripariamo’ nessuno, ma in realtà il focus di quella campagna era molto più specifico e si riferiva alla netta contrarietà che noi, e moltissimi altri colleghi, nutriamo nei confronti delle cosiddette teorie riparative nei confronti dell’omosessualità. Grazie a questa foto, mi sono reso conto che poche persone conoscono queste posizioni e sarebbe forse il caso di cercare di capire cosa siano e su quali princìpi si basino. Le cosiddette teorie riparative, dette anche terapie di conversione, sono terapie che hanno come finalità la negazione dell’orientamento sessuale dell’individuo e il suo riorientamento verso una sessualità percepita come normale, quindi sostanzialmente ed esclusivamente la sessualità eterosessuale. Le terapie di conversione basano la loro efficacia sulla repressione del proprio desiderio primario per l’assecondamento di un desiderio sessuale considerato più ‘normale’ o socialmente accettato. Gran parte di queste teorie sono sostenute da psicologi o terapeuti fortemente legati ad organizzazioni religiose, ottica che necessariamente altera da principio il lavoro con la persona omosessuale. Queste posizioni sono fortemente osteggiate dalle associazioni di psicologi e psichiatri, sia americani che europei, in quanto forzerebbero la terapia con il paziente verso esiti imposti socialmente e contribuirebbero all’associazione omosessualità=malattia, associazione rinnegata da tempo da tutte le più importanti organizzazioni internazionali di psicologi, nonché dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. 

Quali sono i princìpi sui quali queste teorie si basano? Quali sono le premesse che fondano questa classificazione tra una sessualità ‘accettata’ e una invece inaccettabile e da modificare? Questo lavoro è basato sulla disanima fatta nel testo Curare i gay?(in fondo al post, come sempre, trovate tutti i riferimenti bibliografici) che ha provato a classificare i presupposti metodologici dei quali questo tipo di teorie si fa forte:

– Contrapporre in modo rigido identità maschile e femminile, dentro l’unico ordine naturale possibile, quello eterosessuale. Dunque tutto ciò che si discosta da questo schema binario non può che essere patologia o peccato, più spesso tutti e due.

– Sottoporre l’omosessualità di cui il soggetto è malato a ogni sorta di denigrazione e squalifica – psicologica, etica, religiosa – e precludere al soggetto stesso ogni bene e valore in cui pure il soggetto crede e che gli viene imputato di negare per definizione a priori.

– Contrapporre in modo insanabile il bene e il male, secondo una logica “tutto o nulla”.

– Espellere l’omosessualità dall’Ordine dell’umanità: essa non esiste se non come patologia, chi vuole farne un’identità si contrappone ai principi e alle forme eterne in cui si incarna il progetto di Dio per l’umanità.

– Legittimare, non condannandolo, l’odio sociale, il disprezzo fino all’ostracismo, fino agli attacchi fisici – a partire dalla riprovazione fino all’espulsione da parte della propria famiglia; se il deviante è soggetto all’isolamento e all’emarginazione, che implica la mancanza di ogni supporto, questo è una conseguenza del suo essere. 

– Instaurare un vero e proprio processo di patologizzazione basato sulla disumanizzazione delle persone omosessuali, per arrivare a contestarne l’esistenza. Tale processo si svolge attraverso varie tappe: separare “gli omosessuali” da “i normali”; indicarne le tappe di una progressiva degenerazione; evidenziarne i segni patologici affinché i sani possano esercitare il proprio acume diagnostico; eliminare tutto ciò che contrasta con questa visione, fino a leggerne i segni positivi come contro reazione compensatore fraudolenta; costruire una visione catastrofica deterministica del loro destino; evitare sempre di analizzare il contesto in cui diversi sono costretti a vivere. Viene instaurato un circolo vizioso autogiustificantesi: dal metaforico si passa al corpo e poi al simbolico e quindi al comportamento. Dal disordine del desiderio si passa alla immoralità del comportamento, al danno provocato al proprio fisico, rintracciando in esso i segni che dicono la morbosa malvagità del gay, e poi di nuovo si giunge alla condanna psicologico-morale, stabilita definitivamente in sede etico-religiosa: i gay sono moralmente disonesti perché oggettivamente disordinati.

– Strutturare così un perfetto meccanismo di circolarità paranoica, che genera generalizzazione (“tutti gli omosessuali sono uguali”, cioè malati, ma anche “tutti i gay sono uguali”, cioè perversi), personalizzazione (ciò che vedo dei comportamenti è proprio come la persona è), insensatezza (per essere così devono per forza avere qualcosa di sbagliato), deresponsabilizzazione (se sono così è solo colpa loro). Quando si fa fatica a trovare ciò che si cerca, lo si suppone, e allora scatta il delirio di riferimento e di persecuzione: è il grande complotto della lobby gay, la congiura degli insospettabili corrotti contro gli innocenti.

 

– CONTINUA –

[1] Rigliano, P., Ciliberto, J., Ferrari, F. (2012), Curare i gay?, Raffaello Cortina Editore, Milano, pp. 170-172

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Ipersemplificare la realtà

semplificareIl sottotitolo di questo post potrebbe essere ‘viaggio al centro di una realtà più facile’. Una delle tendenze che ho notato maggiormente, nel mondo virtuale ma non solo, è come tutto venga semplificato in maniera incredibile. Di qualunque cosa si tratti, di qualunque cosa si parli, di qualunque cosa si discuta, le posizioni degli interlocutori si polarizzano sulla semplificazione estrema, su un buono e su un cattivo, su un giusto e sbagliato, anche quando si tratta di realtà ben più complesse. Come mai avviene tutto questo? Che bisogno abbiamo di questo movimento? Una delle prime spiegazioni che mi viene in mente riguarda il fatto che forse proprio ora abbiamo idea della complessità della realtà che ci circonda. Mi spiego meglio: siamo nel momento storico in cui abbiamo la maggiore disponibilità di informazioni che l’uomo abbia mai avuto. Non so se tutto sia disponibile online, ma è vero che un enorme numero di informazioni è disponibile per chiunque.

Il vero problema in questa mole di informazioni diventa, semmai, quello di vagliare la validità o meno di queste informazioni. Se è vero che i nuovi media, come i social network, hanno fornito una massa di informazioni in più, che l’uomo non ha mai avuto a disposizione, è anche vero che è diventato ancora più complicato cercare di interpretare questa quantità enorme di informazioni, cercare di capirne il senso e conseguentemente capire il nostro senso rispetto a quello che veniamo a sapere. Fare questo non è assolutamente facile, ne semplice, anzi.

La difficoltà percepita nel maneggiare ed interpretare queste informazioni rinforza la tendenza a sfrondare il più possibile la realtà da quegli elementi che non comprendiamo per non aumentare ancora di più la possibile confusione interpretativa. Questo lavoro di sfoltimento comporta necessariamente la problematicità di stabilire che cosa sia o che cosa non sia realistico, che cosa sia o che cosa non sia veritiero. Inevitabilmente questo comporta la necessità di semplificare quello che abbiamo capito essere troppo complesso. Ad esempio considerare l’Euro in tutta la sua complessità è molto più ostico rispetto al dire che l’Euro è colpevole di tutti i mali nei quali ci troviamo. Che, se ci si sofferma a pensare, sarebbe come affermare che il maggior numero di feriti per armi da taglio dipenda dal fatto che ci sono troppi coltelli in giro.

Questo disorientamento informativo porta ad una ipersemplificazione della realtà perché le persone non sentono più di avere gli strumenti, nel mare magnum delle informazioni disponibili, per accettare il livello di complessità che la realtà ha ormai mostrato. Inoltre è molto più protettivo per noi pensare di conoscere (e padroneggiare) la realtà nella quale ci troviamo. Questo, credo, è ciò che avviene: più informazioni abbiamo, più abbiamo bisogno di semplificare quello che ci vien detto dovendo sacrificare, sull’altare della comprensione, la complessità della realtà all’interno della quale ci muoviamo. Più ci addentriamo nella conoscenza, più ci addentriamo nel sapere che cosa succede, più ci addentriamo e capiamo qual è appunto la complessità di tutto ciò che ci circonda, più abbiamo bisogno di negare questa complessità.

La prospettiva da preferire, per quanto ovviamente più difficile, sarebbe appunto quella  della complessità: è fuorviante pensare che esista un’unica causa per spiegare quello che ci circonda, è complicato capire dove possa collocarsi il ‘colpevole’ o la ‘vittima’, dove si collochi il buono e dove il cattivo in molti ambiti della nostra vita quotidiana. E’, invece, apparentemente più semplice, ma credo meno esaustivo, concentrarci su chi sia il buono da tifare o il cattivo da stigmatizzare, dove sia il giusto e dove sia lo sbagliato, cosa sia da mettere sugli altari e cosa gettare nella polvere.

L’ottica della complessità è per me assolutamente necessaria per cercare di capire quella che è la sovrapposizione di diversi livelli della realtà che ci circonda. La soluzione non è quella di semplificare le informazioni che riceviamo perché questo movimento solo apparentemente ci aiuta nella comprensione di cosa sta succedendo intorno a noi. Semplificare può essere rassicurante, ma non ci consente di leggere la natura di ciò che ci circonda. Il fatto che la complessità comporti uno sforzo maggiore per comprendere sarà alla lunga ben più appagante che tifare quello che abbiamo eletto il buono (o il cattivo naturalmente!).

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

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Storie di ordinaria sofferenza

Storie di ordinaria sofferenzaUn giorno come tanti, in studio. Il penultimo appuntamento di un martedì è con un ragazzo nuovo. Lo chiameremo Luca.

Luca, per quanto odi questo termine, è un ‘normale’ ragazzo di 12 anni. Va bene a scuola, fa sport, è integrato nel gruppo dei suoi amici. Apparentemente non ha nulla di cui parlare e, perlomeno nei primi istanti, mi chiedo cosa ci faccia li con me. Avverto un non detto, una paura che aleggia sopra la normalità della sua vita di dodicenne. Mi  racconta tante cose, è aperto e si fida della mia curiosità, mi racconta delle sue passioni, mi introduce ai suoi sentimenti. Come se stesse entrando in un territorio minato, avverto il cambio di clima emotivo e, mentre inizia a parlare del fratello spiazzandomi, come solo gli adolescenti riescono, inizia a piangere.

Piange molto, piange lacrime amare che cerca di nascondere. Piange e io non so che fare. Non riesco a capire cosa lo abbia fatto piangere, non riesco a capire che cosa lo stia spaventando tanto, non riesco a capire cosa stiano esprimendo quelle lacrime. Non so se fermarmi o se chiedergli cosa non vada, se interpreterà meglio il mio silenzio o le mie parole. Alla fine è lui a spezzare il momento. Sempre continuando a piangere, mi dice che è così triste perché una persona ha apostrofato suo fratello col termine ‘frocio’. Ci sta male, soffre per la cattiveria delle persone e sente di non essere in grado di proteggere il fratello dall’insensibilità altrui.

Mi trovo subito a pensare cosa fare. Cercare di fargli capire quanto le persone a volte siano insensibili e non si accorgano di quanto possano fare male? Cercare di fargli comprendere quello che sente? Il mio voler fare non mi permette bene di accorgermi di ciò a cui sto assistendo: il mio spiazzamento di fronte alla bellezza, alla pulizia dei sentimenti di un ragazzo che piange per il modo ignobile in cui viene apostrofato il fratello. Mi inorgoglisce pensare di avere a che fare con una persona così bella. Penso che se ci fossero tante persone così, il mondo sarebbe un posto migliore, le persone baderebbero di più a non ferirsi. La verità è che mi emoziona. Mi emoziona profondamente. Mi fa, per l’ennesima volta, amare profondamente quello che faccio, mi fa amare il mio privilegio di poter assistere, spesso nascosta dietro alla sofferenza e alle lacrime, alla bellezza delle persone. Mi emoziona profondamente poter pensare al grande insegnamento che, magari del tutto inconsapevolmente, questo ragazzo mi sta dando. Mi emoziona profondamente la sensibilità con la quale riesce ad aprirsi davanti ad uno sconosciuto e comunicare in un solo istante le paure che prova. Mi emoziona e lo ringrazio per questo.

Sono convinto che condividere un disagio di questo tipo sia profondamente terapeutico, perché diamo la possibilità a noi stessi di far emergere i sentimenti che temiamo e che non sappiamo come gestire. Ed è profondamente terapeutico trovare una persona che non rimane indifferente a ciò che ti ferisce.

Di un’altra cosa sono convinto: di quanto profondamente mi rattristi che un ragazzo debba piangere perché le persone non accettino che il fratello potrebbe essere omosessuale. Per l’ignoranza che ancora circonda le scelte di vita che una persona può (o può non) fare. Per la superficialità con la quale le persone spesso feriscono. Non ho soluzioni per quello che mi racconta, non posso prepararlo a proteggere meglio il fratello di quanto non faccia, ne a cambiare le persone. Posso solo invitarlo a comunicare quello che prova, in primis al fratello stesso, lasciando che sappia che l’epiteto che gli rivolgono lo colpisce molto, gli provoca tutta una serie di emozioni. E che sappia che quello che prova o quello che deve subire il fratello non lascia tutti indifferenti.

A cominciare da me. 

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

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FILM: Requiem for a dream

Requiem-for-a-Dream-Wallpaper-Il film del quale voglio parlarvi oggi è uno dei film più descrittivi di quello che è la dipendenza in ogni suo aspetto. Requiem for a dream (2000) diretto da Darren Aronofsky, è la lenta discesa di ognuno dei quattro personaggi principali nella sua personale dipendenza. Il titolo è abbastanza esplicativo di quello che verrà mostrato: il requiem per ogni sogno, per ogni speranza e per ogni illusione delle persone che mostra. I protagonisti sono la signora Sara Goldfarb (Ellen Burstyn) madre e casalinga, completamente e totalmente dipendente dalla sua televisione e dal figlio Harry (Jared Leto), unico scopo della sua vita. Harry, a sua volta tossicodipendente, è molto legato all’amico Tyrone (Marlon Wayans) e alla fidanzata Marion (Jennifer Connelly), tossicodipendenti a loro volta.

Ognuno dei protagonisti si lega alla dipendenza dell’altro e ha come obiettivo il proprio riscatto, che persegue con ogni mezzo fino all’autodistruzione, al requiem del titolo per il sogno di farcela. Il film è secondo me perfetto per descrivere non solo la dipendenza, quanto l’alienazione, sia nei confronti degli altri che nei confronti di se stessi, che il mancato riconoscimento di queste debolezze porta a non affrontare.

La madre, Sara, è del tutto presa dalla realtà fittizia dei suoi programmi televisivi, dai continui gesti stereotipati che scandiscono il passaggio del tempo in una routine quotidiana ormai insignificante, mentre coltiva la speranza e il desiderio di partecipare al suo programma preferito e, tramite questo, avere il suo personale riscatto da una vita solitaria nella quale non le è rimasto nulla dopo la morte del marito. In vista della ipotetica partecipazione ad uno dei suoi programmi tv, Sara coltiva una vera e propria ossessione per il suo aspetto fisico, volendo rientrare in un abito che non indossava più da tanto tempo. Questo obiettivo assurge a diventare idolo della sua stessa esistenza, unico e inutile scopo di una vita vuota. Per ottenere l’agognato risultato, si rivolge ad un medico che le fa assumere (e sviluppare un’altra dipendenza) delle anfetamine, farmaci anoressizzanti.

Nessuna delle amiche della donna interviene, nessuna (ma questo accade di continuo nel film tra i diversi personaggi) si rapporta con la persona reale quanto con le aspettative che hanno nei confronti dell’altro. L’alienazione è ben descritta dal rapporto che Sara ha con il medico che ne segue la dieta: in nessuna occasione la degna di uno sguardo: il loro rapporto è dato semplicemente dalla compilazione della ricetta per le pillole.

La relazione di Sara col figlio Harry è sullo stesso piano: alienante. Sara non sembra chiedersi mai chi sia/cosa faccia il figlio ma proietta su di lui i suoi desideri (che lavori, che trovi una fidanzata, che abbia una vita ‘normale’); a sua volta il figlio non si rende conto dell’alienazione della mamma nel suo isolamento, mirando semplicemente a farla felice cercando di comprarle una televisione migliore. Non esiste nessuna famiglia, non c’è una relazione: il loro è l’incontro di debolezze, speranze e desideri che si proiettano sull’altro. La ragazza di Harry, Marion è un altro esempio di come la famiglia sia del tutto assente: proviene da una famiglia benestante (che non compare mai nel film) il cui unico scopo è mantenerla e pagarle le cure da uno psichiatra. Anche lo psichiatra, così come il medico che segue la mamma Sara, è una figura misera in questo quadro, un approfittatore delle debolezze altrui. Harry e l’amico Tyrone hanno come unico scopo quello di riuscire a diventare spacciatori sempre più grandi e affrancarsi da una vita fallimentare diventando ricchi (vedi le fantasie risarcitorie ricorrenti di Tyrone con la madre e le sue promesse che ‘ce l’avrebbe fatta’). 

Il risultato, ovviamente, sarà di tutt’altro tipo: una lenta discesa nell’inferno personale di ciascuno di loro, una totale incapacità di accettare i propri limiti e le proprie possibilità, un continuo stordirsi con tutto (droga, tv, sesso…) qualunque cosa permetta loro di allontanarsi da quello che sono e possa far sognare realtà che non esistono, vite degne di nota, possibilità di riscatto nate e cresciute dall’essere qualcun’altro piuttosto che riuscire a partire da se stessi.

Questa scissione tra chi si è e cosa si vorrebbe essere è data anche a livello visivo dall’uso che il regista fa del cosiddetto split screen, la divisione in due diverse inquadrature dello schermo. I protagonisti sono spesso scissi tra una realtà immaginaria e consolatoria e una verità che non accettano e che rifuggono. Un continuo alternarsi tra vita reale e speranza, tra mondo concreto e illusione che trova il suo apice nei deliri della madre ridicolizzata dal suo scintillante alter-ego televisivo e totalmente frastornata dalle sue paure nel mondo reale, del tutto in balia della sua separazione, incapace di permettere un dialogo tra le sue varie anime che acquistano spessore e che arrivano a scontrarsi frontalmente.

Il film è diviso in tre episodi intitolati Summer (estate), Autumn (autunno) e Winter (inverno). L’inverno è l’inverno delle anime, anime diventate completamente fredde, completamente sorde a se stesse, impegnate nella ricerca di qualcosa o di qualcuno esterno loro che possa far sentire il senso della propria vita che si avverte perduto. All’inverno non segue nessuna primavera, nessun risveglio, nessuna rinascita. La lenta discesa è compiuta, l’alienazione è arrivata all’apice: ognuno di loro non ha più idea di chi sia ne del proprio senso. Un film assolutamente cupo, nelle atmosfere, nella fotografia, nelle luci, nella splendida colonna sonora, un film crudo su cosa siano le dipendenze (emblematico, in questo senso, il fatto che lo spaccio avvenga all’interno di un supermercato, moderno luogo delle nostre molteplici dipendenze, quali esse siano: alimentari, igieniche, ludiche…).

Un film estremo che spinge a riflettere sulla dipendenza, sulle diverse forme di dipendenza e su come queste abbiano la capacità di allontanarci da noi stessi, nel portare il baricentro del nostro equilibrio sempre più lontano fino a farci crollare, fino a farci collassare in un inverno perenne.

Qualora l’aveste visto e voleste farmi sapere la vostra opinione, lasciate un commento o scrivetemi (fabrizioboninu@gmail.com)

A presto…

Fabrizio Boninu

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A scuola di violenza

A scuola di violenzaSono rimasto colpito, come molti di voi credo, dall’ennesimo caso di cronaca riguardante un episodio di violenza scolastica. In breve il racconto (come apparso sul quotidiano L’Unione Sarda): un insegnante di disegno di una scuola di Cagliari, è stato denunciato dai genitori di un suo alunno sedicenne perché lo avrebbe schiaffeggiato. L’episodio risale al 29 ottobre scorso. Sempre stando a quanto riportato dal quotidiano, il ragazzo era stato ripreso diverse volte perché disturbava la lezione ed era stato infine mandato fuori dall’aula. Il professore sostiene di essere stato aggredito dal ragazzo e di avergli dato uno schiaffo per difendersi. Nell’articolo si riporta anche la posizione dei genitori del ragazzo che qualificano l’episodio come ingiustificabile.

A corredo dell’articolo, i commenti dei lettori all’episodio rendono molto bene la posizione generale su questo tipo di episodi: ‘Non credo che il professore abbia torto ma credo che i genitori oltre allo schiaffo del prof dovrebbero darglielo anche loro. Coraggio prof io sono con te.’, ‘Il prof. ha fatto benissimo, due ceffoni ben dati quando ci vogliono fanno solo bene. Io li darei anche a certi genitori che sono più cafoni dei loro figli’, ‘Siamo arrivati all’assurdo non solo non sono in grado di educare i figli ma si permettono pure di denunciare. …… mio padre mi avrebbe preso a calci …..povera Italia !’, ‘Se i fatti si sono svolti come riporta la cronaca:PIENA SOLIDARIETÀ AL DOCENTE. Sono una madre di tre figli e ho avuto molto dalla scuola per i miei ragazzi, ai quali ho sempre insegnato rispetto per le istituzioni’, e ancora ‘Se ai miei tempi un insegnante fosse arrivato al punto di darmi uno schiaffo e lo avessi riferito a casa ne avrei preso il doppio dai miei genitori’, ‘Confido nel Giudice chiamato ad esprimersi sull’accaduto affinché dia un paio di calci nel sedere a quel genitore degno di cotanto figlio!’, ‘Purtroppo questi teppisti da strapazzo riescono a compromettere la vita è la serenità di una intera comunità provocando all’inverosimile e non consentendo di fare lezione.. Ma la cosa grave è che sono anche spalleggiati da genitori incapaci ad educare che in queste situazioni hanno sempre la denuncia facile per raggranellare qualche soldo. Fosse stata mia madre, lui avrebbe aggiunto su me altri sonori ceffoni dopo quello del professore’, ‘Difesa totale nei confronti del professore’, e infine ‘Perché non denunciarli ai tribunali dei minori per l’inadeguatezza della loro educazione?’.

Il tono dei commenti è sorprendentemente simile. Sostanzialmente abbiamo la condanna dei genitori, la condanna del ragazzo e il supporto dell’insegnante. Lo schieramento è palese. Nessuno si chiede cosa abbia fatto degenerare in questo modo la situazione. Nessuno ipotizza che questo sia solo l’ultimo anello di una catena molto lunga che vede noi adulti coinvolti nella sempre più marcata incapacità di fornire modelli positivi ai ragazzi. Si parte lancia in resta con l’accusa, non sembra esserci spazio per una riflessione, per un’interrogarsi che non ha facili ricette.

Il disagio all’interno delle scuole sta diventando sempre più evidente e palpabile, ed è qualcosa che travalica sempre più spesso il contesto scolastico e assurge a fatto di cronaca. Alcuni punti sembrano però chiari e compaiono anche in questa vicenda: il più evidente è l’allentamento dell’alleanza genitori/insegnanti. Se un tempo c’era il riconoscimento sociale del ruolo dell’insegnante e della sua funzione educativa, ora spesso sembra di assistere ad una battaglia tra due eserciti schierati che sembrano non condividere gli stessi obiettivi. In questo scollamento gli insegnanti si trovano soli a fronteggiare difficoltà che, per paura che sfocino in denunce, vengono lasciate perdere e non contenute. Quest’ultimo aspetto, il ricorso frequente a denunce, non fa che esacerbare ulteriormente le posizioni, disimpegnando gli insegnanti.

Qual è la soluzione a tutto questo? Non ho facili consigli da dare, perché ritengo la situazione particolarmente complessa. Mi vengono in mente, invece, una serie di condizionali: andrebbe rivista la nostra scelta educativa, andrebbe favorito il confronto tra posizioni diverse, andrebbe coltivato il rispetto delle persone e della loro funzione, andrebbe svelenito il clima, andrebbe rinsaldata l’alleanza tra le figure che, a vario titolo, si occupano dell’educazione dei ragazzi. Andrebbero fatte tante cose in effetti. Andrebbe anche evitato uno schieramento aprioristico su posizioni facili (ha ragione l’insegnante/hanno ragione i genitori) che non solo ci fanno perdere la complessità della vicenda, ma che temo non aiutino a comprendere quello che succede.

Che ci sia spesso un atteggiamento esecrabile da parte di alcuni ragazzi è, purtroppo sempre più frequente. Che quei ragazzi siano cresciuti con modelli adulti quantomeno discutibili è un altro tassello del puzzle. Che le cose possano essere risolte additando un colpevole, questo è un aspetto del quale non sono poi tanto sicuro

Come sempre chi volesse/potesse condividere la sua esperienza può farlo contattandomi per mail (fabrizioboninu@gmail.com) oppure per telefono (3920008369). 

 

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

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Come avere figli educati?

Come avere figli educatiIl post di oggi riporta un articolo del Corriere della Sera che cerca di individuare quale sia la strategia migliore per avere figli più educati: è meglio premiarli o sgridarli? Meglio metterli in punizione o lodare il comportamento corretto? Non è una differenza di poco conto se ci si pensa, perché il metodo educativo basato sulle punizioni si basa sull’intimorire il bimbo sulla reazione al comportamento sbagliato, mentre elogiare un comportamento corretto fa leva sul rinforzo positivo ad un comportamento ‘buono’. Nell’articolo si propende per il privilegiare l’elogio piuttosto che la punizione. Questa tendenza viene chiamata «terapia di interazione tra genitori e figli» ma, più semplicemente, è la tendenza, propugnata da una parte degli psicologi infantili, ad accantonare le punizioni (per lo meno quelle troppo drastiche) e a privilegiare elogi e abbracci. In pratica, l’imperativo per i genitori è: non fissatevi sui comportamenti ‘cattivi’ ma valorizzate quelli ‘buoni’

Secondo lo psicologo Timothy Verduin, docente di Psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza all’Università di New York, sarebbe meglio che questi elogi venissero accompagnati da manifestazioni fisiche di affetto (una carezza, un abbraccio…) che avrebbero lo scopo di accompagnare e rinsaldare il legame tra genitori e figli. Questa è la ricetta per avere figli educati? In realtà, l’articolo riporta quelle che sono le ‘evidenze empiriche’ di ogni genitore: a volte semplicemente parlare non serve a molto, sopratutto se il bambino è piccolo. Cercare di far comprendere solo col dialogo a volte non sembra dare i risultati sperati, e i genitori si trovano costretti ad alzare la voce. E’ un comportamento basato sulla punizione anche se stabilisce comunque una regola all’interno della famiglia e presuppone che sia contenitiva rispetto ad una totale assenza di regole o ad una liceità apparente per tutto. Le regole in qualche modo ordinano il mondo per quanto sembrino dolorose da rispettare. 

Per il rispetto delle regole stesse vale il principio che sarebbe meglio l’elogio piuttosto che la punizione. Come riportato nell’articolo, infatti, il castigo è un’arte, e molto difficile» spiega lo psicoterapeuta Gustavo Pietropolli Charmet. Che illustra il metodo: «Bisogna prima di tutto capire qual è la comunicazione implicita contenuta nella trasgressione della regola: nella violazione di un patto c’è sempre, nel bambino, una speranza di potersi affrancare, di crescere. Se capiamo questo suo desiderio e lo aiutiamo a realizzarlo non ripeterà il comportamento scorretto. E ancora: La sanzione non deve mortificare ma aiutare a crescere. Per esempio, se la trasgressione sta nel non apparecchiare la tavola, si potrebbe far frequentare al bimbo un corso di cucina, per sviluppare una competenza legata al cattivo comportamento». L’arte del castigo, insomma: «La punizione – nota Charmet – è un momento educativo molto alto: il bambino che trasgredisce non si aspetta di provare un dolore fisico o morale come conseguenza della sua azione, ma vuole vedere quale sarà la reazione degli adulti al suo superare i limiti fissati» Ecco perché il «buon» castigo conclude lo psicoterapeuta, «richiede tempo e astuzia». E non deve essere una sculacciata, «o un togliere ai figli i soldi, le uscite o l’uso del computer». Sì al castigo allora, ma con intelligenza.

L’aspetto importante è cercare di capire cosa il bambino sta cercando di comunicarci con il suo infrangere le regole. Non si tratta di cose molto lontane dalla realtà come si può vedere. Basta applicare buonsenso e giudizio. E cuore. Capisco che molti di voi potrebbero obiettare alla frequenza del corso di cucina, ma ci sono veramente tanti metodi per ottenere lo stesso risultato. Quello che posso suggerire è il coinvolgimento: una soluzione che veda coinvolti i genitori (per vicinanza, per spiegazione, per comprensione…) avrà risultati sicuramente più duraturi di una semplice punizione per privazione (‘non usi il pc, non usi più i giochi’, ecc.)

Intanto qui il link all’articolo:

L’articolo è di Giulia Ziino.

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

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L’eterocentrismo: le sentinelle in piedi

L'eterocentrismo le sentinelle in piediLa riflessione di oggi parte da una fenomeno abbastanza recente ma che sta incontrando una discreta rilevanza mediatica: le cosiddette sentinelle in piedi. Il 5 Ottobre abbiamo assistito alla nuova manifestazione, in diverse piazze d’Italia, dei rappresentanti di questa associazione. Ma chi sono le sentinelle in piedi e qual è il loro obiettivo? Come riporta il sito nazionale sentinelle in piedi è una resistenza di cittadini che vigila su quanto accade nella società e sulle azioni di chi legifera denunciando ogni occasione in cui si cerca di distruggere l’uomo e la civiltà. Ritti, silenti e fermi vegliamo per la libertà d’espressione e per la tutela della famiglia naturale fondata sull’unione tra uomo e donna.
La nostra è una rete apartitica e aconfessionale: con noi vegliano donne, uomini, bambini, anziani, operai, avvocati, insegnanti, impiegati, cattolici, musulmani, ortodossi, persone di qualunque orientamento sessuale, perché la libertà d’espressione non ha religione o appartenenza politica, ci riguarda tutti e ci interessa tutti.
[1]

Cosa significhi nella loro visione distruggere l’uomo e la civiltà è facilmente riassumibile: sono contrari a qualunque tipo di unione che non sia tra uomo e donna. La loro è una visione prettamente eterocentrica, fondata sull’idea che l’unione eterosessuale sia l’unica possibile e da tutelare a discapito di qualunque altra forma relazionale. Come qualunque ‘centrismo’ anche questo è basato sul presupposto che la propria posizione sia migliore delle altre. Mossi dall’intento di voler preservare la famiglia ‘naturale’ (sulla ridefinizione dell’aggettivo naturale in una società come la nostra ci sarebbe da scrivere un trattato!), le sentinelle in piedi lottano perché altre persone non godano degli stessi diritti civili dei quali gode una famiglia eterosessuale. Sono sempre più convinto del fatto che, se una mobilitazione è contro i diritti di qualcun’altro, abbia come presupposti delle premesse discutibili.

Il ‘centrismo’ più famoso, in psicologia, è sicuramente l’egocentrismo. Userò le parole di Claudio Foti, psicologo e psicoterapeuta, per descrivere cosa sia l’egocentrismo e tracciare un parallelismo tra i due ‘centrismi’ citati:

l’egocentrismo non coincide con l’affermazione sana del Sé, anzi l’egocentrismo rivela un qualche fallimento nel processo di integrazione e di espansione del Sé. L’atteggiamento egocentrico del soggetto con carenze narcisistiche, che rincorre conferme e puntelli esterni alla propria grandiosità immaginaria, rivela un deficit di autostima, un’incompiutezza profonda della soggettività, una mancanza di autonomia vitale. Le cause profonde del suddetto deficit va ricercata peraltro nella frustrazione traumatica di alcuni bisogni di valorizzazione e di integrazione del Sé che non sono state soddisfatte nell’infanzia.

(…) L’atteggiamento egocentrico del soggetto alla ricerca avida di gratificazioni immediate per sé, insensibile agli interessi delle persone che gli stanno a fianco rinvia ad una debolezza del sé. L’Ego del soggetto egocentrico non è un’ego forte, ricco e vitale, bensì un Ego impoverito dall’incapacità di trarre soddisfazione da quelle dimensioni dell’esistenza che presuppongono il rispetto per l’altro. Questo soggetto non riesce a percepire e ad integrare bisogni fondamentali, che lo spingerebbero a valorizzare la dimensione relazionale e comunicativa dell’essere umano, una dimensione che implica la sensibilità e la capacità di identificazione nei confronti dell’altro. [2]

L’eterocentrismo, così come l’egocentrismo, si accompagna al ritenere come degna di comprensione e accettabile solamente la propria idea di realtà e, nel caso specifico, a non ritenere accettabile l’idea che esistano altre realtà familiari, altre idee di famiglia, altre idee di amore che non sottraggono, ma anzi aggiungono complessità ad una dimensione, la vita relazionale, nello stesso tempo privata e sociale, intima e pubblica. E credo sia chiaro, inoltre, come questa visione ego/eterocentrica non lasci spazio alcuno alla dimensione relazionale, alla sensibilità e alla capacità di identificazione con l’altro. Ammantati da un apparente savoir-faire silente, le sentinelle in piedi portano avanti un messaggio univoco e discriminatorio: la mia realtà è migliore della tua! Come per l’egocentrismo, anche l’eterocentrismo così estremizzato non può non essere indice di debolezza, di intransigenza, di rigidità di visione, un monolite che non lascia spazio a dubbi, alle domande, all’altro. La visione eterocentrica è, in’ultima analisi, profondamente egoistica nella prospettiva monodimensionale che persegue. 

Ogni ampliamento dei diritti non dovrebbe essere vissuto come un pericolo, non dovrebbe mobilitare sentinelle che veglino, non dovrebbe semplicemente costituire motivo di scontro. Se viene vissuto in questo modo, sarebbe interessante chiedersi il perché del senso di minaccia avvertito dall’altro, il motivo di tanta rigidità e di tanta chiusura. Probabilmente aiuterebbe a far luce sulla necessità di tanta intransigenza.

Spero arrivi un momento nel quale le sentinelle, continuando a leggere (magari anche libri che confutino tesi diverse rispetto a quelle nelle quali credono!), possano finalmente mettersi sedute e godersi l’evoluzione della società senza sentirsi minacciate. Se poi da silenti diventassero dialoganti sarà fatto un passo in più per cercare di superare lo scoglio di egocentrismo che preclude la vista di ogni posizione diversa dalla propria.

 

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

[1] www.sentinelleinpiedi.it

[2] Centro Studi Hansel e Gretel (2008), Adultocentrismo: il mondo dominato dagli adulti, Sie Editore, Torino, pp. 8-9

 

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Freud e la finestra rotta

Freud e la finestra rottaCerte insufficienze delle nostre prestazioni psichiche (…) e certe azioni che appaiono non intenzionali, risultano, se si applica loro il metodo dell’indagine psicoanalitica, come ben motivate e determinate da motivi ignoti alla coscienza.

Sigmund Freud

Psicopatologia della vita quotidiana

 

 

Premessa: avete mai sentito parlare della teoria delle finestre rotte? La teoria delle finestre rotte ha un’applicazione in ambito urbanistico e sostiene che in un ambiente urbano dove vi siano delle trascuratezze (una finestra rotta appunto o qualunque altra cosa percepibile come degrado) queste, se non riparate in tempi brevi, finiranno per attirare altro degrado (altre finestre rotte, tag sui muri, vandalizzazioni di altro tipo) e innescherà una spirale degradante per l’edificio o più in generale per il quartiere nel quale tutto questo avviene.

Seconda premessa: nell’opera di Sigmund Freud Psicopatologia della vita quotidiana (1901), l’autore si prodiga, con tantissimi esempi pratici, di cercare di spiegare come molte delle cose che facciamo quotidianamente (lapsus verbali, dimenticanze, atti mancati ecc) non siano frutto del caso o della distrazione ma che in esse interverrebbero forze psichiche inconsce che non ci fanno ‘sbagliare’ per nulla ma che anzi tutti quegli atti siano dotati di un senso molto profondo se solo ci prendessimo la briga di analizzarli.

Queste premesse mi servivano sia perché anche io credo che incuria chiami incuria sia perché ritengo verosimile che dietro alla trascuratezza si nasconda altro. L’intuizione di Freud è applicabile anche al modo in cui viviamo: la trascuratezza dell’ambiente nel quale viviamo può essere un grande segnale di forze psichiche non consapevoli. Se una persona avesse la casa particolarmente trascurata, ad un livello superficiale potremmo semplicemente dire che è disordinato o disorganizzato. Se volessimo andare più in la nell’analisi, una trascuratezza marcata potrebbe essere indice di tante cose ben più complesse:

  • la persona potrebbe avere poca stima di sé, per esempio, ‘non meritare’ (per i motivi più disparati e personali) una casa pulita e/o ordinata ed essere dunque costretto ad espiare questa sua indegnità nel caos;
  • la trascuratezza potrebbe essere un modo per dire quanto ci si considera poco indipendenti, quanto non si reputi possibile prendersi cura di se stessi e del proprio ambiente da soli, potrebbe, in questo senso, essere la richiesta di aiuto che si fa agli altri di intervenire (confermando, però, ancora una volta la propria dipendenza dall’altro);
  • altra ipotesi possibile è che la trascuratezza sia un vero e proprio segno di depressione: la persona pensa di non avere valore, di non contare nulla e che nulla di quello che faccia nella sua vita possa cambiare le cose. Se la mia vita non ha senso a chi importa se la mia casa è curata o no?

Queste osservazioni sulla persona sono secondo me estensibili anche a livello sociale più ampio. Ed eccoci allo scopo di questo post: amando profondamente la regione nella quale abito, la Sardegna, non posso non rimanere stupefatto dall’incuria, dalla negligenza, dalla trascuratezza, dalla sporcizia vista e percepita a molti livelli: strade colme di immondizia, presumibilmente gettata anche da macchine in corsa, spiagge scempiate da mozziconi, lattine, bottiglie, ecc. Ritenendo i miei conterranei parte in causa preponderante di questa incuria (difficilmente un turista abbandona un materasso a bordo strada!) mi sono chiesto quale sia la causa di tutto ciò. Ignoranza? Troppo semplice. Incuria? Non mi spiego come allora ci sia per molti versi una cura maniacale del proprio giardino e un totale disinteresse per le condizioni della strada di fronte allo stesso giardino.

No, ho sempre pensato che dovessero esserci spiegazioni più complesse. Incuria, abbiamo detto, genera incuria: se gli altri, è l’estremizzazione del pensiero, non si curano minimamente della spiaggia e spengono le sigarette lasciandone tra la sabbia i mozziconi, perché io me ne dovrei occupare? Perché dovrei assumermi una responsabilità che altri rifiutano di prendere? L’emulazione è, purtroppo, dietro l’angolo e questo fa si che al degrado se ne aggiunga altro. Anche l’egoismo gioca un ruolo preminente: il mio benessere viene prima di quello di tutti gli altri. Se a me viene comodo lasciare il mozzicone nella sabbia, a chi importa che ad altre persone potrebbe dar fastidio?

Inoltre, in accordo con quanto ipotizzato da Freud, devo ritenere ci sia un motivo più profondo che possa spiegare il modo in cui ci comportiamo. Le possibilità sono diverse e tutte, a mio avviso, plausibili:

  • siamo una regione profondamente depressa che non crede più in se stessa? A chi può interessare la pulizia delle strade se non percepiamo neanche il nostro futuro?
  • Oppure stiamo gridando, come in tante altre occasioni, che non siamo in grado di badare e curare noi stessi sperando che qualcuno ci salvi dalle nostre stesse mani?
  • Ci stiamo dicendo, complici le continue sparate sul fatto che viviamo in un paradiso terrestre, che non meritiamo questo paradiso e che faremo di tutto per essere scacciati indegnamente da esso come novelli Adamo ed Eva?  

Forse il mio è un ragionare di testa perché il mio cuore ha continuato a lagnarsi per tutta l’estate. Sto provando in ogni modo a capire, sto cercando da tempo una spiegazione, vorrei che qualcuno mi aiutasse a comprendere questo: c’è un motivo per cui siamo così trasandati? C’è un motivo per cui accettiamo tutto questo come se fosse inscritto nel nostro DNA?

Io ci sto provando, ma ognuna delle spiegazioni lascia l’amaro in bocca. Se qualcuno riuscisse a farmi capire come può ognuno di noi sopportare il degrado spicciolo che ci circonda gli sarei eternamente grato. Gliene sarebbe grato anche il mio cuore e forse riuscirebbe a farmi passare la prossima estate con meno inquietudine.  

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

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Ci siamo separati a causa di nostro figlio!

Ci siamo separati a causa di nostro figlio!Il post di oggi prende spunto da una aspetto che noto spesso durante le terapie nelle quali sia coinvolta una famiglia con almeno un figlio. Vi ho già descritto il mio modo di lavorare con i bambini o con ragazzi adolescenti: quando il ragazzo (o la ragazza!) è minorenne, invito i genitori per conoscere meglio quella che è la situazione familiare. Capita allora che i genitori, soprattutto ma non solo, quando è presente un figlio adolescente, inizino a raccontare di come divergano le strade educative tra i due. Il papà accusa la madre di essere troppo indulgente e bonaria, la madre si difende dicendo che sa invece come prendere il figlio/a e accusa a sua volta il partner di non saper ‘maneggiare’ i figli e di essere, al contrario, troppo rigido e severo. Mi è capitato che questa ‘lotta educativa’ fosse talmente forte ed esasperante, che in alcuni casi entrambi ritenevano fosse meglio separarsi piuttosto che condividere queste differenze così marcate nello stile educativo dei figli. Queste divergenze insanabili rispetto al modo con cui affrontare l’educazione dei figli non è altro che, a mio avviso, la classica ciliegina sulla torta. E’ quantomeno inverosimile che un figlio, per quanto sia provocatorio, sopratutto durante l’adolescenza, possa portare due persone che condividono una stessa visione del loro ruolo genitoriale a separarsi per causa sua. E’ più probabile che quel figlio si sia infilato tra le crepe nel rapporto tra i suoi genitori e sia riuscito ad allargarle.

A questo proposito vi riporto il brano di un testo particolarmente interessante e piacevole da leggere. Si intitola Questa casa non è un albergo! Adolescenti: istruzioni per l’uso, ed è scritto da Alberto Pellai, medico e psicoterapeuta dell’età evolutiva, nonché conduttore della trasmissione radiofonica ‘Questa casa non è un albergo’ in onda su Radio24 e che ha raccolto in questo testo parte delle esperienze e delle comunicazioni che quotidianamente arrivano in trasmissione:

L’ingresso in adolescenza pone un figlio di fronte ad un dato di fatto: il suo bisogno di lealtà, la sua idealità, la sua voglia di riparare ciò che la vita gli ha fatto trovare ‘rotto’, spesso lo spingono a smascherare le ipocrisie del mondo degli adulti. Sono numerosi i figli che provocano e istigano i propri genitori a entrare in crisi in modo manifesto, quasi approfittando della propria adolescenza. Tantissime mamme papà approdano in consulenza psicologica dichiarando di essere sulle soglie della separazione per colpa dei differenti punti di vista sull’educazione di un figlio.

Anche nell’esperienza della trasmissione radiofonica, molti genitori attaccano dicendo ‘con mio figlio è un vero disastro’ ma, interpellati sull’intesa di coppia di fronte alle crisi del figlio, concludono la conversazione affermando ‘con il mio/a compagno/a di vita è un vero disastro’. 

Allora torniamo all’inizio: nessun figlio può essere la causa di separazione dei propri genitori. La coppia coniugale non si sfascia di fronte alle fatiche educative imposta dalla crisi di crescita di un figlio. Solitamente i compiti educativi per un figlio diventano distruttivi per una coppia perché si innestano su un terreno d’intesa molto fragile a causa della scarsa intesa che già preesiste tra uomo e donna.[1] 

Sono d’accordo con quanto sostiene l’autore. Credo sia improbabile che un figlio, qualunque sia l’età, possa essere causa della rottura del rapporto tra i genitori. Può sicuramente essere un fattore enorme di stress per il rapporto stesso, ma ribadisco il fatto che se esiste una condivisione rispetto al ruolo educativo che i due genitori sentono di svolgere è inverosimile che un figlio ne causi la rottura, per quanta forza possa mettere nell’attaccare il legame.

Spesso i figli sembrano introdursi con la forza nei ‘punti deboli’ della coppia genitoriale: questo processo è teso più a verificare la robustezza e la veridicità del legame delle persone che lo circondano, e quanto queste, soprattutto i suoi stessi genitori, possano reggere e reggerlo. Ma questo ‘attacco’ non è rivolto allo sfaldamento del legame coniugale, quanto piuttosto a testarne la valenza. Non si può, dunque, attribuire a questo movimento, dettato tra l’altro dalla fase di vita che ragazzi adolescenti si trovano a vivere, la causa di un possibile allontanamento tra i membri della coppia genitoriale. Se si imputa al rapporto genitori-figli la causa dell’allontanamento tra i membri della coppia sono certamente possibili due aspetti: il primo è quello di trovare un facile capro espiatorio circa le difficoltà della propria relazione, il secondo aspetto rilevante è di non riuscire a vedere qual è stato il nostro ruolo nella accadere degli eventi. So che è una posizione decisamente più difficile, ma credo più utile per cercare di comprendere quello succede. 

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

[1] Pellai, A. (2012), Questa casa non è un albergo!, Feltrinelli, Roma, pag. 92

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La morte ai tempi di Facebook

La morte ai tempi di FacebookUna nuova morte ‘famosa’ scuote il mondo reale e, di conseguenza, il mondo virtuale. L’ultimo episodio riguarda il famosissimo attore Robin Williams scomparso lo scorso 11 Agosto. Dal giorno in questione, come in moltissime altre occasioni del genere, sui social network abbiamo assistito al florilegio dei più vari stati: citazioni famose dai film interpretati dall’attore, immagini degli stessi film, immagini dei film con le frasi più rappresentative, appassionati stati dove si viene messi al corrente di quale film è stato più importante per la persona che lo posta.

Lungi da me l’idea di pensare che esista un modo giusto o sbagliato per celebrare la scomparsa di qualcuno, noto, però, un punto che mi colpisce: questa condivisione continua, questa sorta di incapacità a fermarsi un attimo e cercare di capire cosa veramente la scomparsa di una persona che giudichiamo tanto importante ha provocato in noi, testimonia ancora una volta di più sia la nostra incertezza a maneggiare un tabù come la morte, sia la nostra profonda difficoltà nel riuscire a contenere le nostre stesse emozioni. Non c’è quasi interruzione tra ciò che avviene e il modo in cui viene condiviso, nessun momento nel quale la persona possa pensare a cosa ciò che sta accadendo sta provocando in lui.  Se ci fermassimo a pensare, credo che avremmo modo di sentire davvero quello che ci sta passando per la mente (e per il cuore!).

Questa continua rincorsa ad essere più veloci degli altri a commentare, più rapidi nel condividere status, più originali degli altri nello scrivere cose sulla nostra bacheca, mi porta a ritenere che più che contattare l’emozione per quello che sta avvenendo, stiamo cercando di allontanarla, di condividerla, di ‘scaricarla’, delegando alla spartizione con gli altri il peso stesso della nostra emozione.

Questo è comprensibile: una morte, per quanto possiamo pensare sia quella di una persona ‘lontana’ e non conosciuta, è invece molto dolorosa quando abbiamo la sensazione che quella persona ci abbia accompagnato in tanti rilevanti momenti della nostra vita, partecipandovi ed entrandovi a far parte a tutti gli effetti. Una persona che, come in questo caso, può averci fatto ridere, fatto piangere, fatto riflettere, fatto star male, una persona che, a sua insaputa (o forse per niente a sua insaputa!) ha partecipato alla vita di milioni di persone. Il dolore, per quanto appunto non sia una persona presente (dovremmo veramente iniziare a ridefinire i termini che utilizziamo quotidianamente!) è sentito, il dispiacere per la perdita della persona è forte perché percepito come perdita di qualcosa anche nostro.

Tutto questo, anziché farci fermare un attimo, attiva spesso, di contro, una reazione opposta: buttare fuori, scacciare, allontanare. Questo accade anche alla morte di persone conosciute personalmente, quando il funerale stesso diventa occasione per mettere assieme i dolori, per far sì che ognuno possa partecipare e condividere il dolore con gli altri.

Nell’era dei social network questa tendenza molto comune, la condivisione del dolore, è cambiata in maniera paradossale: è diventata una rincorsa, come dicevo prima, a mostrare agli altri quanto l’evento ci abbia colpito ma, il momento stesso in cui lo mostriamo è il momento in cui abbiamo più difficoltà ad entrare in contatto con ciò che sentiamo: ‘l’esposizione’ è l’istante di maggiore distanza dall’emozione provata. Non ci lasciamo che poco spazio per riflettere, per sentire cosa sia stato a provocare quel dolore. Nulla di tutto questo appunto, tutto è pubblico, tutto già dato in pasto a Facebook, tutto già espulso nel fiume di milioni di altri post che segnalano la ormai universale incapacità a fermarci a vivere privatamente un momento di dolore.

Questo è il punto da cui ripartire secondo me: il nostro dolore. Prima di mostrarlo in un post su Facebook, proviamo a fare quello che ci costa di più: condividerlo con noi stessi. Proviamo a stare su quello che proviamo, a cercare di capire il senso di quel dispiacere per la morte dell’attore famoso.

Credo sia uno dei pochi modi attraverso il quale un’esperienza dolorosa può trasformarsi in qualcosa di diverso e insegnarci aspetti nuovi di noi stessi. Altrimenti il rischio è che sembri solo l’ennesima occasione per mostrare agli altri ciò che in realtà abbiamo difficoltà a sentire.

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

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Sudoku e cruciverba aprono la mente?

Sudoku e cruciverba aprono la menteQuesto è il periodo dell’anno nel quale abbiamo la possibilità di usarle più spesso: mi riferisco alle riviste di cruciverba, rebus, sudoku, ecc che spuntano (e vendono) soprattutto d’estate. Molti le considerano degli innocui passatempi ma forse dovremmo iniziare a considerarle non più un semplice giochino ma un vero e proprio modo per nutrire la mente.

Secondo la ricerca svolta dalla Washington University di San Louis pubblicato su Psychology and Aging giocare o sottoporre il proprio cervello a compiti di problem solving potrebbe portare a riuscire a superare la chiusura mentale spesso associata all’età, preservando l’efficienza intellettiva e disponendo verso nuove esperienze, a tutto vantaggio della salute generale e dell’aspettativa di vita. Lo studio è stato condotto su un gruppo di 183 partecipanti, età media 77 anni, e cercava di testare come potesse influire sullo sviluppo intellettuale svolgere alcune di queste attività mentali. Il risultato è stato abbastanza sorprendente e per certi versi confortante: le persone anziane che si erano ‘sottoposte’ alle 15 ore settimanali richieste per l’esperimento, alla fine dell’esperimento stesso rispetto al gruppo di controllo, sono risultati mentalmente più aperti a nuove modalità di ragionamento, dimostrando per la prima volta che un trattamento non farmacologico può mutare i tratti di personalità di un anziano, da sempre ritenuti congelati e immutabili.

risultati sono stati sorprendenti perché si sono ottenuti dei miglioramenti nelle cosiddette malattie senili senza il bisogno di ricorrere a farmaci. Nell’articolo si cita una di queste malattie tipicamente senili, la pseudodemenza depressiva, che porta le persone di una certa età, in assenza di danni fisiologici  o cerebrali, ad iniziare a ragionare con una eccessiva lentezza, o con un’apatia di fondo che può portare anche all’allentamento o all’evitamento delle relazioni. Tenere in allenamento il proprio cervello può avere effetti positivi per l’intero tono dell’umore e può far evitare l’insorgenza di manifestazioni così problematiche. Considerando, poi, che il risultato è stato ottenuto senza l’ausilio di farmaci, la cura sembra ancora più positiva. Le persone che si erano sottoposte all’esperimento soffrivano meno di insorgenze di questo tipo anche se non è chiaro, bisognerebbe fare uno studio a parte, se questo sia dovuto al fatto che i soggetti hanno solo allenato il cervello oppure perché dovevano interagire con gli altri partecipanti nelle lezioni di training che erano tenuti a frequentare. Probabilmente, ed io propendo per una spiegazione multifattoriale, entrambi i fattori hanno concorso al raggiungimento di questo risultato. 

Quello che mi sembra interessante sottolineare di questo studio, ed è un aspetto ormai confermato da parecchi altri studi di questo tipo, è come tenere la mente allenata e attiva possa in qualche modo allontanare una serie di problemi o di patologie che invece caratterizzano menti più ‘sedentarie’. Come l’allenamento di un muscolo porta al suo sviluppo, allo stesso modo accade con l’allenamento del nostro cervello.  Questo fatto è dimostrato empiricamente da altri studi come quello svolto dalla California University di Berkeley che ha dimostrato, tramite l’uso della PET (tomografia a emissione di positroni) comenel cervello di chi ha sempre svolto attività cognitive stimolanti come leggere o anche solo fare parole crociate ci sono meno placche di amiloide, la sostanza che rappresentano le stimmate della malattia di Alzheimer. Insomma, non ci rimane altro da fare che allenarlo il più possibile cercando di essere attivi e curiosi nei confronti della realtà che ci circonda. Se poi volete aggiungere sudoku o cruciverba, fate voi!

Cliccate qui per il link all’articolo.

L’articolo è del Corriere della Sera firmato da Cesare Peccarisi.

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu 

P.s.: quello della foto è un vero schema di Sudoku. Se voleste cimentarvi a risolverlo ed iniziare ad allenarvi…

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Facebook e il pregiudizio di conferma (2)

Facebook e il pregiudizio di conferma (2)Ora, senza entrare nel merito della questione in sé, se io penso che il sale faccia male, tenderò a dar credito a tutte quelle posizioni che confermano la mia posizione di partenza piuttosto che a falsificare la mia posizione di partenza. Cercherò siti, pagine, blog che mi rimandino indietro l’esattezza della mia posizione, cioè che il sale faccia male. Non penserò minimamente di dover tentare di falsificare questa idea con ipotesi contrarie o idee opposte. Alimenterò il mio pensiero cercando negli altri conferme di quello che già penso rispetto agli effetti del sale. Ora dato che uno dei massimi pregi della rete è quello di avere livellato molto il ‘peso relativo’ dei contributi di ciascuno di noi, dal momento che permette a chiunque di postare o condividere stati che non sono testati o vagliati, questo provoca una frammentazione delle posizioni che permette quasi a chiunque di trovare, per quanto particolare possa essere, la condivisione di una posizione rispetto a qualcosa. Se io penso che, per assurdo, respirare faccia male, sono quasi sicuro di trovare qualcuno con cui condividere questa posizione.

Il fatto che possa trovare qualcuno che la pensa come me, e che magari condivide documenti di un qualche tipo che sostengono che respirare faccia male, non farà altro che, paradossalmente, dare ossigeno alla mia teoria e polarizzarla ulteriormente verso la convinzione che sia vera. Se volessi essere ‘scientifico’, dovrei falsificare la mia posizione, cercando prove che, al contrario, dimostrino come respirare sia vitale. Ma questo porta a selezionare, nel mare magnum delle informazioni di tutti i generi che circolano su internet senza alcun vaglio, quelle posizioni che tendono a confermare le nostre posizioni di partenza piuttosto che a smentirle. Abbiamo visto che il nostro modo di ragionare ci porta ad aver bisogno di conferme piuttosto che di smentite, di ragione piuttosto che di torto. Ed è per questo che, spesso con assoluta buona fede, finiamo per alimentare un circolo vizioso enorme di notizie, quanto meno da verificare, che non ci raccontano la realtà dei fatti, ma ci spingono a schierarci per una squadra piuttosto che per un’altra. E qua torno ad un tema a me caro: la polarizzazione delle posizioni nelle discussioni su internet.

Ho affrontato il tema in un altro post, Perché siamo così aggressivi su internet, pubblicato l’11 settembre 2012. In quel post sostenevo come la mancata mediazione dello strumento informatico, il fatto cioè di non interagire faccia a faccia con una persona ‘reale’, portasse ad essere più estremi nei commenti o nelle risposte. Alla base credo ci sia questa tendenza a polarizzarsi in classi confermanti piuttosto che falsificanti. Sono amante del calcio? Al diavolo tutto quello che non mi parla di calcio. Sono amante degli animali? Al diavolo qualsiasi cosa non mi confermi la giustezza del mio amore. Sono amante della carne? Al diavolo qualsiasi posizione mi faccia pensare se mangiarla o meno. E le posizioni tendono ad estremizzarsi, scollandosi da qualunque possibilità di conciliazione. Se ci pensate, è in parte quello che spesso succede anche all’interno dei partiti politici. Anche in questo caso si assiste ad una estremizzazione delle posizioni, non di rado proprio su internet o sui social network, che difficilmente poi può portare ad una ricomposizione delle differenze per privilegiare le somiglianze che si hanno.

C’è la possibilità di fermare, o perlomeno rallentare questa polarizzazione? Credo che una delle soluzioni sia la consapevolezza di quello che succede. Essere consci del fatto che abbiamo sempre più bisogno di sentirci squadra, piuttosto che persone, la dice lunga sul percorso da fare. L’altra possibile soluzione è quello di approcciare anche e soprattutto alle nostre convinzioni con uno spirito critico. E’ preferibile discutere che confermare, per quanto difficile sembri all’inizio. Solo la consapevolezza del modo nel quale costruiamo, talvolta inconsapevolmente, le nostre convinzioni, può permetterci di scardinare questa tendenza alla conferma. Non è una cambio di prospettiva facile ma la falsificazione della quale parlavamo è la strada obbligata per uscire dall’autoreferenzialità nella quale sembriamo avere sempre più bisogno di chiuderci. 

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

Per chi fosse interessato al tema:

Bressanini, P. (2010), Pane e bugie, Edizioni Chiarelettere, Milano

Wikipedia: Bias di conferma

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Facebook e il pregiudizio di conferma (1)

Facebook e il pregiudizio di conferma (1)Il post di oggi è dedicato ad un aspetto che colpisce sempre la mia attenzione e che penso accada soprattutto su internet. Mi sto riferendo alla polarizzazione delle posizioni espresse, il fatto cioè che diventiamo molto più rigidi su internet, e sui social network in particolare, rispetto ad una posizione che condividiamo. L’idea che sta alla base di questo ragionamento mi è venuta leggendo un libro che non si occupa di psicologia ma di cibo. Trovate i riferimenti bibliografici in fondo all’articolo.

Il nostro post comincia con un gioco, per comodità ho messo nella foto le carte che verranno utilizzate nell’esempio. L’unica differenza con il libro è che nel testo in questione, essendo in bianco e nero, si parla di carte chiare o carte scure, mentre io, avendo a disposizione i colori, parlo di carte blu o rosse:

Tengo nascoste in mano quattro comuni carte da gioco. Il dorso può essere chiaro o scuro e l’altro lato riporta una figura o un numero. (…) Ora dispongo le quattro carte davanti a voi, due coperte e due scoperte e faccio la seguente affermazione: Se una di queste quattro carte ha il dorso scuro (blu), allora è una figura. Voi non sapete se la mia affermazione è vera o falsa. Di due carte non conoscete il colore del dorso, mentre delle altre due non conoscete il valore. Il vostro compito è verificare la mia affermazione voltando le carte strettamente necessarie (e solo quelle). Potete voltare sia una carta di cui vedete il dorso per scoprire che valore ha, sia una carta di cui vedete il valore e volete conoscere il dorso. (…) Questo test è stato inventato nel 1966 dallo psicologo cognitivo Peter Wason. (…) Wason lo ha sottoposto a un gruppo di 128 adulti con un’istruzione universitaria. Il 46% delle persone ha risposto che avrebbe girato la carta con il dorso scuro (blu) e la donna di cuori. La seconda risposta più frequente è stata data dal 33%  delle persone intervistate. Queste ritenevano sufficiente voltare solo la carta con il dorso scuro (blu).Solamente il 5% degli intervistati ha dato la risposta corretta. (…) La risposta esatta è che insieme alla carta a dorso scuro, si deve girare il sette: affinché la mia affermazione sia vera, sul retro del sette  devo trovare un dorso chiaro (rosso). Se voltandola trovo un dorso scuro (blu) ho falsificato la mia teoria. (…)

Gli psicologi hanno inventato molte varianti a questo test, e hanno scoperto che mantenendo la stessa struttura logica ma cambiando la descrizione e il contesto si possono ottenere risposte diverse. La cosa interessante è chiedersi come mai così tante persone diano la risposta sbagliata. Secondo alcuni psicologi il motivo è da ricercarsi nel cosiddetto confirmation bias (la preferenza verso la conferma): il nostro cervello si fa un’idea di come funziona un certo fenomeno, e poi cerca degli esempi che avvalorino quell’interpretazione. Cerchiamo una “conferma”. dal punto di vista logico invece è fondamentale anche cercare di falsificare un’ipotesi: provare a vedere se è falsa. A quanto pare il cervello umano ha molte difficoltà ad accogliere questo punto di vista come “naturale”, ed è anche per questo, credo, che il modo di procedere della scienza e del metodo scientifico risulta di difficile comprensione ai più. (…) [1]

Forse a questo punto, vi starete chiedendo il perché vi ho riportato tutto questo e cosa c’entra tutto questo con Facebook. Il punto nodale di questo semplice esperimento, e di molti altri effettuati con lo stesso tema, è che noi tendiamo a dare ascolto alle cose che confermano piuttosto che a quelle che falsificano le nostre posizioni.

– Continua –

[1]Bressanini, P. (2010), Pane e bugie, Edizioni Chiarelettere, Milano, pp. 55-56

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La macchina della verità funziona?

La macchina della verità funzionaIl post di oggi, basato su un articolo del Corriere della Sera (in fondo al post potete trovare il link diretto all’articolo), si occupa di un argomento particolare, il poligrafo, comunemente conosciuto col nome di macchina della verità. Chi non conosce questo strumento? Compare in moltissimi film, e ha lo scopo, sia nella finzione che nella realtà, di stabilire quando una persona stia mentendo. In realtà la scienza ha sempre avuto molto bene in mente i limiti di una simile rilevazione della verità. La macchina infatti basa i suoi meccanismi su quelli che sono i correlati fisici (le espressioni corporee) che vengono associate alla bugia. Misura per esempio il battito cardiaco, la pressione sanguigna, la conduzione dell’elettricità sulla pelle oppure la sudorazione del soggetto. Questo si basa appunto sulla premessa che una persona che sta dicendo una bugia abbia un battito cardiaco accelerato o una maggiore conduttività cutanea rispetto a chi non sta mentendo.

In molti paesi del mondo, ed in particolar modo negli Stati Uniti, la macchina della verità è utilizzata come prova molto importante durante i processi. Molti professionisti si sono espressi circa la possibilità che fosse uno strumento fallace e abbastanza facile da ingannare. Solo adesso, grazie allo svolgimento di veri e propri test circa la sua predittività, si è arrivati a ritenerlo uno strumento quantomeno difficile da considerare attendibile. L’utilizzo di strumenti di precisione come il neuroimaging ci da infatti la possibilità di verificare quali aree del cervello siano coinvolte nel momento in cui la persona agisce. Brevemente il neuroimaging permette di verificare quali aree del cervello stiano lavorando maggiormente in un dato momento (misurando, per esempio, l’afflusso di ossigeno in quell’area oppure misurando il livello di consumo di glucosio per produrre energia). La prima scansione è ottenuta con l’utilizzo della tomografia a risonanza magnetica la seconda con l’utilizzo della TEP, tomografia ad emissione di positroni. Grazie all’utilizzo di questi strumenti è possibile vedere in vivo come stia funzionando il cervello stesso. Questi sono gli strumenti utilizzati che hanno portato a mettere in discussione l’attendibilità e l’efficacia del poligrafo. Lo studio è stato abbastanza semplice: 

(…) promosso dalle Università di Cambridge, Kent e Magdeburg dimostra infatti che talvolta il reo mette in atto, volontariamente, temporanei meccanismi di soppressione della memoria in grado di mandare in tilt qualsiasi tecnica, proprio perché le zone cerebrali chiamate in causa realmente si comportano come se non esistesse colpevolezza, anche quando non è così. I volontari osservati sono stati indirizzati a compiere finti crimini e a cercare di sopprimere successivamente il ricordo ed è risultato che alla vista di un dettaglio riconducibile all’episodio criminoso alcuni tra loro erano in grado di pilotare le reazioni del proprio cervello, impedendo all’area cerebrale che ricordava l’evento di «accendersi».

E’ stato possibile quindi verificare per la prima volta come alcuni soggetti siano in grado di ‘pilotare’ consapevolmente i propri ricordi ed impedire che l’area in cui hanno sede i ricordi (che ha dunque un maggiore afflusso di sangue o di glucosio nel momento del funzionamento) fosse rilevabile. D’altronde questa era una delle criticità maggiori del poligrafo fin dal suo esordio dal momento che se il soggetto non riteneva di aver compiuto un crimine, oppure non ricordava di averlo fatto, avrebbe potuto non attivava tutti quei correlati fisiologici che stanno alla base delle misurazioni del poligrafo stesso. Questa capacità di ‘spegnere’ alcune aree cerebrali può portare anche a mettere in discussione l’attendibilità del neuroimaging nella ricerca della verità. Se una persona può arrivare a modificare l’attività di alcune aree cerebrali, questa infatti non verrebbe rilevata neanche dalla tomografia o dalla TEP. Insomma, come tutti gli strumenti può essere fallace. Come riportato nell’articolo, la dottoressa Zara Bergström (…) specifica che gli strumenti di neuroimaging hanno un’assoluta attendibilità, ma il problema è a monte, ovvero nel comportamento cerebrale del sospettato e nella complessa psicologia umana, in grado di controllare la capacità mnemonica e accantonare i ricordi scomodi e non desiderati. Esistono paesi, come gli Stati Uniti, l’India e il Giappone, dove la scansione dell’attività cerebrale viene considerata valida come prova nei tribunali, con la pretesa di individuare con accurata precisione un’eventuale colpevolezza. Ma la sua fallibilità sta nel fatto che l’essere umano può realmente e intenzionalmente inibire un ricordo, comportandosi a tutti gli effetti come se la memoria del crimine venisse rimossa.

In altre parole bisognerebbe far si, dato il ridotto margine di conoscenza che ancora abbiamo su alcuni meccanismi neurologici, che prove di questo genere, data la non totale affidabilità, fossero ricomprese all’interno di un quadro di prove più ampio. Basare la colpevolezza o l’innocenza solo su questi strumenti potrebbe essere fonte di tragici errori processuali.

Intanto qui il link per l’articolo:

L’articolo, come detto, è del Corriere della Sera ed è firmato da Emanuela Di Pasqua. All’interno dell’articolo sono presenti i link che rimandano allo studio citato.

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

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