La morte differente: Oriente e Occidente

cimitero giapponeseRecentemente sono stato in Giappone. Per un occidentale il primo impatto è spiazzante ed è come trovarsi in un altro mondo, un posto completamente diverso sotto molti punti di vista e alcuni luoghi, come Tokyo, sembrano nel futuro. La curiosità, parte del bagaglio essenziale di ogni mio viaggio (e della mia vita in realtà!), è stata molto solleticata nel confronto con una cultura tanto diversa

Uno degli aspetti che più mi colpiva, è che vedevo continuamente in ogni piccolo paesino che attraversavo nei lunghi spostamenti in treno, è la differenza esistente con noi nel rapporto che hanno con la morte. Piccola premessa: in Giappone la consuetudine è quella di cremare i morti. I cimiteri sono generalmente molto piccoli e ‘spartani’ rispetto ai nostri. Detto questo, e tenuto conto delle imposizioni che in molti paesi europei si ebbero per motivi igienico sanitari dopo le riforme ottocentesche napoleoniche (il cosiddetto editto di Saint Cloud), salta all’occhio come la cultura occidentale e quella giapponese differiscano nel rapporto con la morte: semplicemente noi tendiamo ad isolarla e nasconderla. In Europa il suo massimo simbolo, il cimitero, è spesso fisicamente separato dal resto della città. L’unica eccezione la abbiamo nei cimiteri storici, ma il fatto che siano in piena città è dovuto alla crescita delle città che, col tempo, li hanno inglobati. A parte questi casi, da noi il cimitero è un’entità estranea alla città. Nella nostra cultura la morte è temuta, è spaventosa ed è tenuta lontano a livello psicologico e fisico. Tendiamo a non parlare di morte, tendiamo a cercare di rinviare il più possibile l’idea che sia un aspetto della vita che possa coinvolgerci. E, come dicevo, lo stesso luogo che rappresenta la morte ha queste caratteristiche: i cimiteri sono spesso circondati da mura molto alte, che lo separano anche visivamente dalla vita quotidiana. Per riuscire a vederlo dentro non rimane altro che entrarci e questo spetta solo alle persone toccate recentemente da un lutto. Tutti gli altri possono continuare a far finta di non sapere/vedere/sentire cosa ci sia dentro quelle mura.  

In Giappone, invece, i cimiteri si trovano all’interno delle aree urbane. Non sono circondati da mura, spesso non c’è neanche una rete che li divida dalle abitazioni intorno. Già, hanno abitazioni affianco. Per noi è inconcepibile abitare vicino ad un cimitero a meno che, appunto, il cimitero non sia storico e si trovi all’interno della città. In Giappone è invece la norma, e molte case sorgono in prossimità dei cimiteri. Questa differenza è il segno tangibile del diverso atteggiamento nei confronti della morte. Nel mondo giapponese la morte è semplicemente una esperienza che fa parte della vita stessa. La morte è entrata, inevitabilmente se si pensa alle tragedie spesso di dimensioni immani che costellano la storia del paese, penso per esempio allo tsunami del 2011, nella vita quotidiana del cittadino giapponese. Ed anziché relegare e nascondere questa esperienza la includono nella loro realtà.

Poter fare queste riflessioni ha avuto una valenza profondamente educativa nel farmi comprendere che alla morte, per quanto spesso esperienza dolorosa, ci si possa avvicinare in maniera differente. La morte fa parte della vita, la definisce e la ricomprende, la delimita dandole, in ultima analisi, senso. Probabilmente se non morissimo, desiderio insito in ognuno di noi, la nostra stessa vita avrebbe un significato completamente diverso rispetto quello che ha ora. Noi occidentali, spesso impegnati nella rincorsa di un’eterna giovinezza che altro non è se non l’idea di poter vivere per sempre, non potendo sconfiggere la morte né, spesso, affrontarla come idea, abbiamo semplicemente deciso di farla ‘sparire’. Vince una sorta di rimozione collettiva, rimane un’idea con la quale abbiamo difficoltà a relazionarci. Nel momento in cui questa esperienza entra nella nostra vita, ci scopre impreparati, incapaci di dare forma e parola alle emozioni che stiamo vivendo e incapaci di comunicare questa difficoltà a noi stessi e a coloro che ci stanno accanto.

La consapevolezza di questa censura, di questa rimozione può costituire il punto di partenza per una riflessione che ci faccia comprendere quanto sia necessario fare un lavoro di inclusione con una realtà, la morte, che altre culture sono state in grado di comprendere ed includere nella loro esperienza di vita.

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

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Conosci te stesso (per conoscere gli altri!)

guardare se stessiC’è in realtà un solo modo per ‘capire’ il mondo complesso di impulsi e simboli; si deve guardare in se stessi. Solo quando sappiamo veramente identificare un certo impulso basilare in noi stessi siamo sicuri che esiste. Solo quel punto diventa reale; fino ad allora era soltanto un buon concetto o teoria, di ben poca utilità. Credo che la formula funzioni anche all’inverso: se non riusciamo a trovarlo in noi stessi, esso non esiste a fini pratici. Se non siamo mai stati in grado di identificare e affrontare i nostri impulsi omicidi, non saremo realmente capaci di credere che esistono, comunque non nelle persone ‘normali’. Quindi, per definizione, chiunque ammetta di avere impulsi del genere sarebbe anormale secondo le tue norme interiori nascoste.

Io credo nell’esatto opposto; credo che parte della condizione umana sia l’avere una ricca e spumeggiante vita interiore di impulsi. Tutti abbiamo pulsioni omicide, tutti lottiamo con impulsi suicidi, tutti abbiamo fantasie incestuose, tutti siamo terrificati dal concetto di morte. Non riuscire ad affrontare questi semplici fatti della vita significa tagliar fuori buona parte della nostra umanità.

La consapevolezza del nostro mondo di pulsioni è in effetti il requisito essenziale alla nostra capacità di vedere, e ancora di più di capire, il mondo simbolico degli altri. Nella misura in cui possiamo affrontare le molteplici manifestazioni simboliche dei nostri stessi impulsi saremo liberi di utilizzare questa capacità nei rapporti con gli altri. [1]

La citazione è di uno degli autori più interessanti che ho avuto modo di leggere in questi anni. Carl Whitaker, psicoterapeuta statunitense, pioniere della terapia familiare, sostiene quella che per me, dopo tanto lavoro personale, è diventata una realtà effettiva: solo partendo da noi stessi possiamo arrivare a comprendere gli altri. Il modo unico per arrivare alla realtà simbolica degli altri è quello di partire dalla propria. Solo quando posso fare i conti con la verità dei miei impulsi, solo quando riesco a comprendere e ad accogliere la verità della mia paura della morte, solo quando posso vedere ed accogliere quelle che sono le mie realtà personali più reconditi e spaventose, posso pensare di conoscere, comprendere e accogliere queste verità nell’altro.

Non riconoscerlo in sè stessi significa tagliare fuori la possibilità di contatto e di comprensione dell’altro. Un lavoro di integrazione non parte dall’accoglienza dell’altro, parte dall’accoglienza di noi stessi, delle nostre verità, anche quelle più scabrose e che ci spaventano di più. Il punto di vista sostenuto da Whitaker è sostanzialmente focalizzato sulla realtà della terapia, ma credo sia estendibile alla considerazione di qualsiasi rapporto umano. Se manca il contatto e l’accoglienza di queste emozioni, di questi pensieri in noi, difficilmente potremmo contattare le stesse emozioni e gli stessi pensieri nell’altro.

Arriva da me Angela, una ragazza di 16 anni che ha una fortissima paura del rifiuto degli altri e di essere scartata nel rapporto con i suoi coetanei. Ragazza modello fino all’età di 12 anni inizia con l’adolescenza, come in tante altre storie, a fare cose apparentemente inconciliabili con il suo essere brava ragazza: utilizza droghe di vario tipo, frequenta compagnie poco raccomandabili e questo è il motivo della richiesta di terapia. Qual è il primo passo da compiere per comprendere le ragioni di Angela? Credo che il punto sia partire da se stessi, contattare la propria parte interna nella quale ha dominato la paura dell’esclusione, la paura di non essere accettato, la paura di discostarsi dalle attese degli adulti che mi hanno circondato quando ero adolescente. Non avendo questo passaggio, come avrei potuto capire comprendere ed accogliere quella che è la paura di Angela?

In caso contrario, il pericolo è precipitare nel giudizio aprioristico, arrivare cioè a giudicare quelle che sono le scelte e le difese (ma ovviamente giudicare anche le proprie difese e le proprie resistenze) che l’altro tenta di mettere in campo per affrontare la vita. Una maggiore conoscenza di sé stessi non può che aiutare una facilitazione di contatto con gli altri. 

Questo discorso è focalizzato sulle modalità di incontro in terapia, ma sono convinto possa essere applicato all’accoglienza di qualsiasi rapporto umano. Il giudizio sull’altro può essere sconfitto proprio con un maggiore contatto di se stessi, con una maggiore vicinanza e ascolto di noi stessi e delle nostre emozioni più profonde e spaventose. Questo è il contatto che permette il contatto con le stesse emozioni dell’altro, assottigliando così il peso che il giudizio può avere sull’ascolto e l’accoglienza.

Come sempre chi volesse/potesse condividere la sua esperienza può farlo contattandomi per mail (fabrizioboninu@gmail.com) oppure per telefono (3920008369). 

 

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

[1] Whitaker, C. (1989), Danzando con la famiglia, Astrolabio, Roma, pag. 63

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Come aiutare i bambini ad amare la lettura? (2)

bambini e libri6) Non trasformatela in una gara a chi legge di più: rinforzate positivamente i risultati ottenuti, non rimarcate che, a fronte del libro portato a termine, ce ne siano altri dieci che aspettano da anni di essere aperti. Ancora, se avete un figlio che legge molto e un figlio che considera i libri alla stregua di polverosi soprammobili, non cercate di spronare il secondo creando inutili gare e continui paragoni tra loro: questo tipo di strategie, anziché avvicinare, allontanano ancora di più dalla lettura. Abbiamo già visto che leggere non dovrebbe essere un compito: ancor meno dovrebbe diventare una gara;

7) Considerate le alternative dei mezzi attuali: siamo d’accordo: un libro in carta ha, ancora di più nell’età del digitale, un fascino immenso. Questo fascino non fa degli altri mezzi (ebook, audiolibri) dei ripieghi di secondo ordine. Il punto è che diano una chance alla lettura, che si incuriosiscano delle storie raccontate. Se dovessero sceglier di farlo ricorrendo all’uso di mezzi che quando eravamo piccoli neanche immaginavamo, non consideratelo un ripiego e non cercate di sminuirlo. Il mezzo non fa il lettore. Lasciate che siano poi loro, entrati nel mondo della lettura, ad incuriosirsi a tutti gli altri mezzi coi quali una storia può essere narrata; 

8) I fumetti: se siete riusciti a non condannare i vari reader digitali o gli audiolibri, cercate di applicare la stessa comprensione anche al mondo dei fumetti. Leggerli non è peccato, non traviano la mente di nessuno, semplicemente associano l’immagine alla narrazione della storia raccontata. Non si comprende perché, invece, siano spesso combattuti, o classificati come un sottogenere di ripiego, come se non fossero in realtà una vera lettura. Se leggerli riesce ad interessare i loro giovani (ma non solo!) lettori, non dovrebbero essere snobbati o condannati, ma incoraggiati. Spesso i piccoli lettori di fumetti crescono mantenendo vivo l’amore per la lettura;

9) Fate che la lettura sia un momento divertente: come accennato leggere dovrebbe essere percepito come un’attività piacevole, non l’ennesima incombenza da svolgere. Se il massimo del dialogo in casa è: ‘ma perché non molli la playstation e ti prendi un libro?’, molto difficilmente il bambino penserà alla lettura come una cosa positiva, anzi l’assocerà ad una sorta di punizione. Cercate di connetterla invece a qualcosa di positivo, di bello, di condiviso. Provate a farlo assieme, chiedete loro da cosa siano incuriositi, dimostratevi interessati, come vorreste che loro fossero per la stessa lettura. Costruite un momento di condivisione piacevole e cercate di condividere anche altri interessi. Tornando alla playstation precedente, non create l’equazione videogiochi=male:libri=bene. Queste polarizzazioni non funzionano e non rendono giustizia ai diversi interessi che un bimbo o un ragazzo riescono a coltivare;

10) Leggere non è tutto: lo dico da persona amante della lettura, ma leggere non è tutto. La nostra realtà quotidiana è profondamente cambiata e i bambini come i ragazzi, sono esposti ad una serie continua di stimoli che rende la concentrazione nella lettura ancora più complessa, creando ancora più distinzione tra una realtà, spesso virtuale, percepita come viva e mutevole, e il mondo dei libri spesso percepito come noioso e statico. Questa differenza rende se possibile ancora più problematico l’approccio con la lettura e allontana i piccoli lettori da un mondo che spesso rifiutano senza neanche dargli una possibilità. Sta agli adulti che lo circondano cercare di superare questa separazione e rendere viva e coinvolgente, alla pari di altri stimoli, anche l’esperienza legata alla lettura.

Anche in questo caso, come in altri post, quelle che avete letto non vogliono essere regole quanto suggerimenti che spero aiutino a relazionarsi meglio col mondo dei piccoli.

Resto a disposizione con chi volesse/potesse condividere la sua esperienza: può farlo contattandomi per mail (fabrizioboninu@gmail.com) oppure lasciando un commento. 

A presto…

Fabrizio Boninu

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Come aiutare i bambini ad amare la lettura? (1)

bambini e libriInterno: studio. Primo incontro con i genitori di Matteo. Io: ‘Come trascorre le giornate in casa, Matteo?’, mamma: ‘Guardi, non fa nulla tutto il giorno, passa gran parte del tempo di fronte alla tv o con la playstation, è sempre attaccato a qualcosa di elettronico, non lo abbiamo mai visto prendere di sua iniziativa un libro in mano. Ma cosa dovremmo fare per farlo leggere?’
Già, cosa dovremmo fare noi adulti per far interessare i bambini o i ragazzi alla lettura? Parlo da appassionato lettore oltre che da psicologo. Per far fronte a richieste di queste tipo, e tenendo in considerazione la ripresa dei loro impegni scolastici, ho immaginato di stilare un rapido catalogo di quelle che potrebbero essere dei suggerimenti (niente regole!) per cercare di favorire questa attività anche con i nostri ragazzi. Attirati dal veloce e accattivante mondo dei videogiochi, circondati da internet o social network a qualunque ora del giorno (e spesso della notte!) ed in qualunque circostanza, bambini e ragazzi sono semplicemente all’oscuro di quanto possa essere altrettanto viva e vivida l’avventura vissuta grazie alla loro fantasia e ad un buon libro. Cosa possiamo fare per rendere questa esperienza più frequente?

Questo elenco vi aiuterà a rendere più agevole il percorso:

 

1) Non associate la lettura con i compiti scolastici: spesso i bambini si avvicinano alla lettura solamente perché costretti dalla scuola per attività di ricerca o come compito, stabilendo, quindi, la relazione ferrea per cui leggere equivalga ad un dovere. Uno dei primi lavori da fare sarebbe proprio questo: spezzare il legame lettura=compito, cercando di rendere l’attività della lettura indipendente dall’attività dello studio o dello svolgimento dei compiti. Spezzata questa connessione, il bambino si sentirà libero di scegliere cosa e quando leggere e non si sentirà costretto a farlo per una scadenza;

2) Proponiamo libri che piacciano a lui non a noi: il secondo punto è strettamente legato al primo: dato che il bambino non dovrebbe leggere libri perché obbligato (dagli adulti, dalla scuola, ecc ), dovremmo stare attenti a proporre libri che rientrino nei suoi interessi. Questo comporta che gli adulti intorno a lui prestino attenzione agli interessi manifestati dai ragazzi, e quindi abbiano una conoscenza delle realtà che li coinvolgono e delle loro passioni. Evitiamo una riproposizione pedissequa di ciò che è piaciuto a noi e che, per quanto ci secchi ammetterlo, potrebbe essere totalmente passato di moda! Cerchiamo di evitare termini come: ‘è un classico’ o ‘è un capolavoro’, frasi che sottilmente sottintendono quanto, invece, quello che leggono loro non lo sia per nulla e non lo diventerà mai. Ricordiamoci che stiamo cercando di insegnare loro ad apprezzare la lettura, non a costruire dei nostri cloni, anni dopo l’originale;

3) Diamo per primi l’esempio: è molto facile predicare senza essere coinvolti. Un bambino impara più dall’esempio che dalle parole. Se non vede nessun adulto intorno a lui prendere in mano un libro difficilmente sarà a sua volta invogliato a farlo. Sarebbe bene, quindi, prima di gridare allo scandalo di quanto i nostri figli non leggano, cercare di capire quanto siamo per loro esempi per l’attività che richiediamo;

4) Leggete assieme: una delle cose che generalmente i bambini amano di più, è che qualcuno racconti loro una storia. Se potete, abituateli fin da piccoli a sentirvi leggere storie, per condividere, oltre al tempo che passerete assieme facendolo, anche un viaggio con la fantasia. Cercate di non perdere col tempo questa abitudine: anche se cresciuti, se state leggendo un libro che vi appassiona, costruite un momento per condividerlo: leggetelo assieme oppure chiedete loro un parere. Questo gesto permetterà diversi movimenti: da una parte potrebbe incuriosirli e spingerli a voler sapere cosa accade nel resto del libro (e per quale motivo vi abbia catturato quel libro!), saprà che leggere è per voi un’attività ancora ricca di passione e costituirà un piccolo, ulteriore ponte comunicativo tra i vostri interessi e loro;

5) Rispettiamoli: come detto prima stiamo cercando di far crescere in loro l’interesse per la lettura, non creare dei nostri cloni. Se il nostro obiettivo è quello di allontanarli dalla lettura, non dobbiamo far altro che trattarli come piccoli illetterati che non capiscono nulla di quello che stanno leggendo/recensendo/criticando e che non comprendono la bellezza di ciò che proponiamo loro. Questo atteggiamento difficilmente si concilia con la creazione di uno spirito critico. Leggere equivale anche a costruire, come per molte altri aspetti, i propri personali gusti. Siamo in grado di accettare che i loro non coincidano con i nostri?

– CONTINUA –

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La paura

pauraQual è l’emozione tra tutte più temuta? Molti di noi a questa domanda risponderebbero quasi sicuramente la paura, forse tra tutte la più vituperata. La paura è essenzialmente l’emozione che si attiva quando sentiamo di essere in pericolo. Il pericolo può essere reale o immaginato: la differenza non è importante a livello di attivazione perché anche un pericolo immaginato può avviare una serie di reazioni, sia fisiche che psicologiche, molto importanti. La paura è un meccanismo atavico, antico quanto condiviso tra specie diverse, portato avanti nella catena evolutiva come meccanismo indispensabile alla vita stessa perché, proprio la sua attivazione, permette all’individuo di salvarsi dai pericoli che incombono. E, come accennavamo, la paura è anche una delle emozioni più detestate perché associata all’ansia, al senso incombente di minaccia e di pericolo. A livello fisico tra le manifestazioni che possono segnalare la presenza in noi di paura sono:

  • aumento della percezione di pericolo;
  • aumento del battito cardiaco;
  • aumento della sudorazione;
  • maggiore attivazione di funzioni fisiche e intellettive;
  • aumento dei livelli di adrenalina;
  • fuga.

I sintomi della paura non si esauriscono in questa lista e, spesso, ognuno di noi riesce a declinare la paura con un proprio comportamento personale. Ci sono persone che si agitano visibilmente, altre diventano apatiche rasentando l’immobilismo. Possiamo dire che uno dei due ha più paura dell’altro? No, possiamo solamente dire che lo esprimono in maniera differente. Una delle reazioni più comuni ad emozioni così intense è quella di evitamento: sfuggire quell’emozione, cercare di farla andare via, non pensarci o distrarci, è una della cose che più spesso facciamo per cercare di superare la paura. Questa strategia è funzionale solo sul breve periodo, perché ci consente di non affrontare la paura in un dato momento ma non ci da indicazioni su cosa l’abbia causata. Se, per esempio, ci incute timore il fatto di parlare in pubblico, per superare la paura metteremo in atto una serie di strategie che ci consentano di affrontarla (mi vestirò in un modo che mi faccia sentire bene, farò una presentazione che riduca la possibilità di fare errori, ecc) ma, passata quell’occasione, magari non rifletterò più sul perché parlare in pubblico mi dia questo tipo di emozione. Non avrò fatto mia l’emozione accogliendola e facendola diventare parte del mio vissuto. Questa attenzione è molto difficile perché prevede un riconoscimento e un accoglimento dell’emozione. Non mi focalizzo sul singolo atto che mi provoca quell’emozione (il parlare in pubblico), ma cerco di capire cosa sia quell’emozione per me. 

La nostra esperienza ci dice che la più grande barriera al riprendersi dalle esperienze di abbandono e deprivazione non sono il dolore e il dispiacere, ma la paura e la lotta contro il dolore. Dentro di noi abbiamo infinite risorse per affrontare la perdita e la frustrazione, ma questo è difficile se non comprendiamo cosa sta succedendo e perché sta succedendo. Questa mancanza di comprensione e consapevolezza provoca la paura. Inoltre nessuno ci ha mai insegnato che il dolore ha un valore. Non abbiamo imparato che possiamo maturare solo permettendo al dolore di essere parte integrante della nostra vita. Attraverso il dolore cresciamo, ma di solito lo combattiamo anziché accoglierlo e la lotta lo fa diventare una sofferenza che si trascina più a lungo di quanto invece durerebbe se fosse accettato, sentito e lasciato fluire attraverso di noi.

Se smettiamo di resistere e riconosciamo che ciò che accade è parte di un inevitabile viaggio dentro l’anima, allora possiamo rilassarci.

Un aspetto di questa comprensione è il semplice fatto che l’amore comporta la perdita: ciò è parte dell’esperienza dell’amore. Se apriamo il nostro cuore, molte volte verrà ferito. Se siamo vicini a qualcuno, sentiremo spesso dei piccoli abbandoni. E quanto più siamo intimi con questa persona, tanto più intense saranno le emozioni.

Quando stiamo per tanto tempo lontani l’uno dall’altro attraversiamo sempre momenti in cui sentiamo intensamente la mancanza dell’altro.

Un’altra comprensione è che le esperienze di deprivazione e abbandono aprono spazi nascosti nell’inconscio che possono guarire appunto solo se vengono aperti. Il terrore e il dolore dell’abbandono che abbiamo sperimentato da bambini giacciono addormentati dentro di noi e vengono stimolati solo quando esperienze simili accadono nella nostra vita attuale. Non guariranno se non vengono aperti e sentiti. E infine, la sensazione di paura e di dolore passeranno solo se ci permetteremo di sentirle senza opporvi resistenza. Allora la confusione e lo choc, la collera e il risentimento, il dolore e l’angoscia si calmeranno. Accogliendo la deprivazione e l’abbandono ci apriamo a una profonda pace interiore. La maggior parte della lotta con la vita è dovuta proprio al nostro resistere alle emozione connesse col sentirci soli e indifesi. [1] 

La paura insomma, come le altre emozioni, non andrebbe espulsa dalle nostre esperienze ne evitata. Per quanto possa apparirci difficile, andrebbe accolta e sentita come parte integrante della nostra esperienza di vita. Solo così potremmo non solo ricomprenderla in noi ma anche depotenziare quegli effetti che percepiamo spesso come problematici. 

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

 

Sullo stesso tema leggi anche:

LA PAURA DI AVER PAURA

[1] Trobe, T., Trobe Demant G. (2008), Fiducia e sfiducia, Feltrinelli, Milano, pp. 116-117

 

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Un vaccino per leoni

vaccini

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sono un genitore che ha scelto consapevolmente di non vaccinare i propri figli. La libertà di scelta per la salute è un diritto democratico irrinunciabile. Chiedo pertanto all’Azienda Sanitaria, all’assessore alla salute, dottoressa Donata Borgonovo Re, al presidente Ugo Rossi e a tutto il consiglio provinciale di rispettare il diritto alla tutela della salute e di non demonizzare coloro che hanno fatto questa scelta consapevolmente, assumendosi le proprie responsabilità. Non voglio entrare in polemica su quanto viene scritto in questi giorni a riguardo, ma penso che, se è vero che stanno tornando alcune malattie, non sia per il mancato vaccino dei bambini, ma forse per altre cause, una delle quali, forse potrebbe essere l’incontrollata flusso di migranti, i quali non credo siano stati tutti accuratamente sottoposti ad una profilassi per le vaccinazioni.

Andrea Leoni

Questa lettera è comparsa qualche giorno fa in un giornale locale di Trento. La lettera è ben scritta, non apertamente offensiva, con tanti forse. Eppure sento il retrogusto amaro, un disgusto poco classificabile, ed è lo stesso sottile disagio che provo ogni volta che le persone utilizzano la frase ‘io non sono razzista/omofobo/intollerante, però…’ Però. Quattro lettere e un accento non dovrebbero essere così disturbanti mi dico. In questa lettera, la neanche tanto velata punta di intolleranza compare nel momento in cui si attribuisce agli immigrati la recrudescenza di alcune malattie ricomparse in Italia. Parla di responsabilità, di scelte, ma paradossalmente non se ne assume nessuna scaricando, sempre con tanti forse, alcune patologie ad una categoria che, da sempre, ma oggi più che mai, paga per i nostri mali sociali.

Fatemi fare un inciso: esiste da tempo un ragionamento circa l’opportunità o meno di far vaccinare i propri figli. Molti genitori, stante la possibilità che i vaccini non garantiscano un’affidabilità del 100%, rifiutano di far vaccinare i propri figli. Questa scelta sta portando alla ricomparsa di malattie considerate ormai debellate. A Giugno di quest’anno, in Spagna, comparve la notizia che un bambino era stato ricoverato in ospedale per difterite. Era dal 1987 che in Spagna non si avevano ricoveri per questa malattia. Comprendo le paure legate alla salute dei propri figli, e capisco che l’obiettivo di un genitore dovrebbe essere quello di fare il meglio per la salute del proprio bambino. Temo, però, che il dibattito sui vaccini, come purtroppo accade per molti altri temi, si stia spostando sempre più dal terreno della considerazione razionale dei dati al terreno, molto più scivoloso e insidioso, delle credenze, dei ‘sentito dire’, delle fazioni, degli studi senza nessuna conferma che, forti della paura che inducono in molti, propinano dei rimedi che sono spesso peggiori del male da curare. E temo che la paura e il timore non siano abili consiglieri, in questo come in nessun caso. (Vi consiglio, in merito alla paura che diventa ossessione per i figli,  il bellissimo film Hungry Hearts).

Premesso questo, ma tornando al tema, la lettera è l’emblema della discriminazione elegante, il sunto del ‘si, però’, di tutti coloro che ‘non guardate me, guardate che le cause del vostro male stanno da un’altra parte’, nel continuo rimbalzo del ‘io faccio le mie scelte, non osate criticarle, e non guardate me se quelle scelte hanno conseguenze anche per voi’. La lettera parla di consapevolezza e responsabilità, non avendone e non volendone assumere nessuna. Non sono i nostri bambini a diffondere malattie, saranno quelli arrivati da chissà dove, nati e cresciuti in chissà quali condizioni, che vengono qua a renderci le cose ancora più difficili (sembrano gli untori di manzoniana memoria). Come si può pensare poi che un bambino nato e cresciuto in un paese sanitariamente stabile come il nostro, possa portare malattie? 

Vorrei che si informasse il signor Leoni che, per quanto ben vestito e circondato di comodità, senza nessun trasbordo su un gommone con altre centinaia di persone, pregando che la barca non si rovesci, anche un bambino nato in Italia può non solo contrarre ma anche diffondere queste malattie.

Vorrei ricordare al signor Leoni che i virus e i batteri, ben più evoluti di noi da questo punto di vista, non fanno distinzione tra residenti e immigrati, non chiedono la carta d’identità prima di infettare qualcuno e non si informano sulle condizioni sanitarie del paese nel quale l’ammalato si trova.

Vorrei precisare al signor Leoni che si, ha ragione, le condizioni sanitarie attraverso le quali si muovono queste persone sono disastrose, ma contrapporre la NOSTRA salute con la LORO salute, non aumenterà la probabilità di affrontare al meglio il problema.

Vorrei chiarire al signor Leoni che queste persone fuggono da paesi in guerra, o da paesi in condizioni disastrose, dove non solo spesso non esiste una sanità, ma neanche un diritto alla vita. 

Vorrei dire al signor Leoni che è del tutto pretestuoso accampare delle libertà per i propri figli, stabilendo che (forse) non possano fungere da vettori di contagio per altre persone, decretando indirettamente un diritto alla salute da preservare solo in alcuni casi (i nostri) nei confronti di tutti gli altri. 

Vorrei anche ribadire al signor Leoni che lui non si assume la piena responsabilità: lui si assume, come tutti i genitori, il rischio di fare delle scelte nei confronti dei figli. Come lui, altri genitori, che non possono assumersi nessuna responsabilità ma solo rischi pesantissimi perché non esistono alternative, ‘decidono’ di imbarcarsi verso viaggi terribili, che spesso terminano con morti orribili, con i propri figli. E vorrei che tenesse presente che questi genitori a volte si assumono la terribile responsabilità di far partire i loro figli da soli pur di non farli crescere nelle stesse condizioni in cui sono cresciuti loro.

Ecco io vorrei dire al signor Leoni tutte queste cose. E mi scuserà se utilizzo il suo esempio per parlare con i tanti leoni da tastiera che sempre con più difficoltà tengono a bada la loro intolleranza, a tutti questi leoni senza coraggio che hanno deciso di puntare il dito contro qualcuno, ostinandosi a chiudere gli occhi, le orecchie e il cuore di fronte al dramma che stiamo vivendo in diretta tutti i giorni. Lo vorrei dire a tutte quelle persone nel cuore delle quali urla sempre più forte l’egoismo per la paura della presunta perdita di pochi, piccoli privilegi e che si sentono minacciati da un massa di persone sempre più disperata e affamata.

Vorrei dirlo anche ai leoni peggiori, quelli mascherati da agnelli tolleranti e comprensivi, quelli che ‘io non sono razzista, però’, con il suo corrispettivo 2.0 ‘io farei una distinzione tra immigrati e profughi’, quelli che inneggiano alle sparate becere e populiste del politico di turno che, cavalcando le paure e le angosce di tutti noi, indicano l’immigrazione come la fonte di tutti i mali. 

Prevengo già le critiche che mi sono state rivolte decine di volte. Non voglio fare il buonista, immagino che l’accoglienza e la gestione di questi flussi sia cosa complicata. A differenza delle sempre più facili ricette sentite,  non so che cosa ci sia da fare, non ho quelle facili soluzioni care ai leoni spaventati. So solo che respingerli in massa o rimpatriarli nei loro paesi di origine, non farli sbarcare, lasciarli in mare, non mi sembrano grandi soluzioni. Come non mi sembra una grande soluzione accusarli, forse, della ricomparsa di alcune malattie (vedi la temibilissima scabbia). Sono sicuro che anche se gli dessimo fuoco, come tanti pietosi leoni propongono, nascerebbero dei comitati di protesta che urlerebbero a squarciagola ‘benzina agli italiani’.

Cari leoni, anziché puntare la zampa sull’altro, provate ad assumervi sul serio la vostra responsabilità, e a rivolgere quel dito verso di voi: magari riuscirete a scoprire cosa vi spaventa, cosa vi atterrisce e terrorizza. E non sarete costretti a fare branco per sentirvi più forti e spalleggiati. E ricordate che il leone più aggressivo è quello che ha più paura. Scrivere su Facebook ‘diamogli fuoco’ o gioire per un naufragio non vi rende simpatici: svela quanto terrore abbiate. E la paura è direttamente proporzionale alle idiozie che pubblicate e condividete. Comprendo non sia facile, ma urlare dietro alle ‘colpe’ dell’altro vi porterà sempre più lontano da voi stessi.

Questo è quello che volevo scrivere ai tanti leoni da tastiera che ho la fortuna di incontrare. Tutti gli altri mi scuseranno ma sentivo il bisogno di rimarcare alcune cose e condividere alcuni pensieri che da tempo, e con sempre più insistenza, agitano il mio cuore, sconvolto di fronte ad immagini sempre più abominevoli. 

 

A presto…

Fabrizio Boninu

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Crescere un figlio da soli

come-comportarsi-con-un-figlio-adolescente_2fdc5e3c0fd3437e64f4423bdefd8742Accade sempre più spesso, soprattutto a causa di separazioni, (ma non solo, penso per esempio a famiglie immigrate), che le famiglie siano composte da un solo genitore con figli. Molti genitori avvertono la difficoltà di questa situazione, il ‘peso’ della famiglia tutto sulle proprie spalle, la difficoltà di essere e di dover fare, contemporaneamente da padre e da madre per i propri figli. La difficoltà viene percepita in maniera più netta quando il figlio o i figli diventano adolescenti, quando entrano in quella fase di vita che spesso provoca frizioni e contrasti con i propri genitori e che, in caso di famiglia monogenitoriale, viene percepita come ancora più ardua. Da questa premessa nasce la riflessione: cosa comporta essere un genitore solo? Cosa può comportare non essere supportati da un altro genitore?

Uno dei primi aspetti al quale prestare attenzione riguarda, sicuramente, il poter fornire informazioni chiare e precise sul perché questa sia la situazione nella quale si trova la famiglia. Il bambino probabilmente si chiederà come mai ha un solo genitore ed è indispensabile che in questo passaggio possa contare sulla correttezza di un racconto che possa esplicitare i motivi per i quali la sua famiglia sia così composta, quale sia la storia e quale ne siano le cause. Solo così il suo racconto di vita potrà essere integrato e non disgregato in frammenti dei quali, magari, non riesce a comprendere il senso:

Sia che la condizione di genitore single sia stata subita oppure voluta, non si può trascurare il fatto che tutti i figli vogliono fare una conoscenza, il più precisa possibile, delle proprie radici e delle proprie origini, con domande pressanti sul perché la loro crescita sia avvenuta senza poter contare sull’appoggio di due adulti. Naturalmente questo non vale per i figli rimasti orfani, per i quali, però, il genitore rimasto dovrà costantemente preoccuparsi di mantenere viva la memoria del padre o della madre che non è più lì al loro fianco a sostenerne il percorso di crescita[1] 

Altre importanti capacità che vengono richieste ai genitori soli, sono quelle di saper contemporaneamente rivestire il ruolo materno e paterno, e di riuscire ad alternare velocemente le due diverse funzioni:

La fatica doppia di un genitore single sta principalmente nell’imparare a coniugare ruolo materno e paterno nella stessa persona: essere materni comporta il saper offrire una solida sponda affettiva che faccia sentire un figlio amato, protetto e sostenuto per come è e non per cosa fa. Saper essere invece paterni significa far sentire un figlio contenuto, normato e regolato, in modo che i suoi processi esplorativi, trasgressivi o di individuazione possano sempre compiersi in modo tale da non essere autolesivi e soprattutto da essere funzionali al percorso di crescita, con la capacità di acquisire competenze di autocontrollo, autoconoscenza e buone relazioni con gli altri.

Il problema, tra l’altro, non consiste solo nel dover rivestire le due funzioni, ma anche nel saperle rendere velocemente alternative, intercambiabili, flessibili. Un genitore single deve saper prontamente assumere la funzione paterna che, per esempio, vieta a un figlio l’uscita non concordata e programmata durante il weekend e poi, in tempi rapidissimi, essere in grado di diventare sponda affettiva pronta a consolare la sensazione di solitudine e di isolamento dello stesso figlio, rimasto in casa e rinchiuso nella sua stanza, afflitto dalla percezione che tutti rideranno di lui per non essersi presentato all’appuntamento con il gruppo. C’è bisogno di così tanta forza interiore e, a volte, ci si sente così soli nel dover fronteggiare questa complessità, che non a tutti genitori single riesce possibile o anche solo pensabile questo veloce cambio d’abito. E proprio questa incapacità di muoversi con flessibilità e accortezza da un ruolo all’altro, mettendo in gioco funzioni così diverse, spesso porta il genitore single a cristallizzarsi solo su una posizione: così, o diventa ultraprotettivo e sempre accondiscendente, o al contrario ultrarigido e sempre in posizione di divieto. Inutile dire che è proprio questa ‘non mobilità’ a mettere maggiormente a rischio la crescita dell’adolescente. È per questo che al genitore che affronta da solo l’ingresso in adolescenza dei propri figli occorre una forte auto-consapevolezza ed eventualmente la capacità di saper chiedere aiuto, convinto che se la fatica educativa è al di sopra delle proprie forze è necessario essere presi per mano e accompagnati nel viaggio. [1] 

Quest’ultimo aspetto è, per un genitore, uno degli aspetti più difficili dei quali prendere consapevolezza: cogliere l’impossibilità di fare autonomamente e comprendere che la difficoltà può essere tale che si abbia bisogno di un aiuto. Intendiamoci: questo non vuole dire necessariamente rivolgersi ad uno psicologo: significa piuttosto avere idea dei propri limiti e delle proprie difficoltà, significa avere consapevolezza di dove si possa arrivare da soli e dove, invece, sia necessario appoggiarsi a qualcuno per avere aiuto. Chi possa essere il dispensatore di questo aiuto, poi, è la famiglia stessa a decidere: potrebbe essere un adulto competente col quale il figlio/figlia abbiano una buona relazione, potrebbe essere un insegnante, un amico di famiglia o, in caso di assenza di una figura di riferimento, un professionista qualificato. Questo supporto potrebbe garantire due diversi risultati: da una parte sarebbe un buon ‘ponte comunicativo esterno’ per il figlio, costituendo la premessa di un’ulteriore possibilità relazionale tra genitore e figlio; dall’altra potrebbe alleviare il genitore dal peso di sentirsi solo, essendo supportato dall’aiuto di un’altra persona.  

Come sempre chi volesse/potesse condividere la sua esperienza può farlo contattandomi per mail (fabrizioboninu@gmail.com) oppure per telefono (3920008369). 

 

A presto…

Fabrizio Boninu

[1] Pellai, A. (2012), Questa casa non è un albergo!Feltrinelli, Milano, pp. 142-143

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L’ascolto recettivo

ascoltare le emozioniCapita che le persone che mi chiedono che lavoro faccio abbiano molte curiosità su come si svolge il lavoro. Da questa curiosità fioccano moltissime domande alcune delle quali ricorrenti. Una delle curiosità riguarda l’uso del lettino: ho il lettino in studio? I miei pazienti si sdraiano sul lettino e iniziano a raccontare le loro cose? Altra curiosità ricorrente è il modo in cui si parla: sono uno di quegli psicologi che non dicono nulla per tutta la durata della seduta oppure uno di quelli che fa molte domande? Che genere di domande faccio? Le mie domande possono riguardare anche i genitori del mio paziente? E ancora: la ‘colpa’ dei problemi dei figli può essere imputata più alla mamma o al papà?

Nella rassegna degli stereotipi non può mai mancare la battuta sul fatto che faccio un lavoro molto facile dal momento che devo fare ‘una chiacchierata’ con un’altra persona. Non entrando neanche nel merito sul fatto che mi limiti a fare ‘una chiacchierata’ con i miei pazienti, mi colpisce, invece, un altro punto che è legato all’idea di ciò che succede in seduta. In seduta, questa è l’immagine che hanno molti, quello che avviene è che si parli.

Le persone vengono da me per parlare dei loro problemi, per parlare delle loro relazioni, per parlare dei loro figli. Per parlare della loro Vita. Io, a mia volta, parlo con loro di quello che mi portano e cerco di comprendere e restituire loro una visione spesso diversa da quella con la quale vengono. Naturalmente tutto questo è vero. Ma solo in parte.

Durante una seduta capita qualcosa che non sempre viene notato dal momento che non fa rumore: si ascolta.

Si ascolta l’altro, la persona che ci ha cercato e che sente di avere il bisogno di un confronto, si ascoltano le sue storie, si ascoltano le sue gioie, le sue paure, le sua ansie, le sue emozioni, le sue angosce. Si ascolta il racconto che la persona da di se stesso. Se si riesce ad essere attenti, ascoltando l’altro ci si ascolta, si ascoltano le proprie emozioni, le proprie risonanze, le proprie ansie, le proprie paure, le proprie gioie, le proprie impotenze e le proprie forze, le proprie inadeguatezze e le proprie risorse.

Se si è ancora più attenti, si riesce a costruire la condivisione di queste storie, quella vera e propria magia che avviene in terapia. Se si è bravissimi nel prestare attenzione a come restituire all’altro, capita anche che si venga ascoltati, quando si cerca di dare una nuova luce, una nuova prospettiva alla storia che il nostri paziente ci ha appena raccontato. L’ascolto è la chiave di volta di ciò che succede in terapia.

Ascoltare non è sentire, ascoltare è prendere atto, partecipando di quello che viene condiviso. Non è facile, non è immediato, non è automatico. Altri fattori entrano in gioco nel disturbare questo ascolto: il giudizio spesso è l’elemento che porta lontano il cuore, che fa perdere il contatto con l’emozione che l’altro ha scelto di condividere con noi. La superficialità è nemica dell’ascolto, nel momento in cui ci mantiene lontani da un’autentica curiosità per quello che ci stanno dicendo. L’egoismo è profondamente divisore nella costruzione di questo contatto, perché ci fa concentrare più sulle nostre prospettive che su quelle dell’altro.

Il rimedio a questi aspetti è un ascolto partecipe, riflessivo e, come lo definisce Claudio Foti, recettivo:

Nell’ascolto recettivo l’ascoltatore si dispone a recepire con sensibilità ed intelligenza i dati, i problemi, i vissuti emotivi così come vengono espressi nella comunicazione del soggetto che chiede di essere ascoltato, senza attivare immediatamente interventi tesi a consolare, consigliare, giudicare, ammonire, interrogare o interpretare. Nell’ascolto recettivo sono chiamato a prendere atto e a tentare di condividere qualcosa che esiste o che è esistito indipendentemente dalla mia volontà, indipendentemente dal mio controllo. L’ascolto di sé e dell’altro, la consapevolezza di sé e della realtà implicano l’accettazione soprattutto delle informazioni, delle situazioni, delle emozioni meno piacevoli, meno previste, meno gratificanti. Ad ascoltare buone notizie dai nostri figli, a riconoscere sentimenti positivi ed armonici dentro noi stessi, a percepire riscontri emotivi favorevoli nel mondo circostante, sono capaci tutti! Il banco di prova delle potenzialità di contenimento e di cambiamento dell’ascolto e della consapevolezza è dato dal confronto con le informazioni, con le situazioni, con le emozioni più inattese, più frustranti, più dolorose

E dunque l’ascolto e la consapevolezza possono sprigionare la loro efficacia tanto più quanto prendono le distanze dalle aspettative del controllo onnipotente e prendono forza dalla capacità di accettare la realtà a trecentosessanta gradi in tutte le sue varianti e possibilità, positive o negative, piacevoli o spiacevoli. [1]
 
La prossima volta che pensate ad una psicoterapia, provate a prendete in considerazione, oltre il lettino e la ‘chiaccherata’ l’aspetto che, per quanto poco visibile, gioca un ruolo fondamentale nella riuscita della stessa: l’ascolto.
Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

[1] Foti, C. (2012), La mente abbraccia il cuore, Edizioni Gruppo Abele, Torino, pp. 52-55    

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La tanto agognata sanità mentale

folliaNella quotidianità del mio lavoro, capita spesso di parlare con persone che non si definiscono sane, che hanno paura di sentirsi e di essere considerate strane, non comuni, non a posto. ‘Sono sicuro che sono la persona più strana che ha sentito’, ‘Non saranno in tanti messi male come me’, ‘I miei racconti ti hanno spaventato?’ sono solo alcune delle frasi che sento ripetere. Tutto questo ha avuto come conseguenza l’interrogarmi sul perché del bisogno di questa categorizzazione. Cosa significa essere sani? Chi di noi può definirsi tale?  

Prima di affrontare questo tema, ho bisogno di una piccola premessa. Da una parte temiamo profondamente che i nostri comportamenti o le nostre emozioni non siano sane, che siano strane. Di contro, invece, ci troviamo in un contesto sociale che spinge, almeno apparentemente, a considerarci e a percepirci come unici e diversi l’uno dall’altro. Ci troviamo in una sorta di dilemma: da un lato la società incoraggia la nostra originalità, dall’altro noi stessi temiamo questa originalità e cerchiamo di non apparire come troppo diversi dagli altri, di non scostarci troppo dalla norma.

Andando a scavare più a fondo, si scopre che la presunta spinta sociale ad essere diversi, unici, in realtà non è così ben accetta e che, anzi, la società spinga al conformismo e alla stereotipia, ad una omologazione, soprattutto emotiva, sempre più ampia. L’unicità che viene accettata sembra, infatti, poter riguardare solo aspetti marginali della nostra vita, legati più che altro al consumismo. Mi viene in mente un fenomeno tipicamente contemporaneo. Le nostre auto, oggi considerate un’emanazione della persona che le possiede, possono essere personalizzate all’eccesso, di modo che nessun altro abbia una vettura uguale alla nostra. Sarà UNICA. In questo caso l’anticonvenzionalità viene incentivata e sviluppata. Ma di cosa stiamo parlando? Di prodotti. Di cose. Paradossalmente non possiamo godere dello status del quale possono godere le nostre auto.

Stavamo, però, parlando di sanità: perché ora stiamo parlando di unicità? Credo che le due cose siano strettamente legate e che la nostra paura di non essere sani, o che qualcuno possa giudicarci tali, derivi dalla pressione sociale ad essere omologati e ad essere simili. Il punto importante è che finiamo per credere a questa omologazione e che, di conseguenza, facciamo di tutto per non essere diversi, diventando in questo modo i nostri primi censori, giudici inflessibili che non accettano le nostre stesse unicità.

La paura di essere giudicati e di essere esclusi, parte dallo stesso giudizio e dalla stessa esclusione che noi perpetriamo nei confronti di noi stessi. Se ognuno di noi dovesse realmente coltivarsi, a discapito di quello che può essere l’interesse dominante, verrebbe bollato come strano, diverso, difforme, ribadendo come la nostra unicità possa essere applicata solo ai dettagli della nostra vita, non alla sua interezza. E sappiamo come questo marchio di stranezza, diversità, difformità serva ad escludere l’altro. Ma è un marchio che noi stessi ci premuriamo di coltivare, perché primi a non accettare parti di noi che definiamo strane, o ‘non sane’. E questo processo di esclusione, partito da noi, sembra ormai più automatico del processo inverso, quello inclusivo. Siamo noi ad avere difficoltà ad integrare questa parti di noi stessi e, spaventati da quello che sentiamo o proviamo, ne cerchiamo la legittimazione all’esterno, come se il fatto che quelle emozioni le sentano anche gli altri ci rassereni e ci faccia sentire più ‘normali e sani’ di quello che saremmo disposti a concedere a noi stessi

Come possono conciliarsi allora desiderio di unicità e paura di essere diversi? Semplicemente non possono. Non lo fanno. Si vive con il disagio, con la paura di non sapere aderire ai dettami principali. ‘Non pensare a te pensa ad essere socialmente accettato’ sembra essere una di queste leggi non scritte. E nel non pensare a se stessi troviamo tutta la non accettazione della propria vita emotiva, il non occuparsi del proprio sentire. Da questa mancanza di attenzione per  stessi deriva, in seguito, la mancanza di attenzione per quelle che sono le emozioni dell’altro, in un circolo vizioso continuo che si perpetua. 

Questa non accettazione delle proprie emozioni genera, alla lunga, una grande sofferenza e un grande disagio, perché comunichiamo a noi stessi la nostra incapacità ad accogliere e a supportare quella che è la nostra unicità, e il disagio psichico è, in quest’ottica, la conseguenza di un non sentire emotivo molto costoso da raggiungere, frutto di uno scarto tra un sentire giudicato inammissibile e un “non ascoltarsi” socialmente accettato.

Ed è questa distanza, dagli altri ma soprattutto da noi stessi, che può portare a sviluppare un malessere vero e proprio che non ci fa stare bene né con noi stessi né con gli altri. Spezzare questo circolo è possibile e penso dipenda dalla capacità di recuperare il nostro senso di unicità, nel senso più pieno del termine. Non mi riferisco a scelte egoistiche che prescindano dagli interessi degli altri quanto alla riscoperta delle proprie peculiarità, delle proprie passioni, delle proprie ragioni. Ed è necessario, in questo lavoro, partire da se stessi, da ciò che più si sente autenticamente proprio, riportando l’attenzione su quegli aspetti di sé che spesso vengono sacrificati sull’altare dell’accettazione.

L’insensibilità emotiva verso se stessi diventa causa di malessere e di disagio profondo. Solo riprendendo il contatto con la nostra realtà intima, recuperando l’amore per quella nostra parte originale che spesso tendiamo non solo a non mostrare agli altri ma anche e soprattutto a noi stessi, riconoscendola e legittimandola come nostra, riusciremo a smettere di chiedere se siamo sani, non avendo paura di essere bollati dall’esterno come malati o ‘strani’.

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

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Il pensiero divergente e la creatività

pensiero (1)Il post di oggi ha a che fare con la creatività ma soprattutto con una delle sue componenti principali: la possibilità di avere e di utilizzare il pensiero divergente. Andiamo con ordine, cercando di illustrare in parole semplici cosa sia la creatività e che cosa si intenda con questo termine. Il termine creatività è un termine che indica qualcosa di familiare eppure, quando si cerca di darne una definizione più circostanziata, diventa un termine di difficile spiegazione, sfuggente e molto ambiguo. Wikipedia la definisce come l’arte o la capacità cognitiva della mente di creare e inventare. Considerando quanto è complicata la definizione, molti per specificarla, ma rendendola in realtà un concetto ancora più nebuloso, introducono concetti di capacità personali, cuore, realtà personale, ecc. Insomma cosa sia lo intuiamo tutti, definirlo è un altro discorso. La creatività è quella capacità, non solo umana, di inventare e di creare qualcosa dal nulla o partendo da elementi dati, utilizzandoli talvolta in maniera diversa rispetto a quello per cui sono stati inventati. Si può essere creativi in ogni ambito, è una capacità che si può affinare e incrementare. Anche se ci sono persone che dicono con forza di non essere per niente creative, credo sia solo perché poco abituate ad utilizzare e a mettere in gioco questa capacità. Mi piace immaginarla come un muscolo: l’esercizio e l’uso non possono fare altro che renderla più tonica ed elastica. Viceversa la volontà di non utilizzarla la rendono sempre più rigida e impossibilitata ad esprimersi.

All’interno della definizione di creatività gioca un ruolo fondamentale quello che è stato definito come pensiero divergente. Il termine pensiero divergente fu coniato da J.P.Guilford, psicologo statunitense, che propose di considerare la creatività come realtà basata su questo concetto. Il pensiero divergente è sostanzialmente legato alla capacità di ristrutturare i termini del problema o della realtà in un modo completamente nuovo e non previsto prima dagli elementi che avevamo a disposizione. L’espressione ‘pensiero’ non ha specificamente a che fare con un atto legato all’intelligenza quanto ad una capacità ristrutturattiva che, partendo dagli elementi dati, riesce a combinare questi elementi in una soluzione nuova. Ipotizzando l’esistenza di un pensiero divergente, l’autore teorizzò, però, anche l’esistenza di un pensiero convergente, caratterizzato da peculiarità opposte a quelle del pensiero divergente. Il pensiero convergente è infatti quel pensiero nel quale le persone immaginano soluzioni che si concentrino sulla via più facile o più immediata, o non riuscirebbero ad utilizzare in maniera alternativa gli elementi proposti. Questi due tipi di pensieri sarebbero alla base rispettivamente della creatività o dell’assenza di questa caratteristica. Sarebbe necessario quindi, come per l’allenamento di un muscolo, cercare di investire risorse e attenzioni sull’allenamento del pensiero divergente cercando di stimolare nuovi punti di vista e nuove possibilità riguardo a quello che è un problema dato.

Naturalmente, come vi ho già accennato, la creatività è qualcosa di più complesso che non ha a che fare semplicemente con il pensiero quanto con un insieme e con un intrico di pensieri ed emozioni. Un fattore ostacolante o facilitante può essere il contesto. Se, per esempio, il contesto è facilitante e permette l’esplorazione di soluzioni creative e nuove, la persona che queste soluzioni prova si sente agevolata nell’andare avanti e ricerca attivamente nuove prospettive e nuove possibilità. Se invece il contesto è frenante rispetto a soluzioni creative e tende all’omologazione, necessariamente castra le soluzioni che si discostino da quelle attese portando la persona a favorire soluzioni più tradizionali piuttosto che quelle più originali e nuove. Nel primo caso è più probabile che il pensiero divergente venga stimolato ed allenato nel secondo caso il contrario. Il contesto influenza anche le emozioni che si accompagnano al processo creativo stesso: se il contesto è facilitante è molto probabile che la persona si sentirà incentivata e sempre più sicura di sé nella ricerca di una soluzione originale o nuova, percependosi come valido e creatore. Se, viceversa, il contesto è disincentivante, aumenteranno le probabilità di essere ostracizzati e porterà le persone a sentirsi non efficaci o non adeguati rispetto a quello che il contesto stesso richiede.

Qual è la vostra esperienza? Tendete al pensiero divergente o a quello convergente? Com’è lo spazio nel quale vi muovete: facilitante od ostacolante? Se voleste condividere la vostra esperienza, avete lo spazio per farlo!

A presto…

Fabrizio Boninu

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#Iononriparo (2)

just-love

–  Attaccare continuamente l’autoconsapevolezza del reprobo, tramite l’istigazione alla confusione, all’incertezza e all’insicurezza, la promozione di ogni dinamica di autosqualifica e l’imposizione di immagini degradate precostituite. Si lede in questo modo nelle persone omosessuali un diritto umano cruciale: quello di potersi valorizzare nelle forme affettive amorose che più corrispondono alla propria autenticità. Si impedisce al diverso di esprimersi alla pari con gli altri: è la strada maestra per raggiungere anche tutti gli altri obiettivi. In questo modo si impedisce al deviante – e ai suoi familiari – ogni alternativa esistenziale, sociale, etica e prima ancora psicologica. Egli deve vedere davanti a sé solo la distruzione di ogni prospettiva e del futuro, una completa mancanza di speranza e di senso, perdendo ogni sfiducia e aspettativa di bene.

–  Impedire in tutti modi che il soggetto elabori una visione alternativa positiva di sé e della propria affettività: ogni tecnica deve essere impiegata per rendere il soggetto incapace di operare un distacco dalla visione negativa in cui è cresciuto. Egli deve trovarsi così senza punti di riferimento, bandito e disprezzato dalla comunità di appartenenza, squalificato eticamente e psicologicamente e dunque leso nel proprio Sé. Deve arrivare ad autoaccusarsi di negare i valori di correttezza, di seguire le leggi di Dio, della natura, dell’ordine fecondo del mondo.

– Sottoporre le persone omosessuali – e la loro famiglie – a predizioni negative catastrofiche, imputando loro un destino maligno e infelice; e lanciare profezie di sventura perché fatalmente sia avverino. D’altronde, è facile fare profezie negative sul triste destino degli oppressi, perché distruggere le possibilità è assai più facile che costruirne. Ecco perché in questi testi c’è un’insistenza drammatica sulla disperazione e la negatività di ogni cosa che riguarda il gay, così come una massificazione deterministica. Perché se venisse fuori che tante sono le possibilità e le forme di vita, allora vorrebbe dire che differenti sono i destini che le persone omosessuali possono avere. E, dunque, è possibile sottrarsi al percorso nefasto che si vorrebbe loro imporre come destino. Addirittura, è possibile vivere serenamente. Che fine farebbero, allora, le minacce alle profezie apocalittiche così facilmente sollecitate? [1]

Divisione, contrapposizione, espulsione, istigazione, patologizzazione sono solo alcune delle caratteristiche di questo tipo di teorie che basano il loro successo sulla divisione tra una (presunta) normalità da perseguire e un’anormalità da colpire e ostracizzare. Questo bisogno di etichettamento porta a non considerare la storia dell’individuo, le sofferenze che, spesso per la colpevole repressione sociale che ancora circonda le scelte sessuali individuali, caratterizzano la sua vita e anzi, approfittando di questa debolezza e di questo bisogno di (presunta) normalità, cerca di instillare il bisogno di accettazione nel paziente insistendo su quanto potrebbe essere migliore una scelta sessuale che sia socialmente approvata e non repressa ed ostacolata e come questo potrebbe significare minore sofferenza per il soggetto stesso. Quest’ultimo, affidandosi e fidandosi del suo terapeuta, ritiene che una scelta di questo tipo possa essere preferibile e possa evitare alcune sofferenze sebbene sia una scelta che  si accompagna alla repressione e al rinnegare i propri istinti più naturali, più ‘normali’ proprio perché innati

É contro questo tipo di deriva patologizzante che ci siamo impegnati, mettendoci anche la faccia, per ribadire la scorrettezza di questo tipo di pratiche. Pressioni di questo tipo sono profondamente scorrette qualunque sia il tema, dal momento che il terapeuta non ha il compito di dire al suo paziente cosa debba fare/essere, quanto di cercare di capire con lui quali scelte siano più adatte nella sua vita.  E, non dimentichiamolo, costituisce una violazione profonda del Codice Deontologico degli Psicologi il quale, all’articolo 3, sancisce come lo psicologo è consapevole della responsabilità sociale derivante dal fatto che, nell’esercizio professionale, può intervenire significativamente nella vita degli altri; pertanto deve prestare particolare attenzione ai fattori personali, sociali, organizzativi, finanziari e politici, al fine di evitare l’uso non appropriato della sua influenza, e non utilizza indebitamente la fiducia e le eventuali situazioni di dipendenza dei committenti e degli utenti destinatari della sua prestazione professionale.

Insomma ancora una volta il rispetto della persona che ci si siede davanti dovrebbe venire prima di tutte le nostre considerazioni personali, morali o religiose che siano. Questa attenzione è premessa per me indispensabile per svolgere con correttezza e attenzione il delicato lavoro che abbiamo scelto di portare avanti. 

Come sempre chi volesse/potesse condividere la sua esperienza può farlo contattandomi per mail (fabrizioboninu@gmail.com) oppure commentando il post.  

A presto…

Fabrizio Boninu

[1] Rigliano, P., Ciliberto, J., Ferrari, F. (2012), Curare i gay?, Raffaello Cortina Editore, Milano, pp. 170-172

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#Iononriparo (1)

just-loveQualche tempo fa io e la mia collega Carla Sale Musio, aderendo alla campagna nazionale di sensibilizzazione sul tema, abbiamo pubblicato la foto con la scritta #iononriparo. Molti contatti ci hanno chiesto cosa volesse dire quel cartello, a cosa si riferisse e cosa non riparassimo. La maggior parte delle persone pensava fosse legato al fatto che ‘non ripariamo i matti’, e che semplicemente aiutiamo le persone ma non le aggiustiamo. Sicuramente è vero che, nel senso letterale del termine, non ‘ripariamo’ nessuno, ma in realtà il focus di quella campagna era molto più specifico e si riferiva alla netta contrarietà che noi, e moltissimi altri colleghi, nutriamo nei confronti delle cosiddette teorie riparative nei confronti dell’omosessualità. Grazie a questa foto, mi sono reso conto che poche persone conoscono queste posizioni e sarebbe forse il caso di cercare di capire cosa siano e su quali princìpi si basino. Le cosiddette teorie riparative, dette anche terapie di conversione, sono terapie che hanno come finalità la negazione dell’orientamento sessuale dell’individuo e il suo riorientamento verso una sessualità percepita come normale, quindi sostanzialmente ed esclusivamente la sessualità eterosessuale. Le terapie di conversione basano la loro efficacia sulla repressione del proprio desiderio primario per l’assecondamento di un desiderio sessuale considerato più ‘normale’ o socialmente accettato. Gran parte di queste teorie sono sostenute da psicologi o terapeuti fortemente legati ad organizzazioni religiose, ottica che necessariamente altera da principio il lavoro con la persona omosessuale. Queste posizioni sono fortemente osteggiate dalle associazioni di psicologi e psichiatri, sia americani che europei, in quanto forzerebbero la terapia con il paziente verso esiti imposti socialmente e contribuirebbero all’associazione omosessualità=malattia, associazione rinnegata da tempo da tutte le più importanti organizzazioni internazionali di psicologi, nonché dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. 

Quali sono i princìpi sui quali queste teorie si basano? Quali sono le premesse che fondano questa classificazione tra una sessualità ‘accettata’ e una invece inaccettabile e da modificare? Questo lavoro è basato sulla disanima fatta nel testo Curare i gay?(in fondo al post, come sempre, trovate tutti i riferimenti bibliografici) che ha provato a classificare i presupposti metodologici dei quali questo tipo di teorie si fa forte:

– Contrapporre in modo rigido identità maschile e femminile, dentro l’unico ordine naturale possibile, quello eterosessuale. Dunque tutto ciò che si discosta da questo schema binario non può che essere patologia o peccato, più spesso tutti e due.

– Sottoporre l’omosessualità di cui il soggetto è malato a ogni sorta di denigrazione e squalifica – psicologica, etica, religiosa – e precludere al soggetto stesso ogni bene e valore in cui pure il soggetto crede e che gli viene imputato di negare per definizione a priori.

– Contrapporre in modo insanabile il bene e il male, secondo una logica “tutto o nulla”.

– Espellere l’omosessualità dall’Ordine dell’umanità: essa non esiste se non come patologia, chi vuole farne un’identità si contrappone ai principi e alle forme eterne in cui si incarna il progetto di Dio per l’umanità.

– Legittimare, non condannandolo, l’odio sociale, il disprezzo fino all’ostracismo, fino agli attacchi fisici – a partire dalla riprovazione fino all’espulsione da parte della propria famiglia; se il deviante è soggetto all’isolamento e all’emarginazione, che implica la mancanza di ogni supporto, questo è una conseguenza del suo essere. 

– Instaurare un vero e proprio processo di patologizzazione basato sulla disumanizzazione delle persone omosessuali, per arrivare a contestarne l’esistenza. Tale processo si svolge attraverso varie tappe: separare “gli omosessuali” da “i normali”; indicarne le tappe di una progressiva degenerazione; evidenziarne i segni patologici affinché i sani possano esercitare il proprio acume diagnostico; eliminare tutto ciò che contrasta con questa visione, fino a leggerne i segni positivi come contro reazione compensatore fraudolenta; costruire una visione catastrofica deterministica del loro destino; evitare sempre di analizzare il contesto in cui diversi sono costretti a vivere. Viene instaurato un circolo vizioso autogiustificantesi: dal metaforico si passa al corpo e poi al simbolico e quindi al comportamento. Dal disordine del desiderio si passa alla immoralità del comportamento, al danno provocato al proprio fisico, rintracciando in esso i segni che dicono la morbosa malvagità del gay, e poi di nuovo si giunge alla condanna psicologico-morale, stabilita definitivamente in sede etico-religiosa: i gay sono moralmente disonesti perché oggettivamente disordinati.

– Strutturare così un perfetto meccanismo di circolarità paranoica, che genera generalizzazione (“tutti gli omosessuali sono uguali”, cioè malati, ma anche “tutti i gay sono uguali”, cioè perversi), personalizzazione (ciò che vedo dei comportamenti è proprio come la persona è), insensatezza (per essere così devono per forza avere qualcosa di sbagliato), deresponsabilizzazione (se sono così è solo colpa loro). Quando si fa fatica a trovare ciò che si cerca, lo si suppone, e allora scatta il delirio di riferimento e di persecuzione: è il grande complotto della lobby gay, la congiura degli insospettabili corrotti contro gli innocenti.

 

– CONTINUA –

[1] Rigliano, P., Ciliberto, J., Ferrari, F. (2012), Curare i gay?, Raffaello Cortina Editore, Milano, pp. 170-172

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Bambini e internet: che fare? (2)

baby-ipad6) Fate rispettare (e rispettate) queste regole: una volta stabilite le regole e comunicatele a tutti i membri della famiglia, preoccupandosi che siano state capite e condivise, non vi rimane altro (si fa per dire!) che farle rispettare. A questo punto, infatti, di solito nascono i problemi perché far rispettare le regole è spesso impegnativo e difficoltoso. Soprattutto perché, come accennato, anche gli adulti dovranno rispettare le stesse regole pena la perdita dell’autorevolezza. Riprendendo l’esempio di prima, se la regola impone il divieto di utilizzo di tablet mentre si mangia necessariamente anche gli adulti dovranno astenersi dal farne uso. Il rischio è che il bambino percepisca la debolezza della regola e si chieda perché debba rispettarla se anche i grandi non la rispettano. Di solito gli adulti si appellano al loro ‘essere grandi’, status che ai loro occhi li esonera dal rispetto della regola stessa. Credo sia una mossa altamente pericolosa, perché inficia il fatto che la regola valga per tutti, facendo implicitamente credere al bambino che la regola stessa non abbia poi così tanto valore. Altro messaggio implicito è che l’insieme delle regole che strutturano la sua casa non siano poi così ferree e che si possa sempre trovare una scappatoia. State quindi attenti alle regole che imponete, perché sarete i primi a doverle rispettare;  

7) Cercate di stabilire delle regole condivise con i genitori dei bambini che frequentano di più: se il bambino va spesso a casa del suo amico del cuore, cercate di stabilire una relazione anche con i genitori del suo amico. Sarebbe bene cercare di condividere con loro della regole che possano andar bene ad entrambe le famiglie. Questo permetterà di non creare particolare discrepanze tra il vostro contesto familiare e quello della famiglia dell’amico che frequenta. Se voi foste particolarmente rigidi mentre la famiglia del suo amichetto del cuore fosse particolarmente permissiva, si creerebbe una discrepanza che porterebbe il bambino a farsi delle domande sull’assetto che voi avete scelto per la vostra famiglia, e magari a metterlo in discussione. Se anche l’ambiente sociale risultasse coerente, invece, avrete la possibilità di costruire un modello educativo più autorevole. Questo aspetto è molto complesso e necessariamente mediato tra le esigenze di famiglie diverse e con una diversa storia;

8) Chiedete ad altri genitori come si comportino: il punto precedente, forse uno dei più difficili, poneva l’accento sulla possibilità di creare una sorta di rete genitoriale con le persone che vi sono più vicine, come per esempio altri genitori di bambini che frequentano la scuola di vostro figlio. Questo confronto può essere utile per cercare di capire e di riflettere su come gli altri genitori si comportino con i propri figli, facendovi comprendere cosa sarebbe applicabile in casa vostra e cosa non lo sarebbe, cosa funzionerebbe e cosa invece sarebbe controproducente. Se potete, coltivate questo confronto;

9) Utilizzate programmi che consentano di filtrare i risultati: una strategia pratica che potrebbe essere di grande aiuto è quella di utilizzare dei programmi che consentano di filtrare i risultati. Tra le funzioni dei principali motori di ricerca e sui principali browser di navigazione, alcune consentono di filtrare i risultati in base all’età del frequentatore. Nel caso il bambino dovesse rimanere per qualche tempo solo di fronte al computer, sarebbe più difficile che incappasse in risultati indesiderati;

10) Spegnete computer, tablet e smartphone e passate del tempo con vostro figlio facendo tutt’altro: se anche i vostri figli sono nativi digitali, sarebbe bene che godessero del rapporto con voi facendo altro. Cercate di coinvolgerli il più possibile in attività pratiche, ricreative e creative: giocare a pallone, andare in bicicletta, costruire qualcosa, sono attività altrettanto importanti che consentiranno loro di costruire un rapporto con voi in attività non legate esclusivamente alla fruizione di internet.

Quello che avete appena letto non vuole essere un decalogo da rispettare, quanto una proposta di riflessione sul rapporto tra noi, i bambini e la nuova realtà virtuale che avanza. Come sempre chi volesse/potesse condividere la sua esperienza può farlo contattandomi per mail (fabrizioboninu@gmail.com) oppure per telefono (3920008369). 

Che ne pensate?

A presto…

Fabrizio Boninu

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Bambini e internet: che fare? (1)

baby-ipadLe implicazioni di internet, dell’uso dei social network e le possibili conseguenze rimangono spesso sottovalutate a livello genitoriale. In studio capita che genitori mi raccontino, apparentemente poco interessati al tema, che i figli passano molto tempo su internet e rimangano spesso soli di fronte al computer, senza l’assistenza e l’accompagnamento di un adulto. Questi genitori, molto accorti, premurosi e solletici per la salute dei loro figli, non si sognerebbero mai di lasciare, per esempio, il bimbo da solo con in mano un coltello o un paio di forbici. Mi chiedo, allora, se non ci sia una minimizzazione e una poca consapevolezza del significato di internet e degli aspetti che tramite internet vengono veicolati. Credo che molti genitori vedano il web e tutta la realtà virtuale come una specie di gigantesco gioco, qualcosa che ha solo vaghe influenze sul mondo reale. Questa sottovalutazione passa spesso anche ai bambini e ai ragazzi i quali poi si ritrovano a trascurare in maniera pericolosa le conseguenze di quello che fanno/postano/condividono online (vedi, per esempio, i molti casi di cyberbullismo sempre più frequenti). 

Partendo da queste premesse, ho pensato di stilare una sorta di decalogo di come accostarsi al meglio alla realtà virtuale, rendendo questa esperienza non solo produttiva, ma anche gratificante sia per i piccoli che per gli adulti che si occupano di loro:

1) Non lasciate soli i bambini di fronte al pc: la prima regola in assoluto sarebbe quella di non lasciare soli i bambini di fronte al computer: la loro curiosità e la loro buona fede potrebbe renderli facili prede di siti poco raccomandabili che, proponendo cartoni animati o immagini molto colorate, faccia assistere loro ad episodi di natura sessuale esplicita oppure di violenza esplicita. Un adulto che li accompagni e che condivida con loro quello al quale assistono renderà l’esperienza produttiva per diversi aspetti: ci sarà la possibilità di filtrare ciò che vedono, non si sentiranno soli e si sentiranno supportati nei loro interessi;

2) Parlate di ciò che i bambini vedono: la seconda regola riguarda i possibili ‘incidenti di visione’: può capitare che navigando su Internet si assista ad episodi o a scene inadatte. Se dovessero vedere qualcosa di inopportuno non cercate di evitare di parlarne per quanto la cosa possa imbarazzare anche voi. Non cambiate discorso, non distraete il bambino ma lasciate che tutte le curiosità abbiano la possibilità di venire fuori e di essere espresse. Il punto è che i bambini si accorgono che quello che hanno visto non era adatto loro e che, probabilmente, è una cosa che vi mette in difficoltà. State attenti a non censurare questo bisogno del bambino, lasciate che i dubbi e le perplessità possano essere comunicate. L’aspetto importante è che sentano che gli adulti intorno a loro siano in grado di accogliere le loro paure, i loro dubbi, le loro domande e contenerle senza lasciarsene spaventare. Questo permetterà loro non solo di significare quello che hanno visto ma farà si che sia legittimata l’espressione di ogni emozione, ogni sensazione che possono provare sapendo che c’è un adulto vicino a loro in grado di comprenderla e accoglierla;

3) Stabilite una serie di regole col partner per cercare di essere coerenti nell’imposizione e nel rispetto delle regole: altro passo importante è la condivisione delle norme tra voi e il vostro partner facendo in modo che le regole siano condivise all’interno della coppia genitoriale e siano perciò fatte rispettare coerentemente dall’uno e dall’altro genitore. Assisto spesso alla ‘polarizzazione’ dei ruoli genitoriali, con un genitore ‘buono’ e uno ‘cattivo’, uno permissivo e l’altro intransigente. Questa ripartizione permette ai figli di incunearsi tra i genitori e ottenere ciò che desiderano. La condivisione delle regole da stabilire renderà entrambi i genitori partecipi nel farle rispettare e renderà più difficile l’interposizione dei figli negli spazi lasciati dai genitori; 

4) Domandatevi e discutete in coppia quale sarà l’età per concedere: provate a chiedervi quali siano le età nelle quali concedereste l’uso di determinati strumenti: a che età pensate possa essere consono dare un telefono cellulare al proprio figlio? A che età pensate possa essere necessario farlo iscrivere su un social network? Una volta iscritto, quale limitazioni avrebbe? Dovrebbe essere accompagnato mentre sta sul social network? Nel caso utilizzasse un telefono cellulare con connessione ad Internet, quale tipo di limitazioni avrebbe? Queste domande vi aiuteranno a chiarire i punti per voi importanti e vi aiuteranno ad individuare quali regole pensate sarebbe necessario stabilire;

5) Stabilite, nella fruizione di internet, delle regole sull’uso del pc (o tablet o smartphone): se un bambino sa che insistendo avrà il permesso di utilizzo del pc o di tablet, saprà di avere un grande potere in mano e che, utilizzando la reazione giusta, potrebbe ottenere ciò che desidera. Se in famiglia esiste invece un codice di regole, ben strutturato, ben motivato e coerente con le esigenze familiari sarà ben difficile per il bambino cercare di infrangerlo. Se, per esempio, la regola è che durante i pasti non si usano telefoni o tablet perché si sta insieme, si mangia e si parla, la chiarezza e la coerenza della regola permetterà al bambino di rispettarla. Naturalmente una regola è coerente se la stessa regola vale anche per gli adulti (vedi punto 6!);

– CONTINUA –

 

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